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Partitari e mastri fabbricatori di Crotone del Seicento e del Settecento

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Partitari e mastri fabbricatori di Crotone del Seicento e del Settecento
Archivio Storico Crotone

Mastri-e-discepoli

Maestranze calabresi in una foto degli inizi del secolo scorso.

Già all’inizio del Cinquecento i conti di Santa Severina Andrea Caraffa ed il nipote Galeotto si erano serviti per la costruzione delle fortificazioni di Santa Severina e di Le Castella di mastri fabbricatori provenienti dall’area campana, soprattutto della città di Cava. Nella numerazione dei fuochi di Castellorum del 1532 sono annotati il Mag.r Jannottus de Consilio di 55 anni e Raynaldus de Cunto di 20 anni “Fabricatores sunt de casali veteris de civ.te cavae”. (ASN, RCS Numerazione dei fuochi n. 133 – Num.ne della T.ra delle castella (1532), f. 95r).

Anni dopo ritroviamo altri mastri fabbricatori provenienti dalla stessa area geografica, che sono addetti a lavori di fortificazione per conto della Regia Corte.

Il 18 agosto 1582 in Napoli, nel “bando da parte della sacra R.a M.ta et della sua R.a Cam.a della Summaria sopra del partito della frabica se have da fare nella città di cotrone” sono presenti i mastri Gio Loise e Silvestro de Amore “de civitate nocerie paganorum”.

I capitoli e convenzioni stipulati dai mastri con la Regia Corte documentano i rapporti tra i due contraenti:

“Noi p.ti mastri promettemo di fare detta frabica de Cotrone a car.ni tridici et mezo la canna con questo che le t.re siano tenuti de contribuire à tutto quello che hanno contribuito per lo passato justa la forma deli capitoli de m.o Gio. Petro Colonna m.o pompeo con conditione che detta R.ia Corte ne habbia da dare docati doi milia anticipati da excompotarnosi a ragione di trenta per cento. Item noi p.ti mastri volemo che nci siano misurati tutti vacanti per pieno et che la detta R.ia Corte nce sia tenuta pagare alla ragione de uno carl.no lo palmo di tutti quelli cantoni che entriranno alla detta frabica et che se habbia a mesurare in t.ra et per la assettatura nce li habbia a mesurare per frabica verum detta R.ia Corte sia tenuta de punirci tutta quella quantita di calce bisognera per detta frabica a sue spese et quella consignarcela dove ci sera pio comodo.

Item che detta R.a Corte sia tenuta darce a sue spese tutta quella quantita di ligname che bisognera per detta frabica tanto per ponti quanto per forme, et per fare due barrache et tutte quelle quantita di chiodi che bisogneranno sup.a cio et che le forme si habbiano di misurare una volta et meza,

Item che noi p.ti mastri debbiamo essere franchi di cabelle dohane passi et scafe.

Item che noi p.ti mastri possamo andare armati per tutto il Regno de nap. Et precise per la provintia de Calabria Citra et Ultra et per le t.re de essa de tutte et qual sivoglia sorte di arme tanto offensive quanto defensive de di et de notte con lume reservati pero scupettoli et daghe et altre reservate alle… et che debbiamo essere suttoposti al commissario della frabica. Item che sia licito a noi predetti mastri pigliare casi dove pio comodo nci sera salvo mediante. Item voleno de pio che possiamo pigliare tutte et qualsivoglia herbagio per pasculare dove pio comodo serra a noi p.ti mastri salvo mediante. Item volemo che li bovi de noi p.ti mastri dannagiando qualsivoglia loco non siamo tenuti a pagare pena alcuna solo il danno dato. Item volemo noi p.ti mastri che tutta la gente di Cotrone che lavorando in detta hopera siano et debbiano essere franchi de allogiam.ti et commandamento attuale ma che siano tenuti de contribuire in pecunia et ancora possano andare armati como andamo noi p.ti mastri. Item che detta R.a Corte debbia ponere li misuratori a sue spese ogni giorni quindici se habbia de fare scandaglio et pagamento et ogni mese misura et pagamento finale. Item che noi p.ti mastri non possiamo demandare recompensa. Item che finiti che haveremo de excomputare noi p.ti partitari li sop.ti d.ti dui milia solvendi anticipati ut sup.a che detta R.ia Corte sia tenuta pagarci altri docati cinque cento li quali promettemo excomputarli a detta ragione et allumandosi la candela sup.a de detta offerta che noi p.ti mastri debbiamo quadagnare ducati dui cento” (ASN, Dip. Som. Torri e castelli Vol. 35, f. 27).

1578 (baluardo Santa Maria)

Crotone, la data “1578” graffita sull’intonaco del baluardo Santa Maria.

Gli stessi capitoli e condizioni saranno validi anche per i mastri fabbricatori che prenderanno l’anno seguente a partito la “fabrica” della cortina della città di Crotone detta Capperrina. Nei capitoli stipulati per la fabbrica di Crotone tra la Regia Corte ed il mastro Gio. Pietro Colonna de Corigliano si legge: “Voleno li sopra detti m.ri havendo de bisogno de gente, carra, bovi che li possa pigliare a commandamento in città o donne meglio comodo sara et che la R.ia Corte sia tenuta a condurre et pagarne a giusto prezo et havendo bisogno di barche ….”. Lo stesso è scritto in quelli tra il mastro Col’Antonio de Vito di Napoli: “Che detto m.ro col’ant.o si possa pigliare quanto va et vene calvaccatura, stantia, strame et letto mediante salario per la prov.a de calabria citra et ultra, et vole detto m.ro col’ant.o licentia de possere andare armato de tutte sorte d’arme non prohibite levate pero daghe et scoppettuolo per tutto lo regno tanto dentro napole q.nto fuora de di et de notte senza lume per esso m.ro col’ant.o et dui altri operarii per che questo lo cerco per havere da me per lochi suspetti et per boschi” (ASN, Dip. Som. Torri e Castelli Vol. 35, ff. 27 sgg.).

 

I mastri fabbricatori della città di Cava e la costruzione delle torri regie

Alla fine del Cinquecento e nei primi anni del Seicento numerosi mastri fabbricatori provenienti dalla città di Cava sono addetti alla costruzione delle torri regie costiere. Sul finire del Cinquecento i mastri fabbricatori della città di Cava Adante Cafaro, Decio de Mauro e Ippolito Jordano costruiscono la torre di San Leonardo dei gesuiti. Nei primi anni del Seicento Adante o Dante Cafaro costruirà la torre regia di Crocchia nella marina di Cropani e Marino de Syo la torre regia di Jacopio in territorio di Le Castella.

Torre di capo Pelegrino (torre di Scifo)

Crotone, torre di capo Pelegrino (torre di Scifo).

Partitari, mastri fabbricatori e fabbriche regie

Durante il Viceregno le fortificazioni della città e del castello di Crotone fanno parte delle fabbriche regie. Durante il Cinquecento la costruzione delle fortificazioni di Crotone avevano favorito l’arrivo nella città di mastri fabbricatori napoletani, che avevano preso a partito in Napoli i lavori dalla Regia Camera. Di solito la Regia Camera “per ordine di Sua Ecc.a” affidava i lavori con patti e condizioni ad un partitario principale napoletano, il quale a sua volta ripartiva il partito, aggregando altri partitari locali, stipulando con essi “atti et instrumenti”. Ciò avveniva in quanto la Regia Camera anticipava una parte della somma occorrente per compiere l’opera, mentre il rimanente doveva anticiparlo il partitario. All’atto della stipula del contratto il partitario, o mastro fabbricatore, doveva dare la “plegeria” della somma totale del costo dell’opera. Di solito egli non aveva la possibilità di garantire tutta la somma, doveva perciò accordarsi con altri mastri fabbricatori e con nobili facoltosi del luogo, dove era situata la costruzione, ai quali ne dava una parte, con patto e condizione che essi “dovessero in suo nome dare detta plegeria”. In tal modo egli si obbligava verso altri e ad essi poi doveva chiedere di volta in volta il denaro per proseguire nei lavori, con grave danno per il procedere dei lavori: “… et perche per continuare et reducere afine detto cavamento et fabrica bisogniano quantita di ferri comperare bovi petri et pagare mastri et manipoli quali fatigano in detto cavamento atteso se moreno de fame per non possorno essere pagati dal thesorero de calab.a ne et suo loc.te il qual dice volere novi ord.ni per pagare et non bastarli quelli espediti ha recercato esso partit.o più e più volti detto S.r barone che li desse d.ti quattro cento per possere comperare li sup.ti cosi altrim.te seria de bisognio levar mano di detta opera ed andarsene in nap. adimandar iustitia…” (ASCz, Cart. 15 Not. Marco Antonio Pantisano, Crotone 1583, f. 246).

Ogni partitario e mastro fabbricatore, per compiere la parte avuta in appalto, aveva alle sue dipendenze “la sua gente” composta da salariati: “fatigatori”, mastri, manipoli e garzoni. I lavori erano sotto la sorveglianza di un commissario generale, mentre ingegneri regi si interessavano ad ispezionarle ed a misurare il lavoro compiuto. In seguito, finiti i grandi lavori e completata la fortificazione, su ordine e mandato della Regia Camera un commissario generale emanava i bandi per prendere a partito i lavori di ammodernamento e di conservazione. “Allumata la candela” nella piazza pubblica di Crotone e proprio nel sedile è emanato il bando con la descrizione dei lavori e con i capitoli e le condizioni, che si devono osservare. Seguono le offerte dei mastri del luogo ed il partito rimane a carico di colui che ha offerto la condizione migliore per la Regia Corte, cioè all’ultimo offerente prima dell’estinzione della candela.

Vicerè Juan de Zuniga de Miranda (1586 - 1595)

“MIRANDA”. Iscrizione sull’omonimo spontone che ricorda il vicerè Juan de Zuniga de Miranda (1586 – 1595).

Nella seconda metà del Cinquecento operarono a Crotone i mastri fabbricatori Gio. Pietro Colonna, Colant’Antonio de Vito, Pompeo Stinganello, Alfonso Urso, Silvestro e Gio Loise de Amore, Tommaso de Napoli, Cesare de Minico de Messina.

 

I Messina

I Messina si accaseranno e continueranno a prestare la loro opera di mastri fabbricatori in Crotone. Finiti alla fine del Cinquecento i grandi lavori delle mura della città e del castello, durante il Seicento ed il Settecento le fortificazioni avranno bisogno di adeguamenti, di ripari, di rinforzi e di conservazione. I Messina, da soli o in società, conserveranno quasi il monopolio dei lavori alle fabbriche regie (mura e castello di Crotone e torri regie costiere).

Essi sono già presenti in città alla fine del Cinquecento. Il mastro Cesaro de Minico de Messina di Napoli assieme al socio mastro Cola Antonio de Vito di Napoli nel 1583, hanno il partito della “fabrica del belguardo del castello et dela cortina della città di Cotrone”, secondo le istruzioni date dall’ingegnere Ambrosio Attendolo. Essi inoltre sono anche impegnati nella costruzione della torre di Belvedere come risulta da un atto notarile dell’epoca.

“Io m.ro cola ant.o de vito per la p.nte confesso essere il vero et legitimo debitore di m.ro cesaro de minico de messina di nap. In docati novanta otto di argento q.li docati quanto sono che che io li devo dare q.li me li ave prestato gratis et detto m.ro cesaro sop.to promette cassarme tutti q.nti instrumenti et cautele o obliganze che apparressero tanto di bestie quanto de ogni qual si voglia scrittura per insino al di de oggi annuando li instrumenti de la opera di cotrone et di bello vedere et de la ditta opera di bello vedere che ne aggiamo da stare in comone cossi in la perdita come nel guadangnio et che non aggiamo de cacciare in danno et inlese li pleggi che anno plegiato a noy in nap. Per la ditta torre et per essere la verita avimo fatto fare la p.nte per mano di thomase de nap. Quale tenemo per li n.ri conti et sia in fede del vero io thomase sop. Ho fatta la p.nte per volunta di una parte et laltra oggi che sono li 16 di giuglio 1583. Io thomase de nap. Ho scritto q.nto sopra. Io cola ant.o de vito accetto q.nto di sopra” (ASCz, Cart. 15 Not. Marco Antonio Pantisano, Crotone 1583, f. 109).

Cesaro de Minico di Messina di Napoli il 20 aprile 1583 aveva testimoniato a favore del commissario della fortificazione del castello e della città di Crotone Raphael Millas, il quale era stato incolpato di avere fatto utilizzare per la costruzione le pietre di una vecchia torre del castello. Allora il De Messina aveva dichiarato di avere circa 30 anni, “che e frabicatore et ha fabricato in napoli et in altri lochi de q(ua)n(do) era figliolo che possea portare la gacrita in collo ed attualmente “have pigliato il partito del cavamento et fabrica che se fa al presente in detta città de cotrone nel loco dove si dice la capperrina”. Rilasciata la sua testimonianza si firmava con una croce in quanto non sapeva “scribere” (ASN. Torri e Castelli cit., ff. 166v-167r).

Cruche ( spontone de Miranda)

Crotone, “cruche” di livello graffita sull’intonaco dello spontone de Miranda.

Il mastro fabbricatore napoletano Minico di Messina, sceso a Crotone per partecipare ai lavori di fortificazione della città, del castello e per la costruzioni delle torri regie, si accaserà a Crotone. Da solo, o assieme ad altri mastri, riuscirà ad avere il monopolio dei lavori, che nel tempo metterà all’asta nella piazza di Crotone la regia corte. Aggiudicatosi i lavori per la costruzione della torre regia del Marrello in località Nao, il 10 ottobre 1602 Minico de Missina rinuncia poi in favore di Alonso Corrales e del mastro Renzo Pecoro, in quanto “se ritrova impedito di infermità, et altre cose che l’obstano per le quali non può con quella diligentia che si richiede eseguire et portare in perfectione detta opera” (ASCz, Not. Jo. Fran.co Rigitano, 1602, ff. 350-351).

Il 13 aprile 1613 inizia la costruzione del nuovo ponte di ingresso alla città. Il lavoro è affidato al partitario Nicola Antonio de Vito, che ha come fideiussori i soci Minico de Messina e Petrutio de Franco. I lavori procedono tra molte difficoltà sotto la vigilanza del soprastante alle fortificazioni di Crotone, lo spagnolo Alonso Corrales.

Dopo aver comperato calce, pietra, arena ed altri materiali, nell’agosto di quell’anno si scava “un cavamento in quadro dieci palmi da palmi quaranta in circa dove dovranno essere gettate le fondamenta del pilastro che “se haverà da ponere sopra la lamia” che dovrà venire sopra la porta della città. I mastri addetti allo scavo, eseguito dentro le mura e propriamente dove deve essere costruito il corpo di guardia, fra “l’uno muro et l’altro della città et proprio dove è il terrapieno solito mettersi per fortificatione delle muraglie”, tuttavia trovano ostacoli sia per l’acqua che per alcune pietre e per paura di crolli sospendono il lavoro perché “non si trova persona che scenda a basso in si tanto profondo cavamento”. Le loro proteste tuttavia non trovano ascolto nel soprastante che ordina di proseguire mettendo “puntilli” in modo da approfondire lo scavo, finché non troveranno terreno fermo, “tanto più che detto pilastro haverà di sostentar il peso, et più che sostenera il pilastro si havera da fare sopra il muro vecchio della città a paragon del quale havera de venire”. Il capitano Don Didaco de Ayala, generale commissario delle fabbriche, anticipa nell’agosto 1613 più volte denaro ai mastri “per servizio della fabrica e ponte” (ASCz, Not. Dionisio Speziale B. 108, a. 1613, ff. 100, 120-121, 148).

Ritroviamo il mastro fabbricatore il 13 novembre 1630 quando, essendo castellano il capitano Juan de Sereseda y Oberon, si aggiudica il bando “per le fabriche da farsi nel regio castello”. Tra coloro che parteciparono, oltre al De Messina, ci sono Petruzo di Franco, Paulo Spina, Oratio Vetero, Marco Massaro, Luca Mazeo ed il figlio di Minico, Luca di Messina. Nell’occasione sono descritte tutte le condizioni ed istruzioni per portare a compimento l’opera:

“m.ro Minico di Messina m.ro fabricatore havere inteso publicar banno a chi vorra pigliare a partito le fabriche e repari del R.o Castello di Cotrone compara avanti il S. Don Juan de Sereseda a dar l’offerta che se allumera la candela a chi fara meglio conditione in benefitio della R.a Corte esso Minico offre di pigliare a partito tutta d.a opra di fabrica che s’havera da fare in d.o R.o castello portando tutti li materiali a sue proprie spese alla rag.e di carlini quaranta la canna con l’infra.tti patti, capitoli e conditioni vd In primis esso mastro minico offere far tutta la fabrica che havera da fare in d(ett)o R.o castello rustica alla rag.e di car.ni 40 la canna piccola secondo si costuma et usa nelle fabriche si fanno nella Città di Napoli et volendosi fenestra o porta che sia pagato vuoto per pieno ponendoci tutti li materiali che sonno necessari cossi pietra, calce, arena, acqua, mastria a tutte sue proprie spese dandoseli però il disegno seu traza dal R.o ingegnero accio possa far l’opera perfetta et bona come conviene per servitio della Reg.a Corte.

Item bisognandoci cantoni in d.a opra se offre farla a rag.e di grana 15 il palmo lavorato e assettato e per l’assettatura li sia pagata per fabrica.

Item bisognandoci lamie che le siano pagate per doppie come si costuma in Napoli e bisognandoci frame di legname li sia pagata per tanta fabrica e volendoci terra pieno che sia pagato a rag.ne di car.ni 33 la canna cuba, bagnato e ben battuto il terreno accio venghi perfetto detto terra pieno.

Item bisognandoci cavamenti li sia pagato allo stesso prezzo.

Item che havendosi bisogno de ingegnero o altro prattico di fare scandaglio della opra che s’havera fatto sia tenuta la Regia Corte pagarlo e non esso mastro.

Item che havendoci da asistere soprastante in d.a opra l’habbi da pagare la Regia Corte e non esso partitario.

Item che ogni fine mese si habbi da fare mesura ò scandaglio dell’opra che se li farà a spese della R.a Corte.

Item che per quella quantità che ascendera il partito se li habbi da dare a esso mastro per anticipatione la terza parte de denaro che importera d.o partito e che se li paghi in questa Citta di Cotrone tutto il denaro che importera d.o partito offerendo esso mastro minico di dar plageria sufficiente e idonea in questa città di Cotrone per sicurta della R.a Corte.

Item che havendo portato li materiali per dar principio alla fabrica p.tta la reg.a Corte sia tenuta darli l’altro terzo dell’anticipatione del denaro accio possa continuare per l’altra terza parte e ultimo pagamento con la sud.a plegeria e bisognando incutare in alcun servitio di d.o regio castello l’habbi da pagare a gr.quindici la canna a tutte sue spese proprie e bisognandosi astrachi li siano pagati alla solita raggione” (ASCz, Not. Felice Protentino B.118, a.1630, ff.141-142).

I Messina si uniranno a Crotone con altre famiglie appartenenti al ceto della “mastranza” tra le quali i Marturano, gli Urso, gli Squillace e gli Asturi ed oltre a prestare la loro opera nei lavori alle fortificazioni della città, saranno pubblici apprezzatori e costruttori di case, casini, torri ecc.

 

Luca de Messina

Luca de Messina, figlio di Minico, si imparentò con i Morano, abitò in parrocchia di Santa Vennera vicino allo spontone de Miranda e seguì le orme paterne.

Il 17 dicembre i fratelli Marco, Didaco e Io. Paulo Morano dotano la sorella Dianora, che sposa Petro Gauteri. All’atto intervengono anche Minico ed il figlio Luca Messina. Tra i beni dotali promessi dai fratelli Morano alla sorella ci sono ducati 50 “gli stessi che devono dare Minico e Luca de Messina per la vendita della meza casa d’essi di Morano in comune et indiviso posseduta con detto Luca loro cognato sita dentro la città nella par. di S. Vennera iusta laltra meza casa di d.o Luca via pp.ca et rivellino della città venduta alli p.tti di Messina” (ASCz Not. F. Protentino B.118, a. 1629, f. 113).

Il 27 dicembre 1636 compare in un atto del notaio Felice Protentino (ASCz. B.119, a.1636, ff. 138v -140) assieme al figlio Carolo. In quel giorno sono stesi i capitoli matrimoniali tra Popa, o Hippolita, Mazzulla, figlia di Gio. Tomaso e di Vittoria Petrolillo e Carolo Messina, figlio di Luca. Tra i figli di Luca di Messina sono ricordati Carolo, Jo. Andrea, Josepho, Antonino e Jacintho.

Baluardo Don Pedro Stelle

Crotone, stelle graffite sull’intonaco del baluardo Don Pedro.

I fratelli Messina

Il 20 luglio 1657 presso il notaio Hieronimo Felice Protentino i figli di Luca e fratelli Carolo, Jo. Andrea, Josepho, Antonino e Jacintho de Messina stabiliscono la dote della sorella Angila de Messina che va sposa a Marcello Marturano, figlio di Gio. Dionisio. La dote sarà poi consegnata il 25 agosto successivo. Entrambe le famiglie Messina e Marturano sono costituite da mastri (ASCz, Not. H. F. Protentino B. 229, a. 1657, ff. 103v-104).

 

Carolo ed il figlio Gio. Tommaso Messina

Carolo Messina, figlio di Luca, il 10 aprile 1641 acquista dal reverendo Petro Pelusio un casaleno “seu locum olim fuit domus in par.a S.tae Venerae jux. domum dico alium casalenum quod fuit de jurepatronato illis de Foresta” (ASCz, Not. Protentino B.119, fs. 1641, ff. 20v-21).

Il 26 novembre 1663 Laurentio de Vennera ed il figlio Gio. Tomaso sono indebitati con Carolo Messina. Per pagare il debito il De Vennera vende la casa dotale della moglie Laura d’Oppido. La casa è apprezzata dai mastri fabbricatori Gio. Andrea de Messina e Giulio Lucifero (ASCZ, Not. Pelio Tiriolo).

Nel 1671 Carolo era già morto. Il figlio, il mastro Gio. Tomaso Messina, compare in un atto notarile assieme alla moglie Lucretia Urso. (ASCz, Not. Peleo Tiriolo, 23 luglio 1671). Elisabetta Messina, figlia di Carolo sposò il milite del castello Bernardo Ximenes.

Baluardo Santa Maria

Crotone, la data “1657” incisa su una cucitura di riparo del baluardo Santa Maria.

Giuseppe de Messina

Il 20 aprile 1664 Gio Andrea di Messina e Gioseppe de Messina mastri fabbricatori “esperti” della città di Crotone apprezzano e stimano per conto dei frati conventuali una torretta nel luogo detto “li Rivellini” in parrocchia di S. Maria Prot. La Torretta apprezzata per duc. 60 è venduta dai frati a Domenico Suriano (ASCz, Not. Giuseppe Lauretta B. 311, a. 1664, ff. 67v-67).

Il mastro fabbricatore Gioseppe Messina, il mastro carpentiere Mario Marturano ed il mastro “ferraro” Domenico Squillace il 24 ottobre 1670 vincono l’appalto dei lavori alle fortificazioni della città. Essi devono fare “nel cavaliero un astraco di calce et arena presato et sotto detto astraco la rizza butante di palmi 70 lungo et 25 largo con il suo muretto al terreno grosso dui palmi et fundo tre palmi, il quale ha da venire al pare di detto astraco, al quale si haverà da punere li cannoni con fare quattro torneri nel muro dove verra detto astraco per detti cannoni. Di più nel baluarte di sopra l’Armi fare uno muro a pare dove sta uno cannoni con votare una lamia di palmi cinque larga et sopra lastraco dell’istessa maniera al pare dell’istesso muro et tagliar un muro tre palmi per la riterata di un cannoni et anche di fare dui rastelli di farna nel soccorso di questa città nell’istesso modo che al presente sono et di accomodare uno di quello alla porta del d.o soccorso toccante mare et di ferrar dui rastelli cio è all’ultimo rastello li chiodi bisogneranno, et a quello di mezzo accomodar il ferro vecchio et fare tutto quello bisognerà, et di fare una porta di farna nella munitione di guerra afferrata dentro et ponerci tutti li ferri che vi bisognano” (ASCz, Not. Antonio Varano B. 334, a. 1677, ff. 93-94).

Il 3 agosto 1681 il mastro fabbricatore Gioseppe Messina vince il bando per importanti lavori al castello; lavori che nell’aprile 1682 sono interrotti da un ordine della Vicaria, che proibisce al mastro di continuare se prima non giungerà il regio ingegnere. I lavori tra l’altro, prevedevano “… Dieci canni di pietra per fare una impetrata sotto la fabrica facienda sotto la Marchisana, mastria per far detta impetrata ; per cavar tutti li pedamenti che doverà venire d.a fabrica cioè per la scarpa che si deve fare nella marchisana, pedamento per li cinque pileri di palmi dieci di fondo et più altri 300 di pedamento di dieci palmi di fondo …” (ASCz, Not. Antonio Varano B. 335, a.1681, ff. 42-44).

Recipiente (baluardo santa Maria)

Crotone, figura di recipiente graffita sull’intonaco del baluardo Santa Maria.

Gio. Andrea de Messina

Il mastro Gio. Andrea Messina operò intensamente nella seconda metà del Seicento, epoca segnata da una grave crisi economica e da pestilenze. Lo troviamo spesso assieme ai mastri Giulio Lucifero e Giuseppe Messina. Egli apprezza le case messe in vendita da coloni falliti o ripara e restaura case di nobili.

Il 26 novembre 1663 i mastri fabbricatori Gio. Andrea de Messina e Giulio Lucifero apprezzano la casa di Laura d’Oppido (ASCz, Not. Peleo Tiriolo). Il 20 aprile 1664 Gio Andrea di Messina e Gioseppe de Messina mastri fabbricatori “esperti” della città di Crotone apprezzano e stimano per conto dei frati conventuali una torretta nel luogo detto “li Rivellini” in parrocchia di Santa Maria Protospatari. (AS.Cz, Not. Giuseppe Lauretta B. 311, a. 1664, ff. 67v-67). Il 5 maggio 1670 Gio. Andrea Messina e Giulio Lucifero valutano una casa appartenente al convento di San Francesco di Paola. Il 15 novembre 1670 Gio. Andrea Messina e il mastro carpentiere Paulo di Sanda per ordine di Felice Barracco fanno dei “ripari necessari” alla casa che il Barracco “tiene in godere del S.r Fabritio Spina” (ASCz, Not. Pelio Tiriolo B. 253, a. 1670, f. 156). Il 6 febbraio 1671 Gioseppe e Gio. Andrea Messina apprezzano la casa dei coniugi Cristofaro Pallone e Vittoria Berlingeri. Il 30 aprile 1673 Gio. Andrea Messina e Giulio Cesare Lucifero stimano una casa; entrambi si firmano con una croce essendo “Idioti”.

Sposato con Isabella Squillace possiede come bene dotale “una continenza di case palaziate in più et diversi membri, con scala di pietra, puzzo et pila sita dentro questa città nella parrocchia di Santa Veneranda, confinante con la casa di Gio. Geronimo Lanocita, via pubblica e altri confini.” Mastro fabbricatore ma anche mercante di grano, essendo indebitato, il 14 dicembre 1680 prende in prestito 40 ducati, impegnandosi a pagare annui duc.4 al procuratore della confraternita della SS.ma Pietà.

Tuttavia a causa dei debiti contratti per la scarsità delle annate, Gio. Andrea è perseguitato dai creditori e per non finire in prigione si rifugia in una chiesa. La moglie Isabella Squillace fa presente che, poiché il marito essendo rifugiato non può lavorare, “vengono tutti a morirsi di fame”. Perciò per sfamare sé ed i figli, chiede di contrarre un ulteriore prestito di duc. 60 ad annuo censo sulla sua casa dotale (ASCz, B. 335, a.1680, ff. 86-88, 92).

Spontone de Miranda

Crotone, graffiti con la data “1597” sull’intonaco dello spontone de Miranda.

Messina Antonino

Messina Antonino operò nei primi decenni del Settecento. Nel gennaio 1714 i mastri fabbricatori Andrea Miscianza, Antonino Messina e Francesco Rodrigues vincono il bando per i lavori da farsi nel castello. Tra i lavori da eseguire ci sono numerosi “ripezzi”: “22 canne e mezzo di fabrica tra nova e ripezzi, et altri ripezzi necessarii ne med.mi quartieri, astraco nella cantina, astraco nel primo magazzino, ripezzi da mastri e toniche nelli magazzini, e di scoprire e coprire di quartieri, corpo di guardia di notte, magazzini, monitione di guerra case delli S.ri castellano e tenente, impennata nella chiesa e ponervi diece mila ceramidi di fare due scalette di fabrica, di fare tre ammattonate e ponerci diecemila mattoni di taglio et ogni altra cosa necessaria”, “legname di porte e finestre, suoli e tetti di tavole di rosso, ponte e rastelli di farna, ponte a levatore, suo coscinetto di farna della porta del soccorso, antenna per il stendardo reale, corde per d.a antenna e stendardo con tutto il materiale necessario per d.a opera” (ASCz, B. 611, a. 1714, ff. 77-87; 99-106)

crotone baluardo miranda

Crotone, graffiti con la data “1597” sull’intonaco dello spontone de Miranda.

Messina Isidoro

Il mastro muratore Isidoro Messina fu apprezzatore di case e mercante di grano. Egli prestò più volte la sua opera nel monastero di Santa Chiara. Nel 1702 assieme ad Antonio Sicilia stima il valore di una casa, sempre in quell’anno ripara le vetrate delle clarisse: “A 22 di Novembre 1702 habbiamo ric.to due vitriate per il nro refittorio quali costorno d.ti sette e grana ottanta delli quali habbiamo dato al n.ro procuratore carlini trenta che restitui m.o Isidoro Messina che li dovea 4 – 4 – 0” (Platea del Monastero S. Chiara, 1702 /1703). Anni dopo interviene nel dormitorio delle clarisse ed in alcune case appartenenti al monastero: “7 febraro 1707 per maestria fatta nel dormitorio (del monastero di Santa Chiara) che casca da M.o Isidoro 03 – 3 – 0”, “Adi 15 7bre pagato m.o Isidoro Messina per fabriche fatte nelle case di Nola come per fede 30 – 0 – 0” (“Esito di spesa per robbe à benef.o del ven. Mon.o di S. Chiara dalli 9 8bre 1706”).

Il 27 aprile.1711 i mastri Isidoro Messina e Giuseppe Gerace, su richiesta dei Coniugi Bruno Calvello e Prudentia Petrolillo, procedono alla divisione di un palazzo in parrocchia di Santa Maria Prot., che è posseduto in comune con i coniugi Pietro Greco e Lucrezia Petrolillo (ASCz, B. 611, a. 1711, ff. 42-43). Isidoro Messina assieme ai suoi fratelli abitò nella casa che fu dei suoi genitori in parrocchia di Santa Veneranda. La casa era gravata da un censo annuo di ducati sei dovuti alla confraternita della SS. Annunciazione ed i suoi magazzini, dove ammassava il grano, situati dietro il convento dei cappuccini da un annuo censo di duc.4 per capitale di duc. 50 (AVC, Anselmus, 1720, ff. 49, 50v).

frutto ( baluardo del fosso del casrello)

Crotone, figura di frutto graffita sull’intonaco del baluardo del Fosso del castello.

Messina Omobono (Bonomo)

Durante il Settecento anche se diminuiscono i lavori alle fabbriche regie aumentano la costruzione di magazzini fuori mura e dei palazzi all’interno della città. In questa attività opera soprattutto Omobono Messina assieme ad altri mastri muratori originari del casale di Rogliano.

Il 4 agosto 1714 i mastri muratori Nicola Nicoletta, Tomaso Altomare e Antonio Sicilia, tutti e tre del casale di Rogliano, e Omobono Messina e Francesco Partale di Crotone si recano nella loggetta del palazzo di Gio. Luise de Soda per osservare l’impedimento che darà al prospetto del mare le case erigende del chirurgo Diego de Bona (ASCz, B. 659, a. 1714, f. 64).

Il 16 luglio1717 Tomaso Altomare di Rogliano e Omobono Messina di Crotone su richiesta del reverendo Giuseppe Rizzuto si recano ad apprezzare il palazzo del fu Gio. Geronimo La Nocita (ASCz, B.659, a. 1717, f. 129).

Nel novembre 1721 i capomastri fabbricatori Omobono Messina e Gerolamo Camposano accomodano un magazzino, che minacciava rovina situato vicino alla cattedrale. Il magazzino servirà poi come di quartiere per le truppe alemanne (ASCz, Not. Pelio Tirioli B. 661, a. 1722, ff. 192v-193r).

Messina Bonomo sposò Antonina Terranova tra i figli sono ricordati Bruno, Giuseppe, Gennaro, Dionisio e Teresa. Abitava in parrocchia di Santa Veneranda e nel 1743 aveva 56 anni (Catasto onciario 1743, f. 28).

corona ( Spontone de Miranda)

Crotone, figura di corona graffita sull’intonaco dello spontone de Miranda.

Messina Michele

Michele Messina sposato con Antonia Petrolillo nel 1743 aveva 31 anni. (Catasto Onciario 1743, f. 153).

Nel giugno del 1740 in società con i mastri Asturi e Ricciolillo prende in appalto “le fabriche, acconci e ripari” del castello. I lavori prevedevano la costruzione dei quartieri dei soldati, delle abitazioni degli ufficiali e del castellano ed il riparo della muraglia del corpo di guardia (ASCz, Not. Pelio Tiriolo B. 666, a. 1740, ff.102-104).

Il 20 ottobre 1754 è emanato il bando in piazza a Crotone, ma solo il 27 aprile 1755 i lavori saranno aggiudicati ad una società composta dal mastro fabbricatore Michele Messina e dai mastri “ferrari” Dionisio D’Oppido e Nicola Lucente d’Aprigliano. I mastri si impegnarono a riparare le torri di Scifo, di Capo Rizzuto e di Le Castella ed a costruire la nuova torre di Capo Rizzuto, secondo il disegno dell’ingegnere Adamo Romeo e seguendo le istruzioni dell’ingegnere Pietro Sbarbi (ASCz, Not. Nicola Rotella B.1125, a. 1755, ff. 60-81).

Nel 1759 chiede di poter costruire un magazzino sul vignale S. Francesco di Paola vicino all’orto del Biviere, terreni della mensa vescovile sui quali già sorgono 18 magazzini e che si trovano da una parte e dall’altra alla via pubblica, che va al convento dei paolotti (ANC. 860, 1759, 480-487).

 

Nuovi edifici

La costruzione di casini di campagna, di torri coloniche e di palazzi nobiliari durante il Settecento avevano favorito l’ascesa di nuovi mastri fabbricatori tra i quali gli Iuzzolino e gli Scaramuzza.

 

Gli Iuzzolino

Nel catasto onciario del 1743 c’è Giuseppe Iuzzolino, cittadino di professione “mastro muratore” di 38 anni, che abita in affitto e “non possiede cosa alcuna” (ASN, Catasto onciario Cotrone 1743, f. 126v). Sarà soprattutto Pasquale Iuzzolino, sposato con Eleonora Leotta, uno dei protagonisti dell’edilizia crotonese della seconda metà del Settecento.

Il 13 luglio 1765 su richiesta del mastro fabbricatore Pasquale Iuzzolino si riunisce il governo cittadino. Annibale Montalcini sindaco dei nobili, Gennaro Messina sindaco del secondo ceto, Felice del Castillo, Gio. Bartolo Galasso e Vincenzo Milelli eletti dei nobili, Giovanne Maestre eletto del secondo ordine e Carlo Messina, esattore della città, devono dare l’assenso alla cessione di tre quarti di tomolata di suolo pubblico al mastro, il quale vuole fabbricare “una loggia, ò sia baraccone per uso e commodo di ciaramidi ed indi coll’andare del tempo fabricarvi a forma di magazzino per l’uso sudetto”:

“Alli Ill.mi Sind.ci ed Eletti di q.a Città di Cotrone.

Pasquale Iuzzolino di questa sud.a Città supplicando espone alle Sig.rie loro Ill.me, come prevedendo la precisa urgenza, che corre per questo publico d’opere di ceramidi, mattoni, ed altro appartenente a fabriche, pensando di maggior commodo universale intende formare il lavoro de’ med.mi nel luogo nom.to il Ceramidio, dove sempre è stato solito esercitarsi simili opere senza permissione alcuna ma perché le loggi, o siano baracche di legname, delle quali sono serviti per lo passato per ricovero de mattoni, e ceramidi, in tempo umido, e piovoso non resistono più di tre, ò quattro mesi d’està, ed indi sopravenendo l’inverno si disfanno per la giunta delle pioggie. Perciò ricorre alle Sig.rie loro Ill.me, e le fa presente tutto ciò affinchè restino serviti concedere al sup.te in d.o luogo un ottavo di tomolo di quella terra sterile ed infruttuosa, acciocchè ivi possa costruire un casellone, ò più caselle matte di fabrica per quanto sarà di bisogno che sia, ò siano durabili anche in tempo d’inverno, offrendosi il sup.te prontissimo l’annuo cenzo che sarà tassato dal prudente giudizio degli esperti … Cotrone 8 aprile 1765” (ASCz, Not. Antonio Asturi B. 916, fs. 1765, ff. 50 -53).

Sappiamo inoltre che il mastro possedeva alcune case palaziate in undici membri tra alti e bassi in parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, confinanti da un lato con le case dei fratelli Perla. Il mastro aveva acquistato parte delle case da Onofrio Messina e parte le aveva fabbricate (ASCz, B. 1119, fs. 1769, ff. 231-232).

L’attività edile di Pasquale Iuzzolino, morto prima del 1781, sarà proseguita alla fine del Settecento dai mastri fabbricatori Giovanni e Gio. Giacomo Iuzzolino. Giovanni Iuzzolino possedeva “un pezzo di terra per uso di Ceramidio, censuato da questa Uni.tà”, alla quale pagava un censo annuo per jus soli; mentre Gio. Giacomo Iuzzolino aveva in affitto una casetta nel luogo detto il Ceramidio, appartenente alla arciconfraternita del SS. Sacramento (AVC, Catasto onciario 1793, ff. 88v, 172v).

1550 (Baluardo del fosso del castello)

Crotone, la data “1550” graffita sull’intonaco del baluardo del fosso del castello.

Gli Scaramuzza

Nel catasto onciario di Crotone del 1743 vi è la descrizione della famiglia di Tomaso Scaramuzza. Lo Scaramuzza di anni 40 fa di professione il vaticale, abita in casa propria in parrocchia di Santa Maria Protospatari, è sposato con Caterina La Nocita di anni 30 e ha numerosi figli (Domenico, Dionisio, Vincenzo, Michele, Nicola. (Catasto 1743, f. 189).

I figli di Tommaso saranno abili mastri fabbricatori di edifici in città e nel territorio. Tra l’agosto e il dicembre 1769 le clarisse spendono più di 1400 ducati per costruire la camera delle nuove educande ed una mattonata nella chiesa. I lavori sono affidati ai mastri fabbricatori Domenico e Nicolò Scaramuzza ed al mastro falegname Giuseppe Cirelli (AVC, Platea monastero di Santa Chiara, 1769/1770).

In un atto notarile i mastri Domenico e Nicolò Scaramuzza sono descritti come i costruttori dei casini di campagna degli Zurlo. (ASCz, Not. Gio. Domenico Siciliano B. 1528, fs. 1776, f. 2).

Il 2 dicembre 1781 i governanti della città di Crotone accolgono l’istanza del mastro Cesare Scaramuzza. Lo Scaramuzza chiede di censuarsi “un pezzo di terreno, per uso di ceramidi appartenente all’università, vicino il monte, ove dicesi di Cipriano che attacca al terreno universale, che si censuò il fu mastro Pasquale Iuzzolino, e propriamente in quel pezzo di terreno, ove mastro Antonio Lepera ci ave costruito una casetta per commodo, e metterci dentro i ceramidi. Per tale motivo lo Scaramuzza chiede ai governanti di nominare due massari esperti, per stabilire la quantità di terreno (nel luogo del Ceramidio) ed offre per lo “ius soli”, di pagare in perpetuo due carlini annui. Inoltre lo Scaramuzza afferma che giorni prima aveva comprato dal mastro Antonio Lepera una casetta di creta colla fornace, per uso di Ceramidio, sito fuori le porte della città, vicino il monte, ove dicesi di Cipriano, appartenente detto terreno, dove si è edificato il suddetto ceramidio all’università, che attacca al terreno universale, che si censuò il fu mastro Pasquale Iuzzolino, e come che detto Lepera, non curò censuarsi il suolo di detto ceramidio, e dubitando esso compratore, che in avvenire gli venisse contrastato, offre di versare all’università altri annui carlini due in perpetuo (ASCz, Not. Gerardo Demeo B.v1330, fs. 1782, ff. 55-56).

In un atto notarile del maggio 1785 i fratelli Cesare, Nicola e Domenico Scaramuzza sono descritti come “maestri muratori, seu m.ri fabbricatori e prattici apprezzatori non solo di fabriche, di case e palazzi urbani, o siano di città, e dentro il recinto dell’abitato ma ancora di torri, casette, pile e pozzi di campagna, vigne e giardini” (ASCz, Not. Giuseppe Smerz B. 1774, fs. 1785, f. 57).

In questi anni i fratelli Scaramuzza fanno una certa fortuna anche approfittando dei terreni messi sul mercato dalla Cassa Sacra e dalla dismissione di suoli pubblici vicino alle mura.

Con “istrumento del dì 12 maggio 1785 per notar Pittò” Cesare Scaramuzza ottiene in affitto per il corso di 29 anni il vignale che apparteneva agli Osservanti denominato Poggio Reale “dell’estensione di tt.e cinque di terre rase ed atte ad ogni uso di semina”, confinante a tramontana con le fabbriche del convento, da occidente e mezzogiorno col Poggio Reale, e da oriente “col lido di mare” (AVC, C.S. Lista di carico, 1790, f. 23v).

Nel 1786 il mastro Cesare Scaramuzza, con atto del notaio Vitaliano Pittò, compra dagli eredi di Dionisio Sacco un “vignale, seu giardino alborato, sito sotto le reali mura di questa città, e proprio sotto il baloerdo detto di sette cannoni, affacciante al porto, sito tra il romitorio, e terre del beneficio di S. Leonardo Abbate, e detto baloardo, che principia dalla punta medesimo per la parte di Bellamena, e termina in altro regio muro al giardinetto reale detto propriamente Miranda” col peso di carlini 15 annui a favore del Real Fondo. Il 5 luglio 1787 con atto del notaio Raffaele Labonia ottiene di chiudere la strada che l’attraversa, pagando altri 10 grana al Real Fondo.

Alla fine del Settecento troviamo Cesare Scaramuzza, mastro fabbricatore di anni 40. Egli “possiede quattro vignali del soppresso convento dei PP. Osservanti di questa città confine il Ceramidio … Deve pagare ogni anno il mese di maggio à questa Università grana venti, e sono per un pezzo di terra censuatoli di questa suddetta Università nel luogo detto il Ceramidio per uso di fare solo ceramidi”. Nello stesso catasto ci sono anche Domenico Scaramuzza mastro fabricatore di anni 62, Fedele Scaramuzza fabricatore di anni 43, Nicola Scaramuzza fabricatore di anni 49 e Tomaso Scaramuzza fabricatore di anni 31. (AVC, Catasto Onciario Cotrone 1793, ff. 22r-23r sgg.).

Nicola, Domenico e Cesare Scaramuzza continuarono ad abitare in parrocchia di Santa Maria Protospatari: il convento di San Francesco di Paola esigeva un canone di carlini 12 annui sopra la casa di Nicola Scaramuzza in parrocchia di Santa Maria Protospatari confine alle case di Domenico e Cesare Scaramuzza (AVC- C.S. Lista di carico, 1790, f. 18v).

Partitari e mastri fabbricatori di Crotone del Seicento e del Settecento
Archivio Storico Crotone
Archivio Storico Crotone - Raccolta di ricerche di archivio, fonti storiche, immagini, fotografie e documenti riguardanti il territorio crotonese.


La città ed castello di Cirò, il palazzo di Alice e le torri di Capo Alice e di Fiumenicà in alcuni documenti della seconda metà del Cinquecento

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La città ed castello di Cirò, il palazzo di Alice e le torri di Capo Alice e di Fiumenicà in alcuni documenti della seconda metà del Cinquecento
Archivio Storico Crotone

Graffito nave castello di scilla

Galea graffita su un muro del castello di Scilla (RC).

Nella seconda metà del Cinquecento continuano le incursioni turchesche. La città di Cariati nel 1557 fu nuovamente data alle fiamme e molti abitanti furono rapiti. Tra i rapiti è ricordato Marco Antonio de Birardo di Cirò, il quale catturato dagli infedeli nella città di Cariati, fu portato prigioniero nelle regioni turche, dove morì (ASCz, Not. C. Cadea, f. 23).

Anche le spese dell’università di Melissa dal settembre 1561 alla fine di agosto 1562 documentano la presenza di fuste turchesche nella marina di Cirò. L’otto, il 20 ed il 25 aprile ed il 9 maggio 1562, si è “paghato ad un correro del Ciro che porto nova dele fuste grana cinque”. Il 10 maggio si è “paghato per dui corrieri del Cirò l’uno la matina et l’altro la sira q(ua)n(do) pigliaro li navili allo capo dela lige grana dece”. Il 3 luglio 1562 “ad uno corriero del Cirò portò nova che erano sette galeotte à fiumenicà. Sempre in luglio aveva percorso la marina il commissario e capitano a guerra Gio. Girolamo de Rao, mandato dal Vicerè “per far fare la mustra et lasar ordinato come si faranno le guardie” (ASN, Conti comunali fs.199/5 , ff. 7 sgg.).

Da un atto di protesta fatto dal nobile Jo. Alfonso Susanna contro Nicola Lalice sappiamo che il Lalice, che era guardiano di porci, nel giugno 1561 fu preso dai turchi “et detti porci restaro senza guardia et andavano soli per la campagna” (ASCz, Not. Cadea B. 6, 1563, f. 239) ed il 16 agosto 1563 in Cirò fa testamento il capitano Jancola Organtino “vulneratus cum una sagitta sibi illata a turcis in eius ventre” (ASCz, Not. Cadea B. 6, 1563, f. 199).

Particolarmente esposto alle razzie turche era il promontorio di Alice, come dimostra il caso di Gio. Pietro Cosentino, catturato dai Turchi presso il promontorio. (La madre Aurelia Caputa di Cirò, offrirà ducati 50 per riscattarlo, ASCz, 35, 1586, f. 267) e quello di Gio. Nicola de Cutro di Cirò “interfectus a Turcis” (ASCz, 35, 1587, f. 370).

 

Fortificazione di Cirò

Il pericolo turco allarma i governanti e la popolazione. Il 10 gennaio 1563 nella piazza pubblica di Cirò, in presenza del capitano della terra Jo. Petro Pirrillo della città di Cosenza, il sindaco della terra il nobile Jom.a Spolentino, gli eletti ed i particolari decidono di fortificare le mura della città ed il castello e di finire la costruzione della chiesa di Santa Maria.

“… mag.ci gentil’homini loro faccio intedere che sarea bene per lo beneficio di questa povera terra per ritrovarni in questo modo poveri di genti et fiachi di muraglie per dubio di non patire alcuno danno questa estate da li turchi li quali ogne anno ni tormentano come sanno che facessimo alcuna dimostratione de reparare la terra et le muraglie dove e de bisogno de fabricarse che si fabrichi al p.nte che non havemo troppo fastidio et dopo per possire star piu salvi per possirne salvare ad un impeto de turchi sarea bene che ne facesseno forte allo castello perche lo sig.re pero nci aiutera che facessimo alcuno principio de far forte detto castello perche con poco fabrica come sapemo lo tenemo tanto forte ch’ogne volta nce haveremo de bisogno vi potemo andare et non andare fugendo per questi boschi con le moglere et figlioli nostri non senza nostro pericolo di….cossi anco loro faccio intendere che per ritrovarse questo principio de chiesa de santa maria fatto et per esser fatta lormai tutta la spesa sarea pure bene che appresso dela fabrica dela terra et castello sequissimo detta chiesa perche che ad noi….ne avranno benefitio le anime n.re”.

“Fu concluso pari voto et nemine discrepante che per fortificarse la terra et castello per esser molto necessario a detta un.ta la fortificatione tanto del detto castello come de detta terra per li continui cursari et infedeli soleno venir ogne anno et per finirse la fabrica dela chiesa cosi come e principiata che si sequa la lite dele robbe de li absenti homini di detta terra et quella et quelli puniti et condannati che saranno ad pagare quello devono a detta un.ta si vendano la robba tienano sequestrate dessi loro absenti plus offerenti et del pre.to prevenendi delle robbe sene facciano dette fabriche de terra castello et chiesa per esserno tutti necessari et utile” (ASCz, Not. C. Cadea B. 6, a. 1563, f. 262).

cirò foto aerea

In evidenza il castello di Cirò.

Le compagnie dei soldati spagnoli

Con l’arrivo della bella stagione aumenta il pericolo turco e per fronteggiare possibili sbarchi arriva e alloggia in Cirò una compagnia di soldati spagnoli. Nell’estate del 1563 è segnalata la presenza in Cirò della compagnia di cavalleria spagnola di Dieco Carnasciale (il 19 agosto 1563 in Cirò fa testamento il mag.co Dieco Romero, spagnolo della terra di Lucena, “milite hispano seu equitis levis armaturae”, ASCz, Not. C. Cardea, f. 138).

La presenza dei soldati gravava sull’università e sui cittadini. Da un atto del 10 aprile 1581 sappiamo che per l’alloggiamento dei soldati della compagnia spagnola l’università di Cirò doveva versare ducati 9 e tari 2 al giorno e precisamente 1 carlino al giorno a soldato, 5 carlini al giorno al capitano, 3 carlini al giorno all’alfiere, 2 carlini al giorno al sergente. In quell’anno vi erano alloggiati 84 soldati (ASCz, 35, 1581, ff. 26v-27).

Oltre all’alloggiamento dei soldati l’università doveva anche fornire i viveri e l’assistenza alle fanterie spagnole che percorrevano la marina. Sappiamo che all’inizio di marzo 1586 passò per Cirò la fanteria spagnola del capitano Don Arias de Sylva ed i governanti di Cirò furono costretti a fornire tutto l’aiuto necessario. L’alloggiamento dei soldati era spesso occasione di proteste e tumulti. Il 6 agosto 1593 Casardo Casciaro “ferriero della compagnia di cavalli dell’Ill.mo Conte di Melissa” incaricato di alloggiare i soldati in Cirò ed a Melissa protesta contro il sindaco di Cirò Gio. Pietro Spolitino. Il Casciaro è riuscito a far alloggiare presso le famiglie solo una quarantina di soldati, in quanto il sindaco li ha collocato solo “nelle persone et case delle più impotenti et inhabili trattando franchi et immuni le case et persone delli P(rincipa)li”. Il sindaco si rifiuta di dare ai soldati “stanza, strame et lecto habile et far loro magazeno d’orgio, pane, vino et altre cose necessarie”. Rimproverato dall’alfiere, il sindaco “ha trattato inreverentemente con cappello in testa senza reverenza all’Off.le di S.a M.tà et precise al S.r Alfiero di d.a compagnia dicendoli che esso farà et dirà con parole volence aggiotandose con esso da pecto à pecto perlochè per quanto se vede ha causato et causa segno de rebellione et inobedienza evidentissima”. Per tale motivo il sindaco è stato sequestrato dall’alfiere, che con uno squadrone di soldati lo ha rinchiuso nel castello, dando vita ad un “tumulto fra li terrazzani, ragazzi et soldati” (ASCz, 36, 1595, f. 399).

Oltre ad alloggiare i soldati spagnoli, l’università attuava un servizio di sorveglianza della marina sia di notte che di giorno con quattro cavallari. Il 23 novembre 1586 il sindaco Parisio Bisantio paga, a ragione di ducati 4 al mese per ciascuno, Bartolo Joaccino, Joanne Maria Longobucco, Joanne Leonardo de Nicastro e Francesco Matalongo i quali, da aprile a ottobre, hanno vigilato con i loro cavalli la marina (ASCz, 35, 1586, f. 339). Il 31 ottobre 1588 il sindaco di Cirò Julio Cesare Malfitano paga Paolo Masso, Horatio Thegano, Sciarrocta Moniczano e Octavio de Fraca, che hanno vigilato per otto mesi la marina della terra di Cirò (ASCz, 35, 1588, f. 523v).

L’alloggiamento dei soldati e le spese per vigilare la marina oltre ai pesi fiscali indebita sempre più l’università, come evidenzia un memoriale inviato alla Regia Camera, dove l’università di Cirò chiede di essere sgravata dal fornire i carri per i lavori di fortificazione di Crotone.

“Ill.mo et Ecc.mo S.or. Per parte de Ferrante Spinello Marchese del Cirò se fa intendere come la detta t.ra sua sta oppressata da molti debiti che sono da decem.a docati, delli quali ne paga le terze à nove per cento, e tutto per li tanti allogiamenti che ha havuto continuamente tanto ordinarii q.nto ex.arii et paga li pagamenti fiscali et altre collette alla regia corte e detta t.ra sta posta vicino la marina sopra lo Capo dela Lice et continuamente oppressata da corsari e sta senza fortellecza e muraglia et per sua guardia tene nella sua marina quattro cavallari e quattro à piedi, per il che ne paga gran summa de dinari, et la regia corte non le ne fa buono eccetto uno, et anco contribuisce alla fabrica de Cotrone quale sta posta nel’altra prov.a de calabria ultra et essa alla citra per doi carra con li bovi ogni anno, et ne paga docati dece ogni mese per detta fabrica, et ha contribuito dal’hora se incominciò. Per tanto se supp.ca V. E. resti servita farli gratia disgravarla de tal peso de contributione de carra de cotrone per potersi murare et fortificare, acciò non sia sacchegiata et abrusciata da infideli, si non per la tanta diligenza de guardie saria stata abrusciata per ritrovarse cossi male armata et è distante del’altra provin.a acciò quel tanto contribuisce à detta fabrica de cotrone ponerlo in beneficio di detta t.ra, in potersi murare la quale l’estate è necessario sfrattare tutta per non essere presa e sacchegiata, per il che ne verte grandissimo danno ad esso supp.te e poveri cittadini che oltre e opera pia lo riputerà à gra. Ut Deus. Regia Cam.ra Sum.ae super supp.tis de justitia provideat. Die p.o Februarii 1588” (ASN, Dip. Som. Fs.197, Torri e Castelli Vol. 35, f. 137).

 

Sbarchi turcheschi

La presenza della torre regia e delle compagnie di soldati spagnoli non era sufficiente ad impedire le razzie turchesche come si evince da un atto notarile rogato in Cirò il 24 agosto 1587.

“Detio Perrone di Napoli, Francesco Susanna e li m.ci Ferrante Ferraro et Camillo Benedicto di la Terra del Cirò li quali in n.ra p.ntia e de l’Ill.mo et Ecc.mo S.r Gio. Battista Spinello Principe di la Scalea p.nte et audiente asseriscono com’il Marte che forno li 18 del p.nte mese d’agosto 1587 essendono comparse della marina del Cirò due galere turchesche, una delle q.le spense inansi del’altra la volta del capo di la lice marina del Cirò, et da q.lla smontorno alcuni pochi Turchi che forno da trenta incirca, ch’andorno alle vigne di d.ta t.ra, et essendo partito l’ecc.mo Principe della scalea con essi sup.ti à cavallo come forno nella serra di la guardia, da una collina viddero li turchi ch’erano tornati nella galera et haveano tirato arcabugiate alli cavallari et in q.sto sopragionse l’altra galera che per q.nto se dicea, haveano corso nelle vigne della Torre di Melissa, et essendo gionti insieme nel luoco decto lo carricataro di S.to Gennaro discosto un miglio da la fontana di la lice, dove d.to Ill.mo et ecc.mo s.r Principe andò con essi sup.ti et con li cavallari del Cirò che forno quattro, con un altro cavallaro di Melissa mandato da l’Ill.mo S.r Prospero Carrafa avisando le marine, et s’imboscorno sotto li citrangoli et altri arbori di la lice che non posseano essere scoverti da mare, con tenere le guardie per vedere che motivo facevano d.ti turchi, dove poco dapò sopragionsero molti genti del Cirò à piedi armati di scopette et essendo stati abboscati da un’hora, sopragionse il m.co Fabricio Spolintino mandato da d.to s.r Prospero, che lui veneva appresso con il s. Barone di Melissa, et lo s.r Gio. Laur.o Campitello fr.te di d.to s.r Barone, et altri che forno li m.ci Octavio Lauria, Balthasarro di Gio.e U.J.D. Fabio d’Arcuri, Gasparro Murgia, Vespasiano Simonetto, Lutio Genoese et la trombetta con quindici altri soldati a piedi in circa, et tra l’altri à cavallo vi forno il s.r Pietro Vinc.o Arnona di Cosenza, li m.ci S.ri Lutio di Franza, et lo d.to Fabritio Spolintino del Cirò, li quali erano stati a Melissa per alcuni loro negotii, li q.li dicono come venendono al Cirò, come forno alla Ponta ter.o di Melissa, incontrorno uno cavallaro no.e Gioanne Moniczano, ch’andava à d.ta t.ra di Melissa ad avisare al d.to S.r Barone di d.te galere, et venuto più abascio verso il Cirò, incontrorno un altro di d.ta t.ra, dandoli nova ch’era uscito l’ecc.mo s.r Principe dela scalea con altri a cavallo et à piedi nella marina di la lice per scaramuzzare con li turchi, perciò determinorno andarlo à trovare in d.to loco, et in q.sto s’intesero chiamare dicendo loro firmativi et voltatosi videro d.to s.r Prospero con li sup.ti li q.li gionti insieme caminavano la volta dela lice, et arrivati in un loco dicto puzzello incontrorno dui ch’andavano correndo verso loro, et arrivati loro disse, che l’ecc.a del s.r Principe di la scalea era a s.to Gennaro che scaramuzzava con li turchi perche haveano inteso certi colpi d’arcabugiati et perciò spinsero a buon passo et il d.to s.r Prospero inteso q.sto mandò il d.to fabritio inansi da carrera per far intendere a d.to Ill.mo Principe che loro veneano appresso, et arrivati poi alla fontana di la lice, ritrovorno l’ecc.a di d.to s.r Principe a cavallo armato di coscialetto con altri a cavallo et a piedi abboscati in d.to loco che stavano con le guardie dove arrivato il d.to s.r Prospero con l’altri, se salutorno et vedendo che nel v’era motivo de le galere, se resolsero di smontare tutti tenendo li cavalli à mano dove s’assettarono et ferno dimmora da circa due hore et frattanto se risolsero di mandare Bartholo et Balthasarro Jaccini cavallari del Cirò à reconoscere et vedere che motivo facevano detti turchi et gionti vicino le galere li forno da turchi tirati una mano d’arcabusciati dicendo loro de piu anco che mo saremo à voi, et da là un poco calorno dale d.te galere da cento cinquanta Turchi incirca con tre stendardi dui grandi, et un piccolo venendono in ordinanza la volta dele vigne et q.sto l’avisorno q.lli che stevano a fare le guardie et così cavalcati tutti, e fatto ordine et unire li genti a piedi il d.to Ill.mo s.r Principe disse al d.to S.r Prospero che desse capo alli d.ti che guidasse ch’altrimente non haveriano facto cosa di bono et poiche d.to S.r Principe vedea ch’andavano di mal’animo disse al s.r Prospero che saria bene per farli andare con maggior animo che tutta la preda che se facesse se mettesse insieme et se spartesse fra tutti, il quale s.r Prospero se contentò, et donorno per capo deli d.ti soldati a piedi il m.co Ferrante Ferraro mastrogiurato del Cirò quale era andato incontro di d.to Ill.mo S.r Principe con ordine che loro appicciassero et andassero ad incontrare d.ti turchi et facessero loro una boscata dentro le vigne i q.li tutti uniti fra quelli del Cirò ch’erano Horatio Policastro, Petro Leto vicegiurato del Cirò, Giac.o Cardì, Cola Greco, Antonello texitore, Michelangelo de Milito, Gio. Dom.co de Consulo, Michele Corderi, Virgilio Riolo, Andrea Filì, fran.co Curto, Fran.co Candioto, Cola Giac.o di Gratia, Sip.e la Balestra, Mercurio Morice, Gio. Ber.no Famuleo, Marcello Abbate, Marcello la Castella, Gio The di Renda, Stefano Coluto, Regio Barbuscia, Nardo Candioto et Horatio Loyse et altri ch’arrivorno al n.° di trenta, oltra di quelli di Melissa et altri del Cirò concorrevano et così andorno , et appicciorno la scaramuzza di dentro le vigne del Cirò loro detto S.to Ant.o dove se risolsero d.ti S.ri Ill.mi Principe e S. Prospero et S. Barone de lassarli andare dentro t.ra et che s’appicciasse bene la scaramuzza con la gente a piedi, et considerando il tempo che posseano essere abboscati le genti a piedi dentro le vigne andarno parte di buon passo, et parte di galoppo per levar loro il mare per la credenza de galere, et intese l’arcabusciate, et attaccata la scaramuzza se tocco la trombetta et se spinse de carrera, dove l’Ill.mo S.r Principe se divise da d.to S.r Prospero a man dritta verso la marina et da un capo si mosse d.to Ill.mo S.r Principe, dicendo a quelli che lo seguano, damo dentro allo stendardo, damo dentro allo stendardo, q.li forno d.ti Sri Detio Perrone, Fran.co Susanna et Camillo Benedecto p.nti et con jur.to affirmati d.te cose essere vere et verissime et da l’altra d.to S.r Prospero dove se scaramuzzò per spatio di meza hora. Che già li Turchi andavano la via dele galere havendo inteso la trombetta.. li cavalli, et arrivati incominciorno a ferire et ammazzare d.ti Turchi de li q.li ne morsero quattro Turchi, oltra li feriti, et dui se ne presero vivi, et finita d.ta scaramuzza il d.to Ill.mo S.r Principe dommandando a d.ti Turchi vivi arme et vestiti de detti et da chi ch’erano stati spogliati li corpi morti li fu resposto ch’erano stati mandati a Melissa et inteso questo d.to Ill.mo S.r Principe se partì de carrera et corse da un miglio e mezo et arrivò certi arcabuscietti che portavano uno deli dui Turchi vivi quale lo fè ritornare, et domandato del altro Turcho alli d.ti archibuscietti dissero che era andato inansi a Melissa portato in groppa da Gasparro Murgia de Strongolo et altri. Et ritornati il d.to S.r Prospero, S. Barone et l’altri ch’erano stati alla scaramuzza nel palaczo dela lice domandò del d.to Ill.mo S.r Principe perché non era in loro compagnia li fu risposto ch’era andato ad arrivare li Turchi ch’andavano a Melissa per farli ritornare et così il d.to S.r Prospero mandò il m.co Lutio di Franza ad arrivare et ritrovare il d.to Ill.mo S.r Principe et farlo ritornare che lui haveria facto ritornare li Turchi et arme et ogn’altro coso che s’haveria dato ogne sodisfactione et andato d.to m.co Lutio trovò per strada d.to Ill.mo S.r Principe che ritornava con uno turco ferito al braccio sinistro et gionto al palaczo il d.to Ill.mo S.r Principe se dissarmò et mutò et tutti insieme vennero nella t.ra del Cirò con d.to turco dove al presente se ritrova. De le q.li robbe.. ne tocca la parte ad essi s.ri supradecti …” (ASCz. 35, 1587, f. 405).

Graffito nave castello di Scilla

Nave graffita su un muro del castello di Scilla (RC).

Il Palazzo Alizio

Per il pericolo di essere saccheggiato anche il palazzo Alizio, o di Alice, è fortificato. Nei primi giorni di maggio 1588 il mastro Joes Petrus de Parisio della terra di Cirò afferma che nei mesi passati aveva contratto nella città di Napoli con Virginia Caracciola, vedova di Gio. Vincenzo Spinelli e madre e balia del marchese di Cirò Ferdinando Spinelli, “di fabricare a partito li spontoni del palaczo de la lice di d.a Corte à ragione di quattro carlini la canna”. Egli ora come appare per lettera della Caracciola si accorda con l’erario della Curia Marchesale Philippo Bisantio e “per effectuire d.to partito hogi p.to di e venuto alli infr.tti patti che esso m.ro Gio. Pietro promette et s’obliga subbito minata sarà la calce fabricare li spontoni di d.to palazzo à ragione di quattro carlini la canna a spese di manjipoli et mastria di esso mastro Gio. Pietro et la d.ta Corte sia tenuta donarli la calce di prima mina, arena, petra et acqua et tutti tavolani et ligname necessa.ri à d.ta fabrica et sporte, baiardi, scifelle et altre cose appartenente à tenere, pigliare et fabricare d.te … di d.ta fabrica et lo più di quaranta palmi et ogne dom.ca sia tenuto pagare d.a fabrica fatta di ogne settimana et d.to m.co er.o li debbia di dare ogne sorte di ferram.ti necessari a d.ta fabrica far fare manganelli et altri (ASCz, Not. Gio. Domenico Durando B. 35, a.1588, f. 478).

Nel palazzo il feudatario di Cirò conservava numerose botti di vino che all’occasione faceva imbarcare di solito per Napoli. Un inventario del 24 ottobre 1593 fatto dal notaio Gio. Domenico Durando, assieme all’erario del marchese di Cirò Antonio Matalone e testimoni, documenta quante botti di vino erano conservate nel palazzo. Quel giorno il notaio e l’erario si recarono al palazzo della Lice, dove in presenza del capitano di Cirò Jacopo de Nicastro fecero un inventario per esaminare la quantità di vino vecchio perso in quanto parte è dolce e parte è diventato aceto.

“La p.a botte signata con lo A di salme diece è piena d’acito manca un palmo. La s.da botte posta al n. 5 signata con lo E di salme diecesette piena d’acito , et manca un palmo. Unaltra botte signata con lo F piena di salme sette et delle due è acito, manca un palmo et una pianta. Unaltra botte a mezo la corsia senza l.ra, ne signo alc.o di salme quattro è piena d’acito et manca un palmo sempio. Unaltra botte di salme sei con la l.ra Q è piena di vino dolce manca una pianta et è di conservarse et non buttarse. Allo cellarotto di d.to palazzo have visto et experimentato sei botte marinarische di capacità à salme cinque luna q.le tutte sonno piene d’acito, et mancano un palmo luna q.le prenominate botte sonno del vino del’anno 91 item have provato ut s.a l’infra.tto vino che mo’ fini l’anno cioè del anno 92 et p.o una botte dentro detto cellarotto di salme sette piena di vino dulce rosso, et manca un spango. Dentro cellaro have una botte con lo B. di salme XI et lancelle 10 piena di vino bianco a boccato di dolce di conservarse, manca un palmo sempia unaltra botte posta al n.° 6 signata con lo F di salme 14 l. 10 piena di vino bianco dolce di conservarse manca un spango unalt.a botte al n° 7 signata con lo G. piena di vino bianco dolce di conservarse di sle 14 l.8 manca un spango L’ottava botte signata con lo H di sle 13 l. 12 piena di vino bianco dolce di conservarse manca cinque dita. La nona botte signata con lo J di sle 16 l.12 piena di vino bianco dolce di conservarse manca sei dita. La dec.a botte di sle 10 con lo K piena di vino bianco dolce di conservarse manca sei dita. L’undecima botte signata con lo L. di sle 9 l. 12 di vino bianco dolce di conservarse manca sei dita. Unalt.a botte di vino rosso di sle 10 l. 4 sig.ta con lo M. di vino abboccato di dolce bono et di conservarse senza malsapore manca 5 dita. Unaltra botte piena di vino rosso senza signo di salme 9 vino dolce senza mal sapore manca sei dita unaltra botte di vino rosso senza l.ra di salme sette incirca dolce et sape delo ligno manca sei dita, unaltra botte piena di vino rosso di sle 6 l. 4 dolce et mollo di conservarse al presente manca un palmo sempio unaltra botte piena di vino rosso di sle 7 l. 2 senza littera di vino dolce del sicco di buttarse manca sei dita unaltra botte piena di vino rosso con lo n di sle 7 vino dolce che pare vino cotto seu mele di buttarse manca un spango, dice esso che lo detto vino facto acito e di buttarse via perche non se può in modo alcuno conservare et cosi la botte di dolce et sicco con laltra botte cioe vino cotto et laltre botte piene di vino dolce ut s.a è di vederse ad ogne pezzo che se trova accio per l’advenire non venga a guastarse et lo vino dolce s’è fatto per esser stata l’uva piena di passoli per la poca acquata posta in esso che l’uva era guasta per dubio di non farse acito et lo si e fatto per lo caldo del sole et per sventare la botte de due anni indietro et lo vino dolce non se puo toccare ne movere dal luoco dove se trova perche non se può migliorare ansi guastare (ASCz, 36, 1593, f. 407).

cirò marina torre nuova e palazzo671

Cirò, il palazzo Alitio oggi detto Castello Sabatini.

La Torre regia del Capo de la Lice

Una relazione presentata nella regia camera il 31 ottobre 1586 riferiva che era finito il denaro stanziato per la costruzione delle torri marittime ed anzi i partitari avanzavano molto denaro per le opere fatte e non potevano essere pagati. Per finire le torri cominciate e sanare i debiti secondo il parere dei regi ingegneri e dei mastri esperti, occorrevano almeno quindicimila ducati. Si trattava di 27 torri, cioè: “la torre dela ruffa in la marina di tropea, le due torri de briatico, la torre d’angitola nella marina del piczo, la torre di santa letterata in bello vedere, le due torri del cetraro, la torre la torre della scalea, la torre del’acquafreda in maratea, la torre di fiumicelli in san gio. apiro, la torre della specchiella nella marina di lecce, la torre de veneri, la torre de sauli, la torre del orta in otranto, la torre de diso nella marina di capro, la torre di aurezano, la torre di san gioanne delle perdata, la torre di presicce, la torre del scorzone nella marina di nardo, le quattro torri nella marina di taranto, la torre nel monte palinudo, la torre di monte pertuso nel territorio de ziro e la torre di sperlonga” (ASN, Collat. Negot. Cam., vol. 9, ff. 19v-20r).

A quel tempo la torre di Capo Alice era già da tempo in funzione, anche se evidentemente era ancora da pagare parte del denaro anticipato dal partitario. Nei “Capitoli del’exigentia sopra li pagamenti fiscali” tra l’università di Cirò ed il partitario addetto a riscuotere i pagamenti fiscali si legge “Item lo detto Partitario sia tenuto pagare mesata per mesata il Castellano et compagno che assisterà alla torre del Capo della Lice et di quelli fando fare le cartelle lo m.co Sind.co sia tenuto à ditto partitario fare tutte le polisse della reg.a banca per l’essere fatti boni et expontarne sopra detti regii pagam.ti delo m.co thesorero” (ASCz, 36, 1591, ff. 212 -213). Lo stipendio del torriere era di quattro ducati al mese, mentre quello dell’aiutante o socio di carlini venticinque e spettava all’università anticipare il denaro. Nel 1569 era torriero il caporale Giovanni Dias (Valente G, Le torri, p. 76). Da marzo 1575 è torriere Jo. Peres de Turvel e socio Apostolo Turano (ASCz, 8, 1575, ff. 104, 145). Da marzo 1576 a febbraio 1577, è torriere lo spagnolo Jo. Peres de Turvel e socio Anselmo Marino (ASCz, 8, 1576, ff. 169, 171v, 183v, 211, 217). Il primo febbraio 1577 Jo. Peres de Tuval non potendo più assistere alla custodia della torre “causa suae infirmitatis”, cede la custodia della torre allo spagnolo Petrus Amadoris (ASCz, 8, 1577, f. 208). Da aprile 1577 a giugno 1577, è caporale Petrus Amador e socio Nicolao Pinelli (ASCz, 8, 1577, f. 332). Il 28 dicembre 1577 in presenza del luogotenente Francesco Famosa il caporale della torre Petro Amador “stante sua infirmitate morbi gallici”, temendo di morire, cede la custodia della torre allo spagnolo Consalvo de Riego. Nel 1578 Consalvo de Riego è caporale della torre e Gio. Leonardo Nicaster socio (ASCz, 8, 1577, f. 255). Dal primo settembre 1583 al 31 dicembre 1583 è caporale lo spagnolo Alonsius Castagnera e socio Detio Casopero di Cirò e dal primo di febbraio 1584 alla fine di aprile 1584, è caporale Alonsius Castagnera e socio Scipione de Amico di Crucoli (ASCz, 9, 1584, ff. 93, 99). Dal primo gennaio 1585 è Caporale Alonsius Castagnera e socio Melchiore Cayza di Cirò (ASCz, 9, 1585, ff. 129v, 144). Lo spagnolo Alonsus Castagneda era il torriere e i due soci, il nobile Jo.es Cadea e Jo.es Yvelis, nel 1586 erano addetti alla custodia della regia torre detta “de lo capo de la lice”, situata “in marittima” della terra Cirò. Il torriere percepiva uno stipendio di ducati 4 al mese mentre i soci carlini 25. Il 14 luglio 1586 sbarcarono alla marina vicino al “capo dela lice” cinque galere turchesche. Il torriere ed i due soci scorsero un moro che si aggirava intorno alla torre e decisero di catturarlo. Dopo una aspra colluttazione, durante la quale lo stesso torriere rimase ferito, il moro fu catturato. Il 16 luglio il torriere dona il prigioniero al marchese di Cirò Ferdinando Spinelli, consegnandolo a Jo.es Simon Albocino erario della corte marchesale. (ASCz, 35, 1586, f. 296). Dal settembre 1588 a dicembre 1588 è regio torriere lo spagnolo Jo.es de Rivera mentre il nobile Matteo Petrolillo è socio. (ASCz, 35, 1588, f. 536). Da gennaio ad aprile 1589 è torriere Joannes de Rivero e socio Thomas Candiotus (ASCz, 36, 1589, f. 15). Dal maggio a luglio 1589 risulta torriere Jo.es de Rivera mentre il socio è Marcellus Carusius di Cirò (ASCz, 36, 1589, f. 48). In seguito il torriere fu fatto schiavo dai Turchi come risulta da un tentativo di riscatto fatto dalla moglie nell’agosto 1590. Il 5 agosto 1590 in Cirò, tra coloro che una fantomatica “madamma Palma lasignora de la Mendolara habitante in Riolo” si impegnava a riscattare dai Turchi vi era anche il torriere De Rivera: “Item donna Feliciana de Trane della città di Cotrone habitante in d.ta terra del Cirò s’obliga subbito che d.ta mad.a Palma farà conducere Gioan de Rivero spagnolo suo marito in terra de Cristiani, et loco securo pagare à d.ta mad.a Palma, ò huomo di sua parte docati cinquanta de moneta per riscatto di d.to suo marito”. Gli schiavi cirotani da riscattare dai Turchi oltre al Rivero erano: Gio. Antonio Jacobino, figlio di Gio. Francesco e Caterina Joacobino e Giulio Aniti (ASCz, 36, 1590, f. 94).

Dal primo gennaio 1591 ad aprile 1591 è torriere lo spagnolo Jo.nes de Flores (o de Florio) mentre è socio il figlio Antonio de Flores (ASCz, 36, 1591, f. 154). Seguono i pagamenti da maggio ad agosto e da settembre a dicembre 1591 in favore del torriere Joannes de Florio e del socio il no. Antonio Garzes (ASCz, 36, 1591, ff. 202, 242). Da gennaio 1592 ad aprile 1592 è torriere Joannes de Flores e socio Petrus Garzes (ASCz, 36, 1592, f. 259v). Il torriere de Florio ed il socio Antonio Garzes sono ancora in servizio alla torre alla fine di dicembre 1592 (ASCz, 36, 1592, ff. 302, 325). Dal gennaio 1593 a settembre 1593 è torriere Joanes de Flores e socio Antonius Garzes (ASCz, 36, 1593, ff. 358, 404v). Il torriere De Flores ed il socio Antonio Garzes custodiscono la torre fino al 20 aprile 1594 (ASCZ, 36, 1594, f. 424). Joannes de Flores, sposato con Gesimira Siciliana della città di Cariati, regio torriere della torre del capo dela Lice muore il 20 aprile 1594. Il socio Joannes deli Pira custodisce la torre dal 20 aprile per tutto maggio 1594 (ASCz, 36, 1594, ff. 446, 450). Dal 6 giugno 1594 al 9 settembre 1594 è torriere Federico de Amato e socio Annibale de Amato (ASCz, 36, 1594, f. 471). Da gennaio 1595 ad agosto 1595 è torriere Federico de Amato e socio Annibale de Amato (ASCz, 36, 1595, ff. 564, 602).

La torre oltre a segnalare i movimenti di navi sospette con scoppi e fumi, sorvegliava il luogo di imbarco della merce che da Cirò era esportata di solito verso Napoli. Il 15 maggio 1591 in Cirò, Fabio Cacciuttula di Procida, patrone del barcone Santa Caterina, dichiarava di aver ricevuto dall’erario del marchese di Cirò Parisio Bisantio “Quindici botte nap.e piene di, octo piene di vino bianco et sette altre piene di vino rosso bello, bono et di buon colore, odore et sapore, quale botte sono bullate con la bulla dell’Ill.mo S.r Marchese di d.ta t.ra ch’è una l.ra F imbarcato caricato et tradocto sopra detta barca sotto la torre della Lice, sigillate dette botte con lo sigillo di d.ta terra allo cacumine seu mafaro et attacciate con stringhe et nove taccie per ogne mafaro. Item di caso pecorino pezze duecento posto dentro sei sacchi quale con li sacchi et con capo di corda grossa da circa un passo pisò cantara due allo grosso à rag.e di libre 4 per ogni rotolo et de più rotola 12 per una libra, ch’in tutto sonno libre 849. Lardo pisato à ragione di libre 4 per rotolo con tre sacchi per rotola cento quaranta cinque Item raschi bacchini n. 50 casi cavalli vacchini à travo para trenta recxotte salate de le tonde et larghe n. 150 item semola quarti tre et mezo t.lo de folema de farina Inalt Caso pezze vinti, recotte 30 et raschi 30 due prosutti consistenti in r.la 7 à lib. 4 per r.lo Item un cavallo di casicavallo con un huomo et due collure simile di casicavallo fatte à buccellato. Queste robbe detto padron fabio promette et s’obliga condurli all’Ill.mo S. Gioseppo Spinello Marchese de d.ta Terra in la Città di napoli” (ASCz, Not. Gio. Domenico Durante B. 36, f. 157).

Torre di Capo Alice

Cirò Marina (KR), torre di Capo Alice.

Assalti turcheschi

Il 13 maggio 1591 la barca del patrone Fabio Cacciottola di Procida, carica di vino, olio e formaggio, imbarcati a Crucoli e Cirò per Napoli, e la barca di Masullo Saraca di Reggio, carica di vino, imbarcato nella marina di Cirò, riparano per il maltempo sotto la torre di Manna, in territorio di Isola, ma sono assalite e predate da due galeotte turche, che le portano via. Le galeotte hanno continuato a predare e razziare per mare e per terra (ASCz, 49, 1591, ff. 72-76).

Il 20 settembre 1591 la barca Santa Maria della Grazia del patrone Angelo de Siena di Gallipoli, dopo aver caricato nella città di Taranto “tumula cento sessanta di mendole, due salme di pignate, ottanta bombule di acqua” e partita da Torre di Mare con tramontana prospera alla volta di Cotrone et Catanzaro “come forno a deritto la torre della lice, videro sparare et far fumo à d.ta torre volendono andar à terra. Perche lo vento era forte et fortuna crudele, non possettero andar à terra, talche forno forzati dal mare et vento montare lo capo dela lice dove trovorno una galeotta torchischa”. Abbandonata la barca e messisi sopra una barchetta i marinai si salvarono nella torre, mentre i turcheschi si portarono via la nave con il carico (ASCz, 36, 1591, ff. 222-223).

Il 5 Aprile 1595 Vincenzo Fasanello di Bellovedere, provincia di Calabria Citra, patrone della feluca Santa Caterina, carica di “scope, nocille, riso, sarde, tonnina, gritta, mole, garrubba et cimase”, partì con sei compagni da Le Castella verso Taranto. Arrivata a Capo de la Lice la feluca fu sorpresa all’improvviso da una galeotta turchesca. “D.ta galeocta sempre sequendoli à colpi di arcabusciati, detti turchi ferirono lu patrono fasanello et compagno che condocto ferito in questa terra se morse et lo istesso giorno saccheggiorno detta feluca rubbandono detta mercantia vele tende, ferro, argano, vestiti et altri sarciame, solo se salvò detta feluca con alcuna parte de robbe”. Il patrone fu ferito ed un compagno ucciso e la feluca fu saccheggiata mentre i superstiti si salvarono a Cirò (ASCz, 36, 1595, f. 558).

Il 26 aprile 1595 Vincenzo de Leo di Trebisacce, patrone della barca Santa Maria del Rosario, con il sopracarico Joanne Sancto de Licciardo di Corigliano, salpa da Corigliano e precisamente da Gadella. La barca trasporta 280 tomoli di grano che per conto di Torquato Scaglione e Lelio Ferrao devono essere sbarcati a Stilo. La barca giunta al Capo della Lice e proprio sotto la torre “per scirocco contrario et fortuna de mare” non può avanzare. Perciò la barca fu tirata a terra. Il giorno dopo al capo arrivarono due galeotte turchesche, “le quali con le prode sopra detta barca et con Turchi in terra se forzarono de tarare detta barca carica da lo virdi à mare et non possendola varare, la ammurraro de faccie in terra, sacchegiando et buttando in mare et all’arena da t.la cento venti di grano”. I Turchi si portarono via nove sacchi di grano, che erano sopra coperta e tutto l’armeggio della barca. Restarono solo le vele e la gomena che erano sopra la torre (ASCz, 36, 1595, ff. 565-567).

 

Un inventario del castello di Cirò

Il 12 marzo 1562 su richiesta di Eleonora de Gennaro di Napoli, vedova di Mario Abenante di Napoli, il notaio Cesare Cadeo compila l’inventario degli oggetti presenti nelle camere del castello dove abitava, iniziando dalla camera situata dentro il castello verso settentrione “contigua cum turri maiori dicti castri” e proseguendo per “la camera nova appresso la sala nova di detto castello verso scirocco”.

“In primis in ditta camera vi son trovate le infr.e robbe et cascie: uno scrigno coverto de corio negro ferrato dentro lo quale vi son trovate le infr.e robbe: una cultra di tela de olanda bianca, una cultra de sbroccato guarnito de raso russo intorno foderata di taffita turchina, uno paro de lenciole de tela de olanda lavorati de oro, una trabacca de damasco bianca con le frange intorno con una fascia de velluto negro dintorno con tutta la ligniame, uno guarnimento de …. De velluto carmosino con gualdrappa del medesimo con frangetti con fila d’oro, uno marsupano con una bursa de velluto zaunaccio con fiocchi di seta paunaccia et oro, uno lenciolo di tela alli dece et unaltro che e in tela non fornito uno misale de tela fiordenese usato uno avantiletto lavorato di seta verde et carmosina uno scrignetto ferrato dentro lo quale vi son trovati queste robbe una resta di pune di petra settantatre con partituri de coralli unaltra di para vinticinque con partituri deli simili coralli cinque anelle de oro uno con una petra turchina et l’altro con una petra granata una fede et l’altri dui sencza petre, uno paro de recate seu ciarcelle de oro con trentadui perle piccole uno paro de navetti de oro pieni de pastetti de profumo comprati per il S.r mario uno paro de ciarcelli de oro fatti a giarrette unaltro paro de ciarcelli de oro piccoli con otto perle piccole comprate per il S.r Mario. In unaltra cascia coverta de corio negro dentro la quale vi son trovate queste robbe: una cultra de tela d’orlanda bianca, unaltra cultra di tela di casa uno spulveri di tela de cava lavorato di seta turchina et carmosina con frange del medesmo con cappelletto, uno avantiletto dela medesma tela lavorato del medesmo, uno spuylveri lavorato d’oro et seta paunaccia con cappelletto, uno paro de lenzoli di tela alli dudici con zagarelle de filo bianco, una cammisa de donne lavorata de seta negra tre barrette de velluto carmosino sguarniti uno paro de pianelle di pelle una sercarne .. de tilette de seta turchina et arangina fatta con casa del S.r mario uno casciotto de tabule vacuo una … salera de rame de spagna in una altra cascia coverta de corio bianco dentro la quale son trovate le sec. robbe: uno guarnimento di cavallo usato de velluto morato nappettato de rame con fiochi de seta del medesmo con la gualdrappa coscino et scalette del medesmo, una gonnella de panno russo incarnato guarnita de velluto carmosino incarnato, una robba de dubletto de seta pardiglia infoderata de pelliccia bianca con le maniche del medesmo, un dubletto tropiano, un cappotto de velluto morato infoderato de taffita morato, una gonnella de velluto morato de cavalcore reputata de seta morata, una guttunera de raso carmosino guarnita de velluto carmosino, una gonnella de raso turchino guarnita di velluto turchino et passamano d’argento con cinque rosette d’oro con penne piccole, una robba de tali verde guarnita de4 velluto verde con passamano verde una robba de raso turchino guarnito de velluto turchino con passamano d’argento con cinquantacinque rosette d’oro et perne minute infoderate de taffita turchina una robba de velluto carmosino incarnato fasciata con trinetti di seta bianca infoderata de taffita carmosino bianca una gonnella di velluto bianco fasciata del medesmo con fascie di cinque dita larghe intagliate infoderate di tela bianca uno cappello di velluto carmosino con perne guarnito de oro et argento li quali vestiti sono stati fatti alla detta Ill. S.ra donna elionora per il q.o Ill. S.mario p.to sincome ditta S.ra elionora inanti de noi declarata disse, in unaltra cascia coverta de coiro bianco dentro la quale vi son trovate l’infratte robbe: una cultra di tela di casa con confede de filo giallo con cappelletto usato, uno imboglio di stuyabuchi di canne dudici sincome la detta Ill. S.ra dice essere de tante canne, uno paro de avanti portyde spulveri lavorati di seta carmosina et filo bianco uno guarnimento di spulveri di filo di paula ad riticelli ,una tovaglia lavorata di filo bianco et seta turchina quattro tovaglie de pane de casa usate una vestaglia uno ventaglio di penna negra quattro para de … una tovaglia usata lavorata di seta carmosina uno coscino di velluto verde usato unaltro di velluto arangino con piuma de seta turchina verde et gialla uno coscino de damasco bianco guarnito di velluto negro, in unaltra cascia coverta de coiro bianco dentro la quale vi sono trovate le infr.tte robbe vd una trabacca de scarlata con frange de seta negra guarnita con una fascia de velluto negro intagliato de pecii dieci uno sichietto de argento con chiusa d’argento uno ventaglio di penna bianca con la manica d’oro smaltiti di colore russi negri orecchini bianchi et verdi fatto per il detto q.o S.r Mario una cultra di tela di casa, uno filo de umbre grosse lavorate con uno fiocco con seta carmosina et frange de oro uno paro de pianelli de velluto arangino, una scaletta de velluto carmosino con uno scrignetto ondorato ricirchiato de turo trovato dentro detta cascia dentro la quale vi son trovate queste robbe vd otto tovaglie lavorate de seta carmosina et negra vd tre de seta negra quattro de carmosina et una de cambra lavorata de oro le quale tovaglie dice la detta S.ra haverli portati da casa de q.o S.r Conte suo p.ne tre para de maniche de tiletta de oro et argento infoderate de raso carmosino tre ricaglie d’oro con sue scialette tre grocri de tela de olanda una lavorata de seta negra due de carmosina uno panno de damasco carmosino guarnito con una fascia intorno de tre dita de oro et argento con li sui sciolti una tovaglia lavorata de seta carmosina et orangina uno muccaturo de seta carmosina lavorato, in unaltra cascia coverta de coiro bianco dentro la quale vi son trovate l’infra.tte robbe vd uno pecio de filato orduto de lino de braccia trenta de tela all’otto, unaltro imbroglio de tilaro de lana una coppa de argento indorata con sua cascia, due faccie de matarattia de fustiano bianche de tela uno letto con tre matarattia pieni di lana bianchi, una cultra di tela bianca repuzzata de filo bianco, una cultra de taffita verde et orangia usati in detta cammera … uno cantaro de lana pecurina et una trabacca de ligname fatta de … nella cammera nova appresso la sala nova di detto castello v erso scirocco si sono trovati dui spulveri luno de tela de olanda lavorato de seta carmosina et turchina et laltro de tela di casa alli quindici lavorato de filo bianco dui para de lentioli l’uno de tela de olanda lavorati di seta carmosina et turchina et laltro de tela di casa alli quindici lavorati de filo bianco tre matarattia pieni di lana bianchi dui coscini uno grande et uno piccolo lavorati di seta turchina et carmosina. Presenti e testimoni Lancilao Candia regio judice ad cont.us. Ex.te D.no Carolo Siscara Comite Marturani. Ex.te Ottavio d’Aben.te. Ex.te R,do fratre Martio d’Aben.te. Ex.te Fabritio Macedonia de nap. Mag.co Carolo Casoppero UJD. Mag.co Fer.do de Scaglione. Mag.co Petro Trugillo. Mag.co Joan Maleno de Calop.ti. Tho Consalvo Fusaro. Tho Julio de Angeli de marturano”.

Il giorno seguente 13 marzo 1562, Ottavio d’Abenante di Napoli nel castello di Cirò fa un atto di protesta contro Elionora di Gennaro. Egli afferma che nei mesi passati, prima di morire, Mario d’Abenante gli donò, essendo suo zio paterno, molti oggetti, che ora sono in potere di Elionora. Alcuni giorni dopo, il 19 marzo 1562, nella terra di Cirò in presenza del capitano della Terra Joanantonio Maleno, Consalvo Ferraro e Loise Spolentino Erario e Mastro Giurato, a nome e per parte di Petro Antonio de Abenante, avendo saputo che Elionora di Gennaro intendeva lasciare Cirò e portare con sé molte cose di valore che appartenevano a Petro Antonio d’Abenante, cose che non si trovavano nemmeno descritte nell’inventario, chiedono alla Di Gennaro di consegnarle a loro, lasciandole nel castello. Si trattava di: “Due trabacche de ligname dui mataraccia pieni di lana pecurina uno spulveri de sidicico sei canne e mecio de tiletta de seta turchina et arangina uno guarnimento di cavallo di velluto morato inciappettato de rame con la gualdrappa fornita con scaletta et coscino una gonnella di panno russo incarnato guarnita di velluto carmosino incarnato uno dubbetto di seta pardiglia infoderato di pelliccia bianca con le maniche del midesmo uno dubbetto tropiano uno cappotto di velluto morato infoderato di taffita morato una gonnella di velluto morato di cavalcare repuntata de seta morata una guttunera de raso carmosino guarnita di velluto carmosino una gunnella di raso turchino guarnita di velluto turchino con passamano de argento con cinque rosette de oro e perne una robba di tabi verde guarnita de velluto verde con passamano verde una robba de raso turchino guarnita di velluto con passamano de argento con cinquanta cinque rosette de oro et perne minute infoderate de taffita turchina una robba de velluto incarnato carmosino fasciata con trinetti di seta bianca infoderata di taffita incarnato una gunnella di velluto bianco fasciata de midesmo infoderata di tela bianca uno cappello di velluto carmosino con penne guarnito de oro et argento uno ventaglio di penne con manico de oro smaltiti de molti colori una tassa di argento indorata tre para di maniche de tiletta de oro et argento infoderate de raso carmosino tre ricciglie de oro con le soi scialette uno coscino de velluto arangino uno cantaro de lana pecurina” (ASCz, Not. Cesare Cadea B.6, a.1562, ff. 33, 38, 41, 57).

Ben diversa si presentava la situazione del castello alla fine del Cinquecento, dopo che l’abitato era stato devastato dai Turchi. Il castello che fino a pochi anni prima aveva ospitato nella camera di scirocco ed il quella sopra il carcere il procuratore generale del marchese di Cirò, ora ospitava solo i suoi magazzini.

Martedì 13 settembre 1594 l’abitato di Cirò è devastato dai Turchi. La notte precedente, essendo comparsa l’armata turca nella spiaggia di Cirò, il vescovo di Umbriatico Alessandro Filareti, essendoci pericolo di invasione, fece istanza al capitano di liberare i carcerati che teneva nel carcere del castello, tanto civili che criminali. Quindi si mise in salvo (ASCz, Not. G .D. Durando 36, a. 1594, f. 502).

In un inventario del castello compilato dopo pochi giorni che la città era stata “depopulata, devastata et usta à classe turcica” così sono descritti i locali:

“In p.s dentro lo p.o magazeno in entrar la porta del castello à man destra son ritrovate. Uno mezo t.lo dela Corte, ch’era ferrato tucto strusciato. Quattordeci pallotti di colore bianco. Uno orbituro di donne fatto di ligno. Uno torcieri di ligno, dui cardi tavole serratizze 32. Una fallacca vecchia, lana de un matarazzo tenea jo. d. piamontese.

Dentro la s.da lamia di abascio. Una mayilla. Due sellari. Una tavoletta fu del m.co Ansideo scigata. Tavole serratizze n. 136.

alla 3.a lamia che serve per magazeno di oglio et lana trovami diece giarre d’oglio rotte, con gran quantità di pezzi rotti. Che non se possettero contare, et l’oglio fuso et parte colto dentro certe colacchie di giarre. Ottanta una pisa di lana asciutta, et altra lana sciusa et aburgata d’oglio quale non si può contare per esser unta d’oglio, tilaretti serratizzi 36.

Allo cellaro de vino ritrovammo, la prima botte grande di testa di salme 18 et l. 2. a man sinistra dove era … ritrovammi inbuccettata dela quale il m.co erario n’era dentro vino salme 14. Il restante s’è fuso. La 3 botte di s. 18 et l. 7 dela quale era uscito cinque salme dice di vino bianco et il resto s’è fuso. La quarta botte de vino bianco da dove era uscito salme otto et lancelle 4 venduto a renzo il resto à complim.to di salme 18 et l. 7 s’è fuso et acettato la quinta botte di s. 17 et l. 3 piena di vino bianco fu sbucettata et lo vino si fuse, così come evidentem.te appare.

Alla sala de scirocco ritrovammo li dui Archivii del’atti dela Corte scassati et gran parte dele scritture buttate à terra quali colti si ritornorno à detti Archivii.

Alla camera sopra li carceri dove stava il qm S.r Ansideo ritrovammo uno banco di forgia scassato et sbalisato. Otto picche alli quali mancano li ferri tagliati in ponta, uno cascione d’abete scassato dove dice il m.co erario che ci stevano l’infratte robbe VS una cultra di taffità gialla torniata di taffità russa usata, uno spolveri con lenze di seta negra et frangie di seta negra et bianca consist.te in otto tele per menzina usate quale cultra et spolverio dice ch’erano del S.r pietro vinc.o.

Item dice v’erano dui cocchiarelli et una quinquidente d’argento.

Item dui fila de coralle minute, uno anello d’oro con uno camello bianco et un altro anello d’oro vacuo senza petra, una resta de coralli con inganna p.le turchine con migliuzzi d’argento una cruce d’osso di spagna vecchia uno scoffione d’oro vecchio quali robbe dice esser stati del qm gio. pietro soriano, quattordici cammise usate un’altra senza collaro quattro camise di tela cruda de notte nove senza collaro.

Item quattro vite de ferro de trabacca uno libro di notam.to del bestiame dela Corte longo con carte scritte n. 62 et scritto dela mano del qm S.r Ansideo un altro notam.to sopra detto n. la bandiera quale sopra dette robbe annotate non se ritrovano in detto cascione, altro che tre puma indorate et dui semplici di trabacca. Ne meno si hanno ritrovate in detto cascione le robbe in inventario consignate del qm S.r Ansideo Curto sincome il detto m.co erario dice che stevano in detto cascione conforme al detto inventario et si son ritrovati solam.te dui libri l’uno intitolato Calendario gregoriano et l’altro Il ben morire.

Item una cascia d’abete di palmi 7 incirca se ritrovò scassata con molte scritture buttate a terra et reposti dentro la medesma cascia una cascia scasciata de nuce. Un paro di redistalli 3 tavole di lettera di trabacca.

Al magazeno de sotto la sala del archivio s’è ritrovato grano tt.a 43 ½ fave tt.a 41 quale magazeno s’è ritrovato scassato et senza catinazzo cossì anco l’altri magazeni dele quale fave dice esserne tt.la 4 d’ant.llo risitano et detti grano et fave forno misurati per jac.o perito uff. can.o.

Al magazeno del caso s’è ritrovato vacuo la porta scassata et senza catinazzo solo che ci sono tabule serratizze d’abete 16 et un barile vecchio, 2 giarre d’oglio vacue tra le q.le sono due rotte, vino pertufato”. (ASCz, 36, 1594, ff. 472-473r).

Alcuni mesi dopo il saccheggio, il 6 dicembre 1594, è stipulato un contratto per la riparazione del castello tra l’università rappresentata dal sindaco Joannes Frugillus ed il mastro fabbricatore di Corigliano Marius Risafi.

“… esso m.o Mario promette d’hoggi inansi ad ogne simplice requisitione di d.to m.co sin.co ò altra p.na deputanda per d.ta un.tà fabricare alla reparatione del castello di d.ta t.ra del Ciro ogne sorte de muro che bisognerà à rag.e di carlini quattro et mezo la canna alla nap.na che esso mastro Mario habbia di fabricare esso con altri mastri fabricatori et manipoli à suoi dispese et esso m.co sin.co l’habbia di dare vicino di d.to muro, calce, acqua, arena , pietra et ogn’altre sorte di ammanimento et ligname cinq.ta palmi d’arrasso di d.to muro et per caparra per parte di pag.to d.to m.co sin.co promette far consignare in Crogliano à d.to mastro Mario docati quindeci et promette detto m. mario obligarse con unaltro suo f.re per d.to dan.ro et far ratificar il p.nte contratto da d.to suo f.re et promette d.to m.co sin.co durante detto partito dare gratis al d.to mastro Mario suoi compagni et manipoli casa et uno letto complito tantum. Item se convenero esse parte che venendo d.to mastro et manipoli al Cirò à requesta di d.ta un.tà et mancando per essa un.tà sia ten.ta à tutti danni.” (ASCz, 36, 1594, f. 502).

cirò torre del castello

Cirò (KR), torre del castello.

Torre di Fiumenicà

Dal 1569 al 1578 era torriere Michele de Mendoza (Valente G., p. 77). Dal primo settembre 1593 è caporale della regia torre di Fiumenecà Josephus Piccinnus della città di Cariati ed è socio Stephanus Piccinnus. Il primo maggio 1594 si pagano il caporale Josephus Piccinus ed il socio Stephano Piccinus per aver custodito per quattro mesi a partire dal gennaio 1594 la torre di Fiumenica (9, 1594, ff. 301, 318v). Nel 1600 è torriere Domenico Garzia (Valente G., p. 77). Il primo maggio 1604 l’università di Cariati paga ducati 26 al caporale Antonio de Riccardo ed al socio Dominico de Thomase per i quattro mesi di custodia della torre dal primo gennaio 1604 (Duc. 4 al mese al caporale e Duc. 2 e mezzo al socio; (9, 1604, f. 199). 31.8.1607. Francesco Refriscato è caporale della regia torre de Fiumenica in marittima della città di Cariati e Martino Mazzeo socio. Pagamento per tre mesi e 4 giorni, dal 27 maggio 1607 alla fine di agosto (ASCz, B. 8, f. 115).

 

Una vendita di schiavi

Il 26 novembre 1594 nel castello di Cirò il padrone di fregata , il raguseo Vincenzo Mili, vende per ducati 500 degli schiavi al marchese di Cirò Vespasiano Spinelli.

Il Mili possiede, in quanto catturati con la sua fregata, otto schiavi e due schiave, tra le quali una con una figlia: “Maumeth moro di Ruscet, Alì dela Natalia “stroppiato di tre dita di la mano sinistra e bullato in faccia vicino l’orecchia sinistra, Assan di la Caramannia, Alamisciat de la Caramannia vecchio barbi bianco con una sima adietro l’orecchia sinistra, Amosà dela Natalia, Issuf dela Natalia con lo nervo di sotto la canna brusciato et così in fronte, Maumeth dela Natalia con una sima sopra lo ciglio sinistra, Airadi dela Natalia con quattro bulle sopra lo pulso sinistra, Iscia femina vecchia di Stravalà dela Natalia, Sirfù femina con una figlia nome Fatuma dela Natalia” (ASCz, 36, 1594, f. 492).

La città ed castello di Cirò, il palazzo di Alice e le torri di Capo Alice e di Fiumenicà in alcuni documenti della seconda metà del Cinquecento
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Archivio Storico Crotone - Raccolta di ricerche di archivio, fonti storiche, immagini, fotografie e documenti riguardanti il territorio crotonese.

Papanice alla fine del Cinquecento

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Papanice alla fine del Cinquecento
Archivio Storico Crotone

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Papanice.

Nella seconda metà del Cinquecento, nonostante le pestilenze, il casale aumenta considerevolmente la sua popolazione, tanto da essere tassato per 80 fuochi nel 1578 e per ben 234 fuochi nel 1595. All’aumento contribuiscono anche famiglie, che lasciano altri casali e vi si insediano per pagare meno tasse, in quanto Papanice essendo casale della città regia di Crotone, ne gode i privilegi. È il caso di Vincenzo Greco, figlio di Geronimo, il quale è accusato di avere lasciato il casale di Massanova e di essere andato ad abitare nel casale di Papanicefora per fuggire i pagamenti fiscali. Il Greco in presenza del tesoriere di Calabria Ultra e del Marchesato di Cotrone, dichiara che né lui né il padre è foco del casale di Massanova e che da due anni abita nel casale di Papanicefora “in pertinentia della città de cotrone”, dove ha contribuito e contribuisce a tutti i pagamenti ordinari e straordinari. La sua dichiarazione è confermata dai governati del casale di Papanice: sindaco Costantino Grisafo, mastro giurato Gio. Petro Meza, eletti il Nob. Hieronimo Grisafo e Jo. Stamati Puglianiti.[i]

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In evidenza l’area del casale di Papanice.

L’abitato alla fine del Cinquecento

L’abitato è suddiviso in “convicini”, che prendono il nome dalle cinque chiese del casale (SS.ma Annunziata, San Nicola, San Rocco, SS. Pietro e Paolo e San Salvatore) e da alcuni luoghi (La Piazza, Lo Dextro e Lo Burgo). Tutte le case del casale, quasi sempre si tratta di case terranee, essendo state costruite sul suolo appartenente al duca di Nocera, sono gravate da un annuo reddito o censo quasi sempre di carlini cinque per “jure tuguritio seu pagliaritio”, da pagarsi ogni anno alla curia del duca di Nocera (“ut in Platea”).

 

La chiesa dei SS. Pietro e Paolo

La chiesa dei SS. Pietro e Paolo, detta anche la chiesa maggiore, è la chiesa matrice del casale ed è di rito latino. Essa è retta da un arciprete parroco. All’arciprete Giulio Franco (16.6.1595) seguì, il reverendo Jo.es de Miglio (11.8.1603) e quindi l’arciprete e vicario foraneo Jo.es Francisco de Amato (8.12.1606). In essa c’è la cappella del SS.mo Sacramento dove ha sede la confraternita omonima. Oltre alla cappella del SS.mo Sacramento vi sono altre cappelle di laici, tra le quali quella della famiglia Villirillo.[ii] In questi anni la chiesa è oggetto di alcuni miglioramenti.[iii] L’arciprete gode di una rendita di circa 150 ducati annui, proveniente in parte da alcune case.[iv] Vicino alla chiesa vi sono delle case terranee, tra le quali quella che Martino Sculco vende a Petro Gagliardo,[v] la casa di Scipione Gangutia, la casa del “secretario” Passa Lacqua e la casa dotale di Gioanmatteo Caserta.[vi]

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L’altare maggiore della chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Papanice.

 

La chiesa di San Nicola

La chiesa, detta anche tempio, di San Nicola è di rito greco. Essa è retta dall’arciprete dei Greci Lucantonio Grisafo, che gode una piccola rendita di circa 40 ducati annui. Vicino alla chiesa vi è la casa palaziata dei Grisafo, delle case terranee, dei casaleni, degli orti, alcune stalle e delle fosse per conservare il grano. L’edificio più importante è quello della famiglia Grisafo, costituito da “uno palazo con lo catoio abascio et con una casa terranea dicta delo furno contigua cum dicta domo palaciata poste al convicinio de santo nicola juxa suos notorios fines”. Il palazzo con altri beni è assegnato da Hieronimo Grisafo al chierico Joannello Grisafo, che deve intraprendere la carriera sacerdotale.[vii] Vi è poi la casa terranea in tre membri di Antonello Bastiano, che confina con la casa e l’orto di Masi Cresidonte e la casa di Bartolo Grisafo.[viii] La casa terranea di Bartolo Grisafo, che è vicino alle stalle di Giovanni Pietro Ramundo e alla casa di Salvatore Franco.[ix] Le case terranee con fossa davanti e orto di Gio. Lorenzo Sisca, che confinano con l’orto e la casa di Alexandro Sculco.[x]  Altre case sono quelle di Marcello Ramundo, di Gio. Gregorio Carnevalari e dell’erede di Nicola Marango.[xi]

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La chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Papanice.

 

La chiesa della SS.ma Annunziata

In questi anni la confraternita dell’Annunziata con chiesa propria, retta da procuratori dapprima Gio. Nicola Foresta e poi dal “magister Petrus Jo.es Grandelli, si arricchisce con case lasciate da donatori.[xii] Vicino alla chiesa ci sono le due case terranee di Hisabella Medana “cum hortalis extra eas ex parte boreali contiguo cum eis, et cum syro seu fovea ante eas domos”, la casa dell’erede di Orazio Gigliotti e la casa di Sebastiano de Renda.[xiii]

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La chiesa della Pietà di Papanice.

La chiesa di San Rocco

Vicino alla chiesa di San Rocco, protettore contro la peste, vi erano la casa palaziata e la casa terranea di Sansone e Prospero Foresta e le case terranee di Gio. Laportella, di Julia de Vona, che sposa Gio. Hieronimo Carafa, e la casa di Matteo Gargano.[xiv]

 

La chiesa di San Salvatore

In prossimità della chiesa dedicata a San Salvatore vi era alcune case terranee appartenenti alle chiese della SS.ma Nunciata e dei SS. Pietro e Paolo,[xv] delle casette con orti e dei pagliari. L’area dove sorgevano queste abitazioni era vicina allo “burgo de abascio”.[xvi]

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La piazza

Nella piazza vi erano il palazzo e le botteghe dei Raimondi,[xvii] le case, le botteghe e la torre dei Grisafo,[xviii] e le case di Gioanandrea Sculco. La torre era stata iniziata da Costantino Grisafo ed era ancora in costruzione all’inizio del 1598. Il 24 gennaio 1598 Vittoria Sculca, vedova di Costantino Grisafo dichiarava di possedere “una torre incomenzata posta dentro detto casale alla piaza, confine le case di gioan andrea sculco”.[xix]

 

La torre di Geronimo Grisapho

Tra le doti di Anna Zachya, che sposa Horatio Gigliotti, vi era “una casa terrana posta al convicinio dela torre de ger.mo grisapho, confine la casa di cola zachi, confine laltra casa di detto geronimo grisapho patrone di detta torre, confine la casa de geronimo grisafo detto scardone, confine la casa de betta de frangopolo”.[xx]

 

Lo Dextro

Nel luogo “Lo Dextro” vi era la casa di Angela Perrona “cum uno casaleno contiguo … et hortum unum alboratum contiguum cum dicta domo … et abbraria apud decembene munita posita intus dictum hortum”[xxi] e le case di Gio Tomaso Mendolara “in quattuor membris divisarum … una cum (casaleno et) horto contiguo”, di Vincenzo Conforto, di Ascanio Pignero.[xxii]

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Papanice.

Lo Burgo

L’emigrazione di nuove famiglie da altri casali albanesi aveva dato vita ad un insediamento sotto e vicino al casale detto “lo Burgo di sotto”. “Lo Burgo”, situato in convicinio della chiesa del SS.mo Salvatore”, era costituito da un insieme di “pagliari” con piccoli orti e da alcune case terranee.[xxiii]

 

Le Fosse

Dentro l’abitato di Papanice vi erano numerose fosse dove era conservato il grano prima di essere esportato. Fosse per conservare il grano sono segnalate davanti alla casa palaziata dei Grisapho, di Gio. Lorenzo Sisca, di Gio. Gregorio Coco ecc. Il 26 maggio 1598 è stipulato il contratto matrimoniale tra Dianora Burrello ed Agostino Le Chiane. Tra le doti vi sono “cento cinquanta uno tt.a de grano à raggione de carlini dece lo tumolo quale grano è posto intro le fosse nel cortiglio di gioe de renda”.[xxiv] Tra i beni lasciati in eredità da Francesco Melucci (26.4.1598), vi sono “tumulos frumenti centum positi in fovea ante domum josephi bestiani … par unum boves ducatos viginti monetae … quandam domum novam dictam lo magazeno.[xxv]

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Papanice.

Il territorio di Cortina (Biverio seu Cortina)

Il territorio di Cortina era situato sulla via pubblica che dall’abitato di Papanice andava a San Giovanni Minagò ed era costituito da un comprensorio di terre rase ed aratorie situato nel distretto della città di Crotone (“in distritto et pertinentiis civitatis crotonis”) ed in territorio del casale. Esso confinava con le terre dette Li Caracalli, Gulli e le Conicelle. Dentro questo territorio era stata edificata la terra di Papanice e per questo il possessore di Cortina esigeva il “jus pagliaritico” sopra le case e altre annue entrate per alcuni vignali o pezzi di terre. Per ogni “vinea” era dovuto un “annuo censu modii seu tumuli unius frumenti debito et solvendo ducali curiae noceriae”. Il comprensorio di capacità di circa 750 tomolate era composto da sette gabelle: Muzzunà, Galantino, Bufuchia, Zoci, L’Acqua d’Andrea, La Mortilla e Porcheria.

Nel territorio vi erano le vigne di molti abitanti del casale tra i quali Angelina Marango, Gio Paolo Torchia, Nicola Foresta, Pietro Scornavacca, Hieronimo Gagliardi,[xxvi] Gioanpetro Ramundo, Alessandro Sculco, Anna Zachya,[xxvii] Gio. Andrea Sculco, Gio. Terrioti, Vincenzo Conforto,[xxviii] Marco Sacco, Fabio Lupo,[xxix] Betta Grisapha, Santo Nicastro, Salvatore Basile,[xxx] Josepho Laportella, Gio. Boini,[xxxi] Fabio Menzà, ecc. Molte di esse, come quella dei Menzà, erano “cum arboribus ficuum, sycomorum, malorum, punicorum et pirorum sitam et positam in terr.o dicti casalis jux.am hortales sansonis de strongolo petri jois grandelli ascanii durantis cursu acquarum mediante deorsum ju.xam possessionem phi sculchi et possessionem hyeronimi grisaphi de joe juxam aliam m.tem dicti vinealis jois gomis menzà jux.am divisionem inter eos de menzà communes fratres per tractatu communius amicorum jux.am viam publicam et alios fines cum solito annuo redditu granorum quinque debito et solvendo ducali curiae ducis nuceriae paganorum ut in platea”.[xxxii] Altre come quella dei Foresta, “arboratam cum ficubus piris et aliis arboribus in loco dicto curtina jux.a vineam jois pauli torchiae vineam clerici ferdinandi capicchiani viam pp.cam qua itur in rus S.ti Joanis Minagò, fracam excepto annuo redditu per unius modii et quarti frumenti debito et debendo ducalis curiae terrae cutri in perpetuum”.[xxxiii]

 

La Gabella delo Puzzo

Oltre a pagare censi in frumento per i terreni di Cortina, situati nel territorio del casale, gli abitanti furono costretti per coltivare a pagarne altri per terreni prossimi all’abitato ma in territorio di Crotone ed appartenenti ad altri proprietari. Primeggia quelli della “gabella delo Puzzo” di Tomaso Cresidonte, un ricco possidente del casale. Qui c’erano le vigne di Marco Sacco, di Agatio Tarapo, di Pietro Gentile,[xxxiv] di Matteo Carnovale, di Antonio Castagnino,[xxxv] di Angela Perrona,[xxxvi] ecc.

Vicino alla “gabella delo Puzo” altre gabelle sotto l’abitato risultano date a censo o acquistate dagli abitanti, tra queste quelle di “Scarano”, di “Lo Yardinello”, di “Caracalli”, di “Viridariolo”, di “lo Canale”, di “Santa Sophia”,[xxxvii] ecc. Non manca tuttavia una fiorente attività creditizia con prestiti in denaro da parte di nobili facoltosi del casale, specie i Grisafo e gli Sculco, ad aristocratici crotonesi, impegnandone i beni.[xxxviii]

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Papanice.

Le abitazioni

L’abitato era costituito nella maggior parte da case terranee, a volte circondate da piccoli cortili, orti e stalle: “vestibulum seu cortile her.m stamati puglianiti”,[xxxix] “quandam domunculam terraneam seu stabulum”,[xl] “domum seu stabulum marcelli ramundi”,[xli] “domum cum horto ex parte meridionali”,[xlii] ecc. Parte della popolazione vive ancora in pagliari o tuguri, anche se non manca una certa attività edilizia con la costruzione delle torri dei Grisapho[xliii] e di Gio. Matteo Peto,[xliv] dei palazzi[xlv] e delle case palaziate.[xlvi]

Due atti notarili riguardanti Pyrrus Fellapane e Vittoria Sculca ci danno ulteriori informazioni sulla vita del casale.

24 gennaio 1598. Vittoria Sculca, vedova di Costantino Grisafo, possiede “una continenza di terre seu gabella sita et posta al terr.o di cotrone in loco dicto lamposa confine lo pheudo de briglianello juxam le terre de la torre et le vigne deli suriano con rendito de ducati quindici annui à gio. andrea de nola per censo di ducati cento cinquanta et altri duc.ti quindici di censo à gio. fran.co juliano et à nardo jacomino duc.ti quattordici annui di censo medianti publici cauteli et col peso de altri duc.ti dece annui à ger.mo jacomino mediante cautela publica item unaltra gabella di terre posta al distritto di cotrone in loco dicto sparti, confine le terre de sanbiasi et le terre del vescopato de cotrone et le terre de li heredi de gioe menzà item duc.ti ottanta implicati à compera di annuo censo sopra le case deli heredi de vinc.o de nola mediante pub.o istrumento item una casa palatiata con scala di petra posta dentro la città de cotrone nella parrochia de santo stefano item una continenza de case terrane con diversi appartamenti et una torre incomenzata poste dentro detto casale alla piaza, confine le case di gioan andrea sculco et la via publica item due casette terrane poste in detto casale confine le case de jacobo grisapho et le case de paulo tarapo item duc.ti quaranta incirca implicati à censo sopra le case di manfreda manfreda appare per cautela publica”.[xlvii]

8 ottobre 1606. Pyrrus Fellapane possiede “domum unam palaciatam cum catoio contogio atque vestibulo seu cortiglio apud ipsum à tergo seu à parte inferiori cum signo structurae pontis … jux.a domum palaciatam nicolai puglianiti jux.a palatium her.o q.m stamati puglianiti viam publicam à parte superiori ab occidenti francas cum annuo redditu sive censu car.rum quinque cum dimidio debito ducali curiae noceriae paganorum”. La casa che faceva parte del fondo dotale della moglie Carafina Puglianiti è venduta a Martino Epitropo.[xlviii]

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Arme degli Sculco nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Papanice.

L’università di Papanice

Papanice era casale della città regia di Crotone e come tale ne godeva i privilegi, i diritti ed i doveri di quella città. Essa aveva un suo governo che era costituito da un mastrogiurato, da un sindaco e da quattro eletti.

Sigillo Papanice

Sigillo dell’università di Papanice.

 

Una lunga lite per i diritto di pascolo sul Bosco di Isola

Nel Medioevo Isola era casale di Crotone ma in seguito divenne una città autonoma. I Crotonesi tuttavia conservarono gli antichi diritti sul Bosco situato in territorio di Isola. Papanice, essendo casale di Crotone, rivendicava i diritti sul Bosco in quanto casale di Crotone. Tra i beni feudali del barone di Isola vi era il Bosco dell’estensione di circa mille moggi. Su questo vasto territorio boschivo il barone aveva il diritto di fidare gli animali forestieri e di “lignare”; mentre i cittadini di Isola, di Crotone e del suo casale di Papanice potevano esercitare i diritti civici di “lignare e pascolare”. Il barone cominciò a contrastare il diritto di pascolo dei Crotonesi e degli abitanti di Papanice sul Bosco, pretendendo che questi, per poterlo esercitare, dovevano prima dimostrare di non avere erba sufficiente sul loro territorio.

Nel Febbraio 1595 si riunisce il governo del casale composto dal mastrogiurato e luogotenente m.co Salvatore Franco, dal sindaco Jo.e Andrea Sculco e dagli eletti i m.ci Hieronimo Grisapho de Andrea, Filippo Sculco, Bernardo Spagnolo e Jo.es Gregorio Coco. Sono presenti anche alcuni particolari cittadini e uomini del casale tra i quali: Joes Petro Ramundo, Hieronimo Grisapho de Jo.e, Scipio Coco, Jo.e Francesco Coco, Francesco Meluccio, Marcello Ramundo, Nicolaus Franco, Vincentio Conforto, Stamati Puglianiti, Jo.es Paolo Torchia e Santo Nicastro.

Il sindaco fa presente che l’università di Papanice è in lite con Gaspare Ricca, barone della città di Isola, “super jus pasculandi in nemore seu defensa praefata civitatis insulae” e sui denari che l’università avanza dalla Regia Curia per averli anticipati per il presidio spagnolo di Crotone, per i quali chiede uno sconto sul fisco, che deve pagare. Per far valere le sue ragioni l’università decide di inviare in Napoli Jo.e Gregorio Coco.[xlix]

Il 9 ottobre 1595 si riunisce il governo del casale composto dal sindaco Jo. Petro Ramundo, dagli eletti Jo. Hieronimo Mezà, Hieronimo Grisapho de Jo., Scipio Coco e dal mastrogiurato e luogotenente Francesco Meluccio. “Homini deabene come sapeti che li detti ducati duicento cinquanta novi tari et grana imprestati li anni passati per questa uni.tà alla compagnia residio in Cotrone del capitan Aloyse de Arneda ne fore fatti boni per la banca de la R.ia g.le thesaureria ducati cento settanta sei et ordinato all’Ill. S.r Giovan Jacopo Scoppa R.o thes.o dela provincia de calabria citra, che li faza boni sopra li pagamenti fiscali di questo casale deve alla R.a Corte de le quali ne foro fatti boni per detto Ill. S.r thesaurero ducati trenta novi et tari tre al terzo de Agosto delanno 1594 et ducati sessanta sette et dui tari ne forono fatti boni all’anno 8.ae Ind.s 1595 et li restanti ducati settanta novi de ducati cento settanta sei per non haverno possuto capere allanno 8.ae Ind.s restorno di farsi boni allanno preditto 9.ae Ind.s sincome per lit.ra del detto S.r thes.ro portatone per lo mag.co gio. andrea sculco sindico delanno prossimo passato et depiù tenemo unaltra prov.ne dela R.a g.le thesaureria diretta al ditto S.r thesaurero che se scomputi à questo preditto casale ducati ottanta tre un tari et un grana: quali sono à complimento delli detti ducati ducento cinquanta novi un tari et grana, che questo casale impostò alla detta compagnia me pararia che mandassimo homo apposta in Monte Leone al detto Ill. thes.ro con procura universale à farne fare detto excomputo tanto deli retroscritti ducati sessanta novi rimasti dela prima provisione presentata et registrata in la R.a banca del detto S.r Thes.ro come anco deli dicti ducati ottanta tre un tari et un grano di questa provisione et portarla la preditto Ill. S.r gioan giacomo scoppa et perche anderà in detta città di monte leone il mag.co gioan greg.o coco di questo casale me pareria, che facessimo la detta procura à cetto mag.co gio. gregorio à farsi fare detto excomputo et presentare la detta provisione le S.V. vedano che li pare et per li sotto scritti m.ci eletti fu detto che fazi procura universale al detto mag.co gio. Gregorio coco a farsi excomputare dal detto Ill. S.r thes.ro tanto li retroscritti ducati sessanta novi rimasti da la prima provisione in detta R.a banca come a compostare la presente provisione delli 83 ducati un tari et un grano dandoli ampla potestà di exequire le cose predette et farsele fare boni sopra quello che questo casale deve alla R.a Corte nella presente annata 9ae Ind.s et così fu detto et concluso, et descr.to pari voto et nemine discrepante et perciò ne hanno fatto scrivere lo presente regimento per me fabio peretta cancellario firmata da loro pp.e mano et signi di croce datum ut s.a fran.co meluccio mastro Jurato, gioanpetro ramundo sin.co, gioageronimo menzà + signum crucis propriae manus, m.ci scipionis cochi eletti scribere nescientis + signum crucis pp.ae manus, m.ci hier.mi grisaphi de joe electi scribere nescientis idem q. supra fabius cancellarius.[l]

 

Numerazione dei fuochi

Il 20 settembre 1596 si riunirono i componenti del governo del casale rappresentati dal mastrogiurato e luogotenente Hieronimo Grisapho de Andrea, dal sindaco Vincentio Conforto e dagli eletti Jofrides Foresta, Bernardo Spagnolo, Francesco Dinanto e Prospero Foresta. Erano presenti anche alcuni particolari cittadini: Jo.e Petro Ramundo, Hieronimo Menza, Scipio Cocus, Bartolus Grisapho e Nicolaus Puglianiti. La convocazione aveva per oggetto l’invio a Napoli di un delegato del casale per prendere atto della nuova numerazione che aveva elevato il numero dei fuochi del casale, difendere i diritti che gli abitanti avevano sul Bosco di Isola ed il recupero del denaro, che l’università di Papanice aveva anticipato per sostenere le compagnie spagnole stanziate a Crotone.

“Homini deabene come sapeti che li reggii numeratori i quali numerorno questo casale, et mandorno la detta nova numeratione in nap.li nella R.a Camera dela summaria fecero ordine a detta università et soi deputati, che fra doi mesi la detta università mandasse uno de detti deputati in nap.li per la detta numeratione conforme lordine di sua e.tia et di detta R.a camera et perche è passato già il termino fatto per detti Reggii numeratori me pareria che al presente è tempo de mandarsi uno deli deputati p.ti quali sonno gioanandrea sculco et gioangregorio coco che da parte questa unità compara tanto inanti di S. E. et suo collaterale consilio come in detta R.a camera et altri Regii tribunali dove sarà necessario per la detta numeratione come ancora per difendere la lite del bosco delisola et de recuperare li dinari imprestati alle compagnie spagnole che hanno residuto in cotrone et tutte altre cause, che detta università tene in detti regii tribunali. Vedete che vi pare …”.[li]

 

La lite col vescovo di Crotone

Gli abitanti del Papanice godevano i diritti di pascolo sul territorio della città di Crotone dal primo di maggio fino a settembre di ogni anno. Infatti “per antica consuetudine le gabelle et territori dal mese di maggio per tutto il mese di agosto de quasivoglia anno et finche non piove tre volte in abundantia sono comuni et si pascolano indifferentemente da qualsivoglia sorte de animali: qual pascolare li padroni di dette terre non possono prohibire”.[lii]

Questo diritto era contrastato dal vescovo di Crotone, lo spagnolo Giovanni Lopez de Aragona (1595-1598), il quale fa incarcerare gli armenti degli abitanti di Papanice, che pascolano sui territori della chiesa del Prastio e di Mutrò e per liberarli vuole essere pagato.

Il 3 ottobre 1596 si riuniscono il sindaco Vincenzo Conforto e gli eletti Francisco Dinanto, Prospero Foresta e Bernardo Spagnolo. È presente il mastro giurato Hieronimo Grisapho de Andrea.

“Homini dabene del regimento et citadini come sapeti, che li di passati per regimento fu concluso, che si mandi in nap.li gioangregorio coco deputato sopra la nova numeratione fatta à detto casale per li regii numeratori al quale or(dina).mo che se presentasse in nap.li in summaria per la detta numeratione al presente come sapeti che mon s.or vescovo de cotrone ha fatto pigliare molte partite de bache de cittadini de detto casale et quelli l’have compostato, una quantità de dinari: quale have trovato dentro le terre del prastio et mutrò terre dela ecclesia vescovale poste dentro detto territorio de ditta Città: al quale territorio continuamente tutti li cittadini et habitanti sempre hanno pascolato con tutti sorti de loro animali dove non siè memoria de homini in contrario da quando fu fondato detto casale: per essere fundato dentro ditto territorio et sogetto alla jurisditione R.a de ditta Città come suo membro: alle quale terre sempre hanno pascolato et pascolano, in pacifica possessione dal p.o di maggio de ogne anno, che se sbarrano tutti li territorii perfinche si fa l’herba nova de lautunno: nel quale tempo se bandizano detti territorii con licenza del Regio Capitano de ditta Città: et il detto vescovo inanti che se bandissero detti territorii del prossimo mese passato di 7bre ha fatto pigliare portati carcerati dentro detta Città in suo potere tutte le bache de gioanpetro ramundo scipione coco hieronimo grisapho de gioe et de andrea et de altri et quelli li have compostati da circa sessanta ducati contra ogne debito de Regie forzati di non sapere a chi recorrere per essere lagiusta spirituale distante dal luoco per non perdere detti loro animali se lassarno compostare del modo preditto et perche questa causa inporta assai trattandosi de antiqua possessione che sua maiesta ne ha dato et quanto bene tenemo: Il detto vescovo pretende privarne de detta possessione de fatto, me pareria che se mandasse uno homo apposta in roma à darne memoriale à sua santità et santa congregatione per la detta causa et darne memoriale a S. E., che ne mantenga alla detta R.a pretentione et possessione antiqua di detto pascuo, cosi come per il passato hanno osservato li antecessori vescovi di detta Città, me pareria ci andasse gioanandrea sculco di detto casale, per essere persona habile”.[liii]

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Papanice, testa marmorea inserita nell’arco di una porta.

I censi sulle case e sulle vigne

Alla fine del Cinquecento Francesco Maria Carafa, duca di Nocera e figlio ed erede di Ferrante II, morto l’undici settembre 1593, possedeva “un comprensorio di terre consistente in più gabelle dette Cortina coli pagliaratici e con censi di case e vigne poste nella terra e territorio di Papanice”. Il territorio di Cortina sul quale il Carafa esigeva il pagliaratico ed i censi sulle vigne era però gravato da censi fin dal tempo che il comprensorio era appartenuto a Joannello Campitello. Casalinaggio e censi che dovettero pagare gli abitanti del casale anche dopo che divennero signori e padroni di Cortina i Caraffa. Oltre che dagli interessi sul prestito di 1000 ducati posseduto dal De Cananca, vi erano anche quelli del Capitolo di Santa Severina, il quale doveva celebrare “sette messe la settimana, et uno anniversario con messa cantata et un altro notturno con messa cantata dopo la commemorazione de defunti per l’anima d’Ippolita Campitella per li quali pesi legò à detto R. o Capitolo annui docati di censo redimibile per capitale di d.ti 500 sop.a le gabelle nom.te Vituso e Cortina di questa Ducal Corte”.

Il 12 settembre1597 nel casale di Papanicefora si presenta Hercules de Cananca di Cosenza il quale protesta in quanto vuole esigere le terze passate sul territorio detto Vituso, Cortina e il pagliaritico del casale di Papanice del valore di ducati 1000, posseduto da detto De Cananca sopra detti territori ed il casalinaggio di Papanice fin dal tempo nel quale ne era vero signore e padrone Joannello Campitello a ragione di ducati 9 per cento annui per il valore di ducati 90 ed in seguito le riscosse da Scipione Rotella. Le quali terze passate ascendenti ora alla somma di ducati 270 sopra dette terze e casalinaggio, egli deve riscuoterle, come da lettere esecutive spedite in magna curia della vicaria per ordine e sentenza del sacro regio consilio e deve avere altri ducati 90 per la terza del presente anno 1597maturata il giorno 3 maggio prossimo passato. Poiché in vigore di dette lettere esecutive egli deve avere dai coloni e da coloro che hanno in affitto detti territori il frumento delle gabelle del presente anno e non potendo personalmente rimanere in detto casale di Papanice e San Giovanni Minagò per ricevere il detto frumento che devono consegnare i coloni, nomina suo procuratore Gio. Gregorio Cocho di detto casale, il quale si farà dare il frumento e lo conserverà nelle fosse e costringerà e perseguirà i renitenti, che non lo consegnassero.[liv]

 

Arcipreti e chierici

Nel casale vi erano due arcipreti, uno di rito latino e l’altro greco (Giulio Franco arciprete del casale di Papanice (16.6.1595), Jo.e de Miglio archipresbytero del casale di Papanice (11.8.1603), Jo. Francisco de Amato “Archi P.b.ro Papa.ris et vicario foraneo” (8.12.1606), Lucantonio Grisapho “archipresbitero graecorum” (13.8.1606). Vi erano poi numerosi chierici, i quali godevano di esenzioni fiscali e del foro ecclesiastico. Ricordiamo i “clerici Jo. Matteo Peta, Julio Nicastro, Lupo Grisapho, Nicolao Armocita “de terra Vadulato”, Joannello Grisapho, Jo. Vincentio Ramundo, Nicolao Angelo Gagliardo, Paulo Perretta, Mauritio Gabriele, Jo. Petro Spagnolo e Jo. Tha Principato.

 

Greci e latini

“Die 22 mensis 8bris s.ae Ind.s 1606 reg.te in pap.ra coram nob. personalr. Constitutis betta ramundo vid.a q.m antonii burrelli eiusdem loci et not.o jo. fran.co gallipoli crot.ta asserentibus q.l.r mensis et diebus proxime praeteritis, contractum esse leg.m matrim.m inter ipsum not.um et chaterinam burrellam filiam legitimam et naturalem q.m p.fati antonii burrelli et ipsius bettae constituentis medianti albarano scripto manu R.di lucae antonii grisaphi archipresbiteri graecorum eiusdem ruris sub die13 mensis augusti p.nti anni 1606 4.ae ind.s, et dictus matrimonium auspice deo optimo maximo effectum habuit juxa ritum morem et observantiam sanctae n.ri romanae”.[lv]

SIGILLO DELL'ARCIPRETE DI PAPANICE GIULIO FRANCO (1596)

Sigillo dell’arciprete Giulio Franco.

 

Un prigioniero

11.8.1597. Sindaco Vincentius Confortus, eletti: Francesco Dinanti, Bernardo Spagnolo e Dimitri Ramundo. Mastro Giurato Geronimo Grisapho de Andrea. Su ordine regio si deve portare in Rocca Bernarda Durabile Durante, che deve essere rinchiuso in quelle carceri. Sono incaricati di condurlo: il caporale Sansone de Strongolo, Jo. Francesco Ramundo, Fulvio Salamò, Joanfrancesco de Sena, Petro Roberto, Jo. Francesco Gulla, Jo. Petro de Renda, Nicolao Russo, Francesco de Rossano e Jo Hieronimo Carafa.[lvi]

 

Due “chirurgici”

15.5.1598. Antonello Bestiano e Antonino Salamò di detto casale di papanicefora “chirurgici esperti”, su richiesta di mininco burrello analizzano la ferita di una mula de pilatura castagna della mandra di crepacore. E sindaco Jo Andrea Sculco e marcello Ramundo è mastro jurato.[lvii]

 

Note

[i] ASCz, not. Baldo Consulo, 8 luglio 1585, ff. 116v-118.

[ii] 1.11.1602. Il fu Antonio Villirillo aveva una cappella dentro la cappella del SS.mo Sacramento “contigua cum ecc.a sancti Petri et Pauli” di detto casale. Ibidem, f. 154.

[iii] Il 23 settembre 1597 Jacobo Misangia dona del denaro, che deve avere dall’erede di Nicola Franco, alla cappella del SS.mo Sacramento “pro fabrica et aug.to ecc.ae maioris”. Ibidem, f. 423v.

[iv] 14.1.1603. Speranza de Fonte, vedova dello spagnolo Jo.e Sarseda, possiede una casa terranea confinante con una casa della chiesa matrice confine con la casa di Horatio Gigliotta. Ibidem, f. 160.

[v] 20.5.1598. Martino Sculco “de rure scandalis” possiede una casa terranea “in convicinio matris ecc.ae sanctorum petri et pauli jux. domum petri gagliardi jux.a domum ducalis curiae noceriae francam et liberam et exemptam ab omni ven.ne alien.ne … submissam excepto annuo redditu sive censu debito et debendo annis singulis in medietate mensis Augusti cuiuslibet anni ducalis curiae noceriae ut in platea”. Ibidem, f. 447v.

[vi] 2.4.1603. Scipione Gangutia dota la figlia Prudentia tra i beni una casa terrana vicino la chiesa di san petro e paulo confine la casa del secretario passa lacqua confine la casa dotale de gioanmatteo caserta. Ibidem, f. 163.

[vii] 12.11.1602. Hieronimo Grisafo assegna al clerico Joannello Grisafo parte dei beni paterni. Ibidem, f. 156.

[viii] 19.9.1596. “jux.a domum cum hortale masii crasidontis domum Bartholi Grisaphi via pp.a mediante et proprie apud templum sancti nicolai, cum solito reditu pagliaritio debito et debendo ducali cur. Terae cutri”. Ibidem, f. 378.

[ix] 25.9.1596. Bartholo Grisapho possiede una casa terrana “in convicinio Sancti Nicolai juxta stabulum Joannis Petri Ramundi jux.a stabulum Salvatoris Franchi viam pu.cam”. Ibidem, f. 381.

[x] 1.6.1597. Jo. Laurentio Sisca, figlio ed erede di Petro e di Chatarina Ganguza, possiede una casa terranea” in convicinio Sancti Nicolai jux.a aliam domum dicti de Sisca viam convicinalem cum hortale Jois Lauretii, cum solito reditu ducali cur. una cum casaleno et fossa ante dictam domum contiguo cum hortale et cum domum alex.dri sculchi”. Ibidem f. 392.

[xi] Ibidem, f. 175v.

[xii] 22.3.1595. Il Magister Petrus Jo.es Grandelli è procuratore della chiesa della SS.ma Nunciata di Papanice. Egli prende possesso di una casa terrana sita in convicinio della chiesa del SS.mo Salvatore confine una casa della chiesa della SS.ma Nunciata. La casa terrana era stata lasciata alla chiesa per testamento dall’ultimo procuratore, il Mag.co Jo. Nicola Foresta Ibidem, f. 333v.

20.8.1603. Marcus Antonius Cidattolus possiede una casa terranea “jux.a domum ecc.ae Sanctae nunc.tae jux.a domum her.m q.m Jois Nicolai Forestae viam publicam ex parte inferiori cum annuo redditu ducali curiae noceriae, ut in platea”. Ibidem, f. 177.

[xiii] Ibidem, f. 319.

[xiv] Ibidem, f. 416 e f. 170v.

[xv] Ibidem, ff. 333v e 338.

[xvi] 16 novembre1603. Portia Siciliana, vedova di Francesco Greco, dota la figlia Lucrezia che sposa Paulo de Messina. Tra le doti vi è “una casetta cum hortalitio à canto per allargare detta casa … et uno pagliaro posto al convicinio del santo salvatore con l’hortale contiguo confine le due vie publiche confine lo pagliaro de baldasare de martino et altri confini con soi raggioni”… “Una casa terrana posta dentro il casale di Pap.ra allo burgo di abascio confine la casa di S. Petro et Paulo via publica et lo pagliaro dove essa habita”. Ibidem, ff. 186 e 338.

[xvii] 27.10.1596. Jo. Petrus Ramundus dona al figlio clerico Jo. Vincentio perché possa accedere al grado sacerdotale “… tres apotecas sitas in platea jux.a vias puc.as et platea palatium unum jux.a palatium de daci ramundi et syconis ipsius jo.is petri et alios fines …”. Ibidem, ff. 387v-388r.

[xviii] 12.11.1602. Hieronimo Grisafo assegna al clerico Joannello Grisafo parte dei beni paterni: “… due case poste alla piaza confine le case deli heredi di Constatino Grisapho, due altre apoteghe confine la piaza al convicinio dela torre de Cola Grisapho et unaltra casa contigua con dette poteghe”. Ibidem, f. 156.

[xix] Ibidem, f. 435.

[xx] Ibidem, f. 433.

[xxi] Ibidem, f. 156v.

[xxii] Ibidem, f. 334.

[xxiii] 16.11.1603. Portia Siciliana, vedova di Francesco Greco, dota la figlia Lucrezia che sposa Paulo de Messina. Tra le doti vi è “una casetta cum hortalitio à canto per allargare detta casa confine la casa di san petro et paulo et via publica et uno pagliaro posto al convicinio del santo salvatore con l’hortale contiguo confine le due vie publiche confine lo pagliaro de baldasare de martino et altri confini con soi raggioni”. “Una casa terrana posta dentro il casale di Pap.ra allo burgo di abascio confine la casa di S. Petro et Paulo via publica et lo pagliaro dove essa habita”. Ibidem, ff. 186 e 338.

[xxiv] Ibidem, f. 450v.

[xxv] Ibidem, f. 447v.

[xxvi] Ibidem, f. 418v.

[xxvii] Ibidem, f. 433.

[xxviii] Ibidem, f. 444.

[xxix] Ibidem, f. 178.

[xxx] Ibidem, f. 158v.

[xxxi] Ibidem, f. 180.

[xxxii] Ibidem, f. 430v.

[xxxiii] Ibidem, f. 368.

[xxxiv] Ibidem, f. 185v.

[xxxv] Ibidem, ff. 329v-330.

[xxxvi] Ibidem, f. 15.

[xxxvii] Petro Gagliardi acquista una “vineam arboratam cum fichibus peris sycomoris et aliis variis arboribus sitam prope templum dirutum sanctae sophiae vias publicas utrumq. latere et alios fines francam liberam ab omne onere et jugo servitutis et nemini subiectam”. Ibidem, f. 395.

[xxxviii] 11.10.1594 L’aristocratico crotonese Julio Cesare Leone prende in prestito ducati 500 al 9 per cento da Hieronimo Grisafo di Papanicefore, impegnando i frutti del suo territorio “delo Fellà”. ASCz, Not. Rigitano, ff. 223-224.

[xxxix] ASCz, not. Baldo Consulo, f. 382.

[xl] Ibidem, f. 400.

[xli] Ibidem, f. 164.

[xlii] Ibidem, f. 513.

[xliii] Ibidem, f. 158v.

[xliv] Ibidem, f. 411v.

[xlv] “lo palazzo di Betta Grisapha”. Ibidem, f. 158v. “palatium novum salvatoris Franchi”. Ibidem, f. 180.

[xlvi] “domum palaciatam nicolai puglianiti”.

[xlvii] Ibidem, f. 435.

[xlviii] Ibidem, f. 320.

[xlix] Ibidem, ff. 331-332.

[l] Ibidem, ff. 355-356r.

[li] Fu mandato Gioangregorio Coco. Ibidem, ff. 370v-371r.

[lii] ASN, Dip. Som. F. 315, n.10, f. 33.

[liii] ASCz, not. Baldo Consulo, ff. 376-377r.

[liv] Ibidem, f. 422.

[lv] Ibidem, f. 322.

[lvi] Ibidem, f. 413v.

[lvii] Ibidem, f. 448.

Papanice alla fine del Cinquecento
Archivio Storico Crotone
Archivio Storico Crotone - Raccolta di ricerche di archivio, fonti storiche, immagini, fotografie e documenti riguardanti il territorio crotonese.

La formazione del territorio Crotonese: dalla “chora” dei Brettii ribelli fino alle “terre” del “Marchesato” (sec. I-XIV)

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Tabula peutingeriana seg. VII

Le estremità della penisola italiana nella carta medievale (sec. XIII) nota come “Tabula Peutingeriana”, ritenuta copia di un originale romano andato perduto (300 d.C. ca.).

In tempi in cui a vario titolo e ragione, ci sentiamo Italiani o stranieri, autoctoni o forestieri, cittadini del nostro Paese o Europei, può essere utile recuperare localmente, la storicità dei nomi che utilizziamo per esprimere tali concetti. Ciò che essi racchiudono, in relazione ad una supposta appartenenza, confrontato con le reali ricadute ed i numerosi risvolti nella nostra vita di tutti i giorni, dovrebbe indurci ad una riflessione.

 

Italo e gli Italiani

“Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt, terra antiqua, potens armis, atque ubere glaebae; Oenotrii coluere viri; nunc fama minores Italiam dixisse ducis de nomine gentem …”.[i]

All’epoca di Augusto l’Italia (Ἰταλíας) iniziava alle “falde delle Alpi”,[ii] terminando “con due punte”, la prima che finiva allo “stretto di Sicilia”, la seconda “al capo Iapigio”, l’odierno promontorio di Santa Maria di Leuca.[iii] Più tardi anche Servio (fine IV – inizi sec. V d.C.), citando Sallustio (sec. I a.C.), affermava che la penisola italiana si scindeva “in duo promunctoria, Brittium et Sallentinum”.[iv]

Strabone (sec. I a.C.-I d.C.), attingendo all’antica opera “Sull’Italia” di Antioco di Siracusa (seconda metà del sec. V a.C.), contrariamente a quanto riporta molto più tardi Stefano Bizantino (sec. VI d.C.) riferendo circa lo stesso autore,[v] affermava che, con questo nome, gli “antichi” chiamavano solo la regione precedentemente detta “Enotria” (Οἰνωτρίαν) che, dallo “Stretto di Sicilia”, giungeva fino al golfo di Taranto ed a quello di Posidonia, ovvero quella limitata tra il fiume Laos, dalla parte del Mar Tirreno, e Metaponto “dalla parte del mar di Sicilia”.

Sempre secondo Strabone, in questo estremo lembo della penisola, i nomi di Enotria e di Italia relativi, rispettivamente, alle mitiche popolazioni degli “Enotrî” e degli “Itali”, avrebbero però originariamente contraddistinto, solo i luoghi che gravitavano più direttamente sullo “Stretto di Sicilia”, all’interno dell’istmo posto tra il golfo di Hipponion e quello di Squillace, per poi estendersi, sino al territorio di Metaponto ed alla Siritide. Con il tempo, il nome di Italia era giunto fino alle falde delle Alpi grazie ai Romani, che avendo già concesso agli “Italici” il diritto di cittadinanza, estesero tale “onore” anche ai “Galli cisalpini ed ai Veneti”, in maniera che tutti questi furono chiamati “Italici e Romani”.[vi]

In merito ai nomi usati durante questo periodo, per indicare le diverse parti del territorio che Strabone identifica oltre questi confini dell’Italia “antica”, la sua testimonianza traccia una netta differenziazione tra quelli usati dai Greci e quelli, invece, usati dalla “popolazione del posto”.

Relativamente alla “penisola” compresa tra Taranto e Brindisi, i primi, come era anche di uso più generale, chiamavano “Iapigia” o “Messapia”, la regione peninsulare che seguiva a quella di Metaponto, mentre chiamavano “Peucezî” e “Dauni” i popoli stanziati a settentrione di questa penisola. I secondi distinguevano, invece, tra la “terra dei Salentini”, posta alla sua estremità, intorno al “Capo Iapigio”, e la restante parte che denominavano “Calabria”, cui seguiva verso nord il territorio chiamato “Apulia”.[vii]

 

Lucani e Brettii

Descrivendo i limiti tirrenici della Lucania (Λευκανία), Strabone spiega che quest’ultima iniziava “Dopo la foce del fiume Silaris”, affermando che la città di Laos era “l’ultima della Lucania” e che si trovava presso il fiume omonimo, “un poco all’interno rispetto al mare”[viii]. Sempre in riferimento a quanto poteva essere constatato ai suoi tempi, nel proseguo della sua descrizione, lo stesso Strabone ribadisce poi, che “La Lucania, dunque, è situata fra la costa del mar Tirreno e quella del mar di Sicilia: sulla prima si estende dal Silaris al Laos, sulla seconda da Metaponto a Turi; sul continente essa si estende dalla terra dei Sanniti fino all’istmo che va da Turi a Cerilli, vicino a Laos: l’istmo misura 300 stadî.”[ix].

Egli, però, tenendo sempre presente che “chi si propone di trattare la geografia della terra deve esporre sia le cose come sono attualmente, sia, in qualche misura, anche come furono prima, soprattutto quando si tratta di cose illustri”, dopo aver descritto le località dei Lucani sulla costa tirrenica, passa a descrivere quelle che si trovavano sull’altro mare.

Sappiamo così che la loro presenza qui non era così antica come sulla costa tirrenica e che prima che i Greci assumessero il controllo del golfo di Taranto, questi luoghi erano appartenuti a “Conî ed Enotrî”. I Sanniti, scacciati questi ultimi, avevano poi insediato in questi territori alcuni Lucani[x]. Strabone, infatti, nella sua ricostruzione relativa alle vicende di queste popolazioni, faceva discendere dai Sanniti i Lucani e da questi i Brettii (Bρέττιοι) [xi].

Al tempo in questione però, in conseguenza della loro romanizzazione, di tali antiche realtà rimaneva ben poco. Escludendo infatti le poche città in cui Strabone poteva constatare ancora una identità greca (Taranto, Reggio e Napoli), il resto dei luoghi risultava abitato parte dai Lucani e dai Brettii, parte dai Campani, “per quanto costoro li occupino solo a parole, perché in realtà li controllano i Romani: e infatti questi popoli sono divenuti Romani.”.

Soffermandosi sulla presenza dei Lucani che abitavano l’entroterra nella zona posta all’interno del golfo di Taranto, Strabone evidenzia la scomparsa dei loro caratteri distintivi e la scarsa importanza dei loro insediamenti, sottolineando che “costoro come i Brettî ei Sanniti loro progenitori, soggiacquero a tante sventure che è oggi difficile persino distinguere i loro insediamenti. Infatti di ciasuno di questi popoli non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune e i loro usi particolari, per quel che concerne la lingua, il modo di armarsi, e di vestirsi e altre cose di questo genere, sono completamente scomparsi; d’altra parte considerati separatamente e in dettaglio, i loro insediamenti sono privi di ogni importanza.”[xii].

Nella sue esposizione relativa a “questi popoli che abitano nell’interno, vale a dire i Lucani e i loro vicini Sanniti”, Strabone individua in primo luogo “Petelia” (Πετηλία), l’odierna Strongoli, ma a differenza di Tito Livio che evidenzia più volte l’appartenenza di questa città al territorio dei Brettii,[xiii] e di Appiano (sec. II d.C.) che, riferendo dei fatti avvenuti al tempo della seconda guerra punica, dice che “Petelia”, non era ormai più occupata dai “Petilini”, espulsi da Annibale, ma dai Brettii,[xiv] afferma invece che la città era “considerata metropoli dei Lucani” e che era posta nelle vicinanze dell’antica “Crimisa” (Κρίμισσα), “in una posizione ben salda, cosicchè anche i Sanniti una volta la fortificarono”. In continuità con la sue affermazioni precedenti, che cercano di ricostruire un orizzonte originario, citando Apollodoro, egli efferma poi che, anticamente, “in questi stessi luoghi”, ma “un po’ all’interno” rispetto al promontorio di Crimisa, Filottete aveva fondato anche “la città di Chone, dalla quale, quelli che abitano li, presero il nome di Coni.”.

Proseguendo, Strabone menziona “nell’entroterra”, altri centri tra cui “Grumentum, Vertinae, Calasarna ed altre piccole città fino a Venusia, che è una città importante. Ritengo che sia questa sia le altre città che vengono di seguito per chi procede verso la Campania siano sannite.”[xv]. L’appartenenza di Grumento alla realtà lucana di questo periodo, è confermata da Tito Livio in riferimento a fatti relativi agli anni 207-206 a.C., quando, dai quartieri invernali e dai presidii del territorio dei Brettii (“agri Bruttii”), Annibale si spostò a Grumento “in Lucanos”.[xvi]

 

I Brettii

Passato a descrivere il territorio dei Brettii, Strabone afferma che essi abitavano “una penisola nella quale è inclusa un’altra penisola, quella, cioè, il cui istmo va da Scylletium fino al golfo di Hipponion” e che il loro territorio raggiungeva lo Stretto.

In merito al significato di questo etnico, che troviamo nel greco BPETTIΩN sulle antiche monete coniate da questo popolo[xvii], è stata rimarcata l’affinità con Bρεντέσιον (Brindisi)[xviii] e con Bρεττανία (Bretagna) o Bριττία, l’isola dell’Oceano boreale abitata da Angli, Frisoni e Brettoni (Bρίττωνες),[xix] in ragione di una comune matrice linguistica che alcuni riconducono a “corno”[xx] e che, in questo caso, potrebbe trovare ragione nella conformazione simile di questi luoghi peninsulari.[xxi]

Miniatura Italia romana

Miniatura medievale esistente in un codice conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, che rappresenta l’Italia romana in senso sud-nord (da www.cairomontenotte.com/abramo/). Oltre alle città di “tarentum”, “metapontum”, “cot.ona”, “regium” e “vibo”, risulta evidenzato il “bricium”.

Secondo Strabone, che rimproverava ad Antioco di non fare “nessuna distinzione fra Lucani e Brettî”, questi ultimi avevano ricevuto il proprio nome dai Lucani, dai quali si erano affrancati al tempo in cui Dione aveva mosso guerra a Dionisio di Siracusa (357 a.C.): “infatti questi ultimi chiamano «Brettî» i ribelli. Questi Brettî dunque, che prima erano dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani, essendo poi divenuti liberi per l’indulgenza dei loro padroni, si ribellarono, a quanto dicono, quando Dione fece guerra a Dionisio e sollevò tutti questi popoli gli uni contro gli altri.”[xxii]

In riferimento a tale episodio, anche Diodoro Siculo (sec. I a.C.) che, al pari di Strabone, utilizza Timeo quale sua fonte, ci fonisce una ricostruzione simile circa i fatti che avrebbero condotto alla formazione della nuova entità politica dei Brettii (Bρέττιοι).

Egli spiega infatti, che essi costituivano una moltitudine promiscua di uomini composta da servi fuggiaschi dediti alla rapina, confluiti da vari luoghi della Lucania che, in seguito, dopo aver cinto d’assedio Terina ed averla espugnata, ed aver conquistato Ipponio, Thurii e molti altri luoghi, avevano formato una confederazione (ϰοινὴν πολιτείαν). Poiché la maggioranza di loro era appunto costituita da servi fuggiaschi, avevano assunto così il nome di Brettii (Bρέττιοι), che nella lingua locale identificava i fuggitivi.[xxiii] Lingua definita “oscura” ed “orribile”, come si rinviene in un frammento di Aristofane (sec. V-IV a.C.) citato da Stefano Bizantino.[xxiv]

 

La regina eponima

Una spiegazione diversa e soprattutto, non infamante, troviamo invece, più tardi, nel racconto di Pompeo Trogo riassunto da Giustino (sec. II d.C), dove l’origine dell’etnico dei “Bruttii”, definiti di animo bellicoso (“Tanta feritas animorum erat”),  “fortissimi” ed “opulentissimi”, nonché sempre pronti a portare rovine ai loro vicini, è fatto risalire al tempo in cui i pastori del luogo, attraverso l’aiuto di una donna di nome Bruttia (“Bruttiam mulierem”), erano riusciti ad espugnare una fortezza presidiata da seicento africani alleati del tiranno Dionisio II, fondando una nuova città e dandosi così il nome di “Bruttios”, derivandolo da quello di questa donna.[xxv]

L’atto fondativo realizzato attraverso la conquista, da parte di uomini passati dalla vita pastorale a quella agricola e cittadina, compiuto attraverso l’intervento determinante di un personaggio eponimo, ci rimanda ad uno schema mitico classico che, rispetto alle testimonianze denigratorie raccolte da Strabone e da Diodoro Siculo, riassume meglio fatti e significati che possiamo concretamente ricondurre alla nascita dell’organizzazione politica dei Brettii.

In questo senso, l’intervento fondante legato al mito della “Bruttiam mulierem”, troverà seguito nei fatti subito conseguenti alla costituzione della confederazione dei Brettii, e relativi al consolidamento del loro dominio, successivamente alla sconfitta ed alla morte di Alessandro il Molosso re d’Epiro (331 a.C.).

Ce ne rimane testimonianza nell’epilogo di questi fatti raccontati da Tito Livio, secondo cui il corpo del re, tagliato in due, fu parte mandato a Cosenza, mentre l’altra fu lasciata sul campo di battaglia in balia del dileggio e dello scherno dei soldati. Una profanazione che avrebbe trovato fine per l’intervento di una donna sola (“mulier una”) che, avendo richiesto i resti del cadavere, in maniera da poter riscattare il proprio marito ed i propri figli prigionieri presso i nemici, ottenne così che i soldati cessassero di infierire sulle spoglie del re. Sempre secondo questo racconto pietoso, sarebbe stata ancora quella donna sola che avrebbe provveduto a seppellire i resti del re mandati a Cosenza (“fuit cura mulieris unius”).[xxvi]

Alcuni elementi di questo racconto trovano un riscontro più antico in Licofrone, poeta vissuto nel sec. III a.C., ma la cui composizione erudita contiene numerosi riferimenti remoti, che sono esposti da questo autore, attraverso le predizioni di Cassandra.

Secondo una di queste predizioni, alludendo ai fatti successivi che avrebbero opposto i Crotoniati alla popolazione del luogo in epoca storica, il vaticinio di Cassandra riassume le vicende relative alla conquista del territorio da parte degli Achei che, reduci dalla guerra di Troia, sarebbero infine giunti erranti nella “regione” posseduta da “una Amazone”, rappresentata dalle “inaccessibili alture della Sila” ed estesa fino al “promontorio di Lino” (Λίνου, Laino?). Qui, dopo essere sottostati al “giogo” di questa “donna di condizione servile” e dopo molti sforzi, i Crotoniati sarebbero infine riusciti a distruggere “la città dell’Amazone”, uccidendo “la regina che porta il nome del suo paese”.[xxvii]

La scelta da parte di Licofrone, di rappresentare questi fatti ricorrendo a personaggi che alludono a quelli protagonisti degli antichi miti propri del patrimonio leggendario di entrambe le parti coinvolte, dimostra di non essere casuale, anzi risulta ben scelta e circostanziata.

Per altro verso,[xxviii] sappiamo infatti che Cleta, nutrice dell’amazzone Pentesilea, avendo appreso della morte della sua signora a Troia per mano di Achille, l’eroe tessalo tanto caro alla più antica tradizione degli Achei, era stata la sola a partire alla sua ricerca, ma imbattutasi in una tempesta, era giunta in Italia. Qui aveva fondato la città di Cleta ed era divenuta la regina del luogo. In seguito, tutte le regine succedutele nel regno, erano state chiamate con quello stesso nome e, dopo molte generazioni, infine, l’ultima era stata uccisa dai Crotoniati.

In ragione dell’importanza riconosciutagli da tali racconti, questa divinità appare ricorrentemente raffigurata sulle monete dei Brettii,[xxix] e risulta menzionata da Stefano Bizantino (sec. V-VI d.C.), che citando Arriano (sec. II d.C.), riferisce che “Abrettenia”, territorio di Misia, era così chiamato dalla “ninfa Brettia” (Ἀβρεττηνή, χώρα Mυσίας, ἀπὸ Bρεττίας νύμφης).[xxx]

Essa sarà ricordata ancora in epoca medievale quando, nel corso del secolo VI d.C., ripercorrendo i fatti accaduti in Italia al tempo di Alarico, Iordanes evidenzierà che i “Brittios”, ovvero la regione dei “Bryttiorum”, aveva tratto questo nome da quello della regina “Bryttia”[xxxi] come, del resto, riferirà successivamente, anche Paolo Diacono (sec. VIII d.C.), facendone risalire l’origine a quello della “reginae quondam suae nomine appellata”.[xxxii]

 

Le terre dei Brettii

In merito alle implicazioni che fanno riferimento allo spazio territoriale riconducibile a questa figura sovrana/divina, possiamo dire che gli elementi del suo mito, risultano localizzati in un ambito sostanzialmente selvaggio che ben rispecchiano le caratteristiche della “Sila” (Σίλαν),[xxxiii] ovvero della “Sila Bruttiorum”,[xxxiv] dove i racconti ambientano i fatti legati alla nascita della confederazione dei Brettii e dove la possibilità di esercitare la pastorizia, necessitava e presupponeva, imprescendibilmente, accordi con coloro che detenevano il dominio dei luoghi costieri.

Nell’ambito della secolare transumanza che si realizzava stagionalmente tra l’altipiano silano e le marine adiacenti, in cui obligatoriamente avrebbero dovuto poter svernare le mandrie, si segnala infatti la presenza di “Pandina”, divinità femminile raffigurata su alcune monete di Terina e di Ipponio che sono messe in relazione alla presenza brettia in questi luoghi durante questo periodo,[xxxv] ed il cui nome trova corrispondenza con l’etnico “Pandosino” o “Pandosiano”, derivato da “Pandosia” (Πανδοσία),[xxxvi] realtà del versante ionico della Sila.

Un culto legato alla figura di questa divinità femminile brettia, che dimostra di succedere, almeno da un punto di vista politico, a quello che aveva precedentemente visto il predominio greco manifesto attraverso la figura di Hera, la cui tutela territoriale, attraverso la garanzia del diritto d’Asilo (Asylia) nell’ambito del suo “bosco” sacro, risulta evidenziato già per l’età arcaica, come indica il riferimento al culto di Achille sul promontorio Lacinio,[xxxvii] e come rimarca più esplicitamente, il racconto di Tito Livio: “lucus ibi frequenti silva et proceris abietis arboribus saeptus laeta in medio pascua habuit, ubi omnis generis sacrum deae pecus pascebatur sine ullo pastore, separatimque greges sui cuiusque generis nocte remeabant ad stabula, nunquam insidiis ferarum, non fraude violati hominum.”.[xxxviii]

In relazione a ciò, pur volendo tenere in considerazione l’antica presenza dei Lucani a Petelia riferita da Strabone, i limiti del territorio soggetto ai Brettii verso il Crotonese, in tempi più recenti e vicini a quelli della loro costituzione federale, vanno ricercati lungo la Valle del Neto ed il confine silano stabilito dalla natura dei luoghi, seguendo quelli di “Consentia, metropoli dei Brettî”[xxxix] e quelli di Pandosia che, nell’Orbis Descriptio dello Pseudo Scimno, risulta indicata tra Crotone e Thurii, nell’ambito del versante ionico (“Post Crotonem Pandosia et Thurii; finitimum his est Metapontium …”)[xl], ma che Tito Livio individua in prossimità del confine bruzio-lucano: “… Pandosia urbe, imminente Lucanis ac Bruttis finibus …”.[xli]

Un’apparente contraddizione, che risulta spiegabile in ragione del particolare assetto pre-urbano del territorio dei Brettii, strutturato attraverso insediamenti diffusi nel territorio interno, ancora prevalentemente legati ad una economia pastorale dove, in questa fase più antica, l’esistenza di “città” deve essere intesa solo come una forma narrativa adottata dalle fonti.

Alla luce delle informazioni viste forniteci da Strabone che, ancora ai suoi tempi, giudicava indistinguibili i loro insediamenti, sia nel caso di Pandosia, come delle altre realtà politiche formatesi nell’ambito del territorio dei Brettii, dobbiamo quindi intendendere tali realtà, come forme delocalizzate ormai limitrofe alle antiche polis greche e nei loro confronti, concorrenti, in ragione della loro evoluzione verso la dimensione urbana.

Tali adiacenze giustificano i fatti che seguirono alla sconfitta ed alla morte di Alessandro il Molosso, quando Crotone fu subito assalita dai Brettii, ai quali scampò per il soccorso dei Siracusani,[xlii] e sono poste in particolare evidenza da un episodio accaduto attorno agli anni venti del sec. IV a.C.

In questa occasione, la fazione democratica della città, in lotta con quella oligarchica che era fuggita e si era riorganizzata a Thurii, giunse ad un accordo con i Brettii (Bρεττίους), e quando gli oligarchici tentarono di fare ritorno spalleggiati da un contingente di mercenari, furono tutti sterminati dalle truppe cittadine sui confini del territorio dei Brettii (Bρεττίων χώρας), dove avevano posto il loro campo.[xliii] Alla presenza antagonista dei Brettii verso le polis greche sul versante ionico tra Thurii e Crotone, può essere ricondotto anche l’episodio relativo alla definitiva scomparsa dell’insediamento precedentemente realizzato dagli esuli Sibariti sul fiume Traente.[xliv]

Una situazione a cui le polis cercarono di porre riparo. Prima, assoldando mercenari e costituendo organismi federali e, successivamente, ricorrendo all’aiuto di Roma, come sottolineano, tra l’altro, i trionfi dei consoli romani relativi alle campagne condotte contro le popolazioni dell’Italia meridionale, registrati durante il decennio 282-272 a.C. dai Fasti Triumphales.[xlv]

La minaccia incombente dei Brettii nei confronti delle realtà greche, perdurerà sino al loro completo assoggettamento al potere romano, dopo la partenza di Annibale dall’Italia (203 a.C.), a conclusione della seconda guerra punica. Essendo stati gli alleati più fedeli del condottiero cartaginese, schieratisi dalla sua parte dopo la disastrosa sconfitta romana a Canne (216 a.C.),[xlvi] i Brettii che erano riusciti a conquistare Crotone nel 214 a.C.,[xlvii] furono costretti a subire la ritorsione dei Romani verso i vinti. Fu così che, assoggettati attraverso la forza, come nel caso di “Clampetia”, o sottomessi “spontaneamente” ai Romani, secondo quanto riferiscono Tito Livio, nei casi di “Consentia et Pandosia”,[xlviii] e Dionigi di Alicarnasso, cedettero loro la metà della selva chiamata Sila (Σίλα), da cui i nuovi padroni trassero cospicue rendite.[xlix]

I Brettii furono così privati di gran parte del territorio (χώραν) e delle armi, come riferisce Appiano, mentre in avvenire, fu proibito loro di prestare servizio militare perché non godevano più la condizione di uomini liberi, ma gli fu imposto di assistere in qualità di servi, i consoli ed i pretori che partivano per governare i popoli.[l]

Anche Aulo Gellio (sec. II d.C.), riferisce che, in ragione della loro infamia, perpetrata al tempo in cui erano passati dalla parte dei Cartaginesi, dopo la loro sconfitta, i Brettii non furono più considerati alleati dei Romani, né furono più arruolati come soldati, ma furono assegnati al posto dei servi, ai magistrati che si recavano nelle provincie.[li] Una misura che doveva avere lo scopo di tenere sotto stretto controllo questo territorio dato che, sulla scorta dei fatti recenti, lo si considerava sempre pronto ad una sollevazione.[lii]

 

Nella provincia romana

Ricondotti i Brettii sotto il giogo del potere romano, quello che era stato il loro territorio, al di là di quelle che furono le reali decurtazioni stabilite dai vincitori, andò a costituire una “provincia” romana, ovvero una ripartizione del territorio di Roma costituita su base etnica, affidata ad un pretore con poteri amministrativi e militari, anche se, a volte, nella loro narrazione, le fonti usano il termine provincia in luogo di “regione”, volendo così indicare solo una certa area geografica, come rileviamo in Tito Livio, in occasione della descrizione di alcuni fatti relativi allo svolgimento della seconda guerra punica.

Secondo il suo resoconto, quando Q. Fabio Massimo e Q. Fulvio Flacco assunsero la carica di consoli (209-208 a.C.), essi ebbero entrambi la “provincia” d’Italia, ma il potere conferitogli fu suddiviso loro per “regionibus”. Nella prospettiva creata da tali assegnazioni, Fabio avrebbe così condotto la guerra “ad Tarentum”, Fulvio, invece, “in Lucanis ac Bruttis”.[liii]

La strategia mutò nell’anno seguente (207-206 a.C.) quando, nella distribuzione delle “provinciae” ai due consoli C. Claudio Nerone e M. Livio Salinatore, queste non furono assegnate senza fare distinzione per “regionibus” come negli anni precedenti, ma furono ripartite loro separatamente agli estremi confini dell’Italia (“extremis Italiae finibus”). In questo quadro tattico, ad uno sarebbe andata così la regione “Bruttii et Lucani” contro Annibale, mentre all’altro, sarebbe toccata la “Gallia”, regione posta all’altro estremo dell’Italia, contro Asdrubale. In questa occasione si specificava, inoltre, che il console a cui sarebbe toccata la “provincia dei Brettii” (“Bruttii provincia”), avrebbe ottenuto uno dei due eserciti consolari dell’anno precedente.[liv]

Rispetto a questo racconto di Tito Livio circa il teatro operativo assegnato a ciascun console, in cui i termini di provincia e regione a volte coesistono con lo stesso significato, possiamo cogliere una differenza significativa, attraverso i termini usati dallo stesso autore per informarci circa l’assegnazione delle provincie ai singoli pretori. In questo caso, infatti, facendo riferimento esplicito alla giurisdizione territoriale relativa ad una specifica magistratura, il termine usato risulta sempre quello di “provincia” mentre, nel nostro caso, il nome che la identifica risulta sempre quello del popolo che l’abitava: i Brettii (“Bruttii”). In relazione alla ripartizione delle 23 legioni “per provincias” in tale frangente, sappiamo infatti che due di queste risultarono assegnate a Q. Fulvius “in Bruttis”.[lv]

Nomi e termini che, da questo punto in avanti, ricorrono nel linguaggio usato da Tito Livio, anche nei passi in cui l’autore ricorda l’attività dei consoli.

Nel 206 a.C. ad entrambi i consoli di quell’anno fu assegnata la “provincia” dei Brettii, affinchè conducessero la guerra contro Annibale,[lvi] mentre, in occasione dell’assegnazione delle “provinciae” nell’anno seguente, Crasso ebbe i “Bruttii”.[lvii] Per quanto riguardò, invece, i due consoli di quell’anno, fu stabilito che tirando a sorte o mettendosi d’accordo, fosse scelto quello che avrebbe dovuto combattere “in Bruttiis”, prorogandogli il comando per un anno in quella “provincia”.[lviii]

Nel 204 a.C., al console P. Sempronio fu assegnato il comando militare del territorio dei Brettii (“Bruttii”), mentre il comando militare di P. Licinio fu prorogato di un anno, con l’ordine di occupare con due legioni i “Bruttios”, trattenendosi “in provincia” per il tempo che gli fosse sembrato opportuno.[lix] Testimonianze di questo tipo, risultano ancora documentate negli anni seguenti.[lx]

 

Città e territori

Cercando elementi che possano aiutarci a comprendere la strutturazione del territorio all’indomani della partenza di Annibale, possiamo individuare due importanti realtà distinte: una rappresentata dalle polis greche concentrate essenzialmente lungo la costa, l’altra rappresentata dal “territorio” dei Brettii, caratterizzato da un insediamento sparso nell’interno che però, nel tempo, era giunto a lambire e penetrare in quello delle città costiere. Un territorio che a seguito delle vicende della seconda guerra punica, oltre che dai Romani, sarà ormai riconosciuto unitariamente come “Brettia” anche dagli stessi Elleni della Grecia, come evidenzia ad esempio, un passo relativo all’ambasceria dei Rodii agli Etoli, in cui si evidenzia che Annibale, ormai vicino all’epilogo della sua campagna in Italia (Ἰταλíᾳ), si trovava chiuso in una piccola parte della “Brettia” (Bρεττίας).[lxi]

In riferimento al carattere interno/montano dell’insediamento brettio e relativamente alle ultime fasi della seconda guerra punica, Appiano riferisce che Annibale avrebbe trasferito in pianura molte forti città dei Brettii, con il pretesto che stessero organizzando una rivolta contro di lui.[lxii] Una testimonianza denigratoria. Di queste città, attraverso la dettagliata testimonianza di Strabone, sappiamo invece che, ancora all’epoca di Augusto, non esisteva alcuna evidenza urbana meritevole d’attenzione.

Pur facendo menzione di “città” in maniera narrativa, secondo una certa tendenza storiografica, diffusa e duratura, le fonti letterarie di questo periodo, sforzandosi comunque di rappresentare più compiutamente la realtà, fanno riferimento alle forme d’insediamento dei Brettii in maniera più pertinente, parlando di “oppida”,[lxiii] di “castella” e “populi”.

Attraverso il paragone di una grande città qual’era Cartagine, la realtà preurbana degli insediamenti brettii è posta in risalto, ad esempio, nel discorso in senato di P. Cornelio Scipione, occasione in cui questi avrebbe affermato che Cartagine sarebbe stato il giusto premio alla sua vittoria e non i “semiruta Bruttiorum castella”.[lxiv]

In riferimento alla struttura politica della federazione dei Brettii verso la fine del sec. III a.C., Tito Livio, relativamente agli anni 213-12 a.C., afferma che, “in Bruttiis”, dei “dodici popoli” che durante l’anno precedente erano passati dalla parte dei Cartaginesi, i “Consentini et Tauriani” erano ritornati sotto la tutela del “popolo Romano”[lxv] mentre, successivamente, al tempo della partenza di Annibale (203 a.C.), afferma che “Consentia Aufugum Bergae Baesidiae Ocriculum Lymphaeum Argentanum Clampetia multique alii ignobiles populi”, passarono dalla parte del console Gn. Servilio che “in Bruttis erat”.[lxvi]

Fatta eccezione per i casi di Cosenza e Thurii, risulta difficile stabilire un collegamento tra i nomi di questi popoli e realtà urbane evidenziabili nelle fasi successive, anche quando le fonti testimoniano esplicitamente della presenza di “città”, come nel caso di Stefano Bizantino che, citando Polibio (sec. II a.C.), riferisce di “Badiza” città della Brettia (Bάδιζα πόλις τῆς Bρεττίας),[lxvii] analogamente a “Lampeteia” (Λαμπέτεια πόλις τῆς Bρεττίας),[lxviii] o come riscontriamo nel caso della “città di nome Ethe”,[lxix] o della “possente città di Isie”[lxx] o “Tisia”[lxxi] che Erodiano qualifica città dell’Italia (Tισία πόλις Ἰταλíας).[lxxii]

Per quanto riguarda invece, la dimensione urbana di Cosenza, oltre alle testimonianze già viste relative alla costituzione della confederazione, tra cui spicca quella di Strabone che la qualifica al rango di metropoli, il suo differente assetto rispetto a quello di altri insediamenti dei Brettii, emerge attraversi i termini usati da Appiano, che la definisce “una grande città dei Brettii” (μεγάλην πόλιν Bρυττίων), al tempo in cui Crasso la separò da Annibale con “altre sei”[lxxiii] mentre, in riferimento al suo territorio (“In Consentinum agrum”),[lxxiv] le fonti si esprimono in maniera analoga a quella usata per il territorio di una polis (“in agro Crotoniensi”).[lxxv]

Una realtà quindi differente e comunque riconosciuta differentemente dal potere romano, che sembra aver contraddistinto in questo periodo, anche il territorio di Thurii, luogo anch’esso menzionato in occasione degli episodi relativi alla costituzione della federazione, che risulta legato a quello cosentino dalle corrispondenze del Crati, fiume posto nel territorio dei Brettii.[lxxvi]

In quest’area, dove i Romani decisero di dedurre distintamente due diverse colonie latine, una “in Bruttios”, l’altra nel territorio di Thurii (“in Thurinum agrum”),[lxxvii] Strabone individua, “un po’ all’interno rispetto a Turi”, “anche” quello che chiama il territorio Tauriano (Ταυριανὴ χώρα).[lxxviii] Uno scolio di Elenio Acrone (sec. II d.C.) menziona Thurii quale città dei Brettii (“Thyrii enim Bruttiorum oppidum”)[lxxix] mentre, di un episodio avvenuto “in Thuriano Bruttioque agro”, riferisce Girolamo nella Cronaca di Eusebio.[lxxx]

Una situazione simile a quella di Crotone, che pur riconosciuta “in Bruttios” ovvero nella provincia dei Brettii (“Bruttii provincia”), risultava comunque dotata di un proprio territorio (“ager”) distinto da quello brettio,[lxxxi] come riferisce esplicitamente Tito Livio che, ricordando le colonie di cittadini romani dedotte a Tempsa ed a Crotone (194 a.C.), afferma che il territorio della prima era “ager de Bruttis” ed era stato tolto dai Romani a questi ultimi che, a loro volta, ne avevano precedentemente scacciato i Greci, mentre Crotone era detenuta dai Greci.[lxxxii]

Segno di questo limite tra il territorio cittadino di Crotone (“ager”) adibito alle coltivazioni, e quello interno boschivo, dove erano localizzati gli insediamenti dei Brettii ed in cui predominava la pastorizia (“saltus”), rimane nella sopravvivenza di quest’ultimo toponimo durante il periodo medievale,[lxxxiii] che risulta documentato in corrispondenza dell’importante attraversamento del fiume Neto in località “Timpa del salto”, dove consistenti e diffusi sono stati i ritrovamenti archeologici del periodo romano. Una situazione che trova riscontro anche a nord della città, nell’attuale territorio comunale di Cariati (CS) dove, in località “salto”, in un’area compresa tra l’abitato di quest’ultima e quello di Terravecchia (CS), è stata rinvenuta una importante necropoli brettia.

Lo sfruttamento delle aree interne silane da parte dell’autorità romana, è ricordato da Cicerone (sec. I a.C.), il quale evidenzia che i censori P. Conelio e L. Mummio, avevano dato l’appalto della pece ad una società e che, nell’occasione, “in silva Sila”, alcuni schiavi, ma anche alcuni uomini liberi di quella società, erano stati accusati di aver compiuto un massacro, in cui erano stati uccisi degli uomini noti.[lxxxiv]

Trasformazioni determinate dall’avvento del potere romano che, invece, ci appaiono in un contesto diverso, rispetto a quanto ci risulta segnalato sulla costa tirrenica. Qui, oltre a quella di Tempsa, la presenza radicata dei Brettii nelle polis precedentemente appartenute ai Greci, risulta documentata anche ad Ipponio, mentre risulta esclusa, sull’altro versante, a Locri e Caulonia.

In occasione della deduzione della colonia di “Vibonem” (192 a.C.), si riferisce, infatti, che quel territorio era appartenuto ultimamente ai Brettii (“Bruttiorum proxime fuerat ager”), i quali l’avevano precedentemente tolto ai Greci.[lxxxv] Erodiano (sec. II d.C.) qualifica Ipponio città dei Brettii (πόλις Bρεττίων),[lxxxvi] come ribadisce, successivamente, Stefano Bizantino (Ἰππώνιoν, πόλις Bρεττίων).[lxxxvii]

Per quanto riguarda, invece, la situazione di Locri e Caulonia, analogamente a quella delle altre polis della costa ionica, il permanere della loro antica identità cittadina, pur romanizzata, è documentata in questo periodo, nell’ambito dell’appartenenza alla “provincia” dei Brettii.

In relazione a ciò, registriamo l’intervento a Locri del pretore cui nel 200 a.C., era stata assegnata questa provincia.[lxxxviii] In questa occasione, il senato romano, avendo appreso da una lettera di Quinto Minucio Rufo “cui Bruttii provincia erat”, dove si riferiva circa un furto di denaro dal tesoro di Proserpina a Locri, affidò al console Caio Aurelio il compito di scrivere “ad praetorem in Bruttios”, affinché fosse realizzata la relativa inchiesta.[lxxxix] In relazione a questi fatti, l’incarico al detto pretore fu prorogato anche per l’anno seguente.[xc]

In merito alla presenza dei Brettii nel territorio interno, limitante con quello dell’antica polis già nelle fasi precedenti a questa, Polibio riferisce dei saccheggi e delle devastazioni condotte nella Locride e nel territorio Brettiano (Bρεττιανὴν χώραν), dai Cartaginesi durante la prima guerra punica,[xci] mentre, successivamente, Strabone afferma che, nell’entroterra della città di Locri occupato dai Brettii, si trovava “la città di Mamertium”.[xcii] Tito Livio identifica Caulonia nella provincia dei Brettii (“in Bruttiis”).[xciii]

Il diverso assetto dei territori appartenenti alle antiche polis greche poste lungo il versante ionico, rispetto a quello del versante opposto, emerge anche attraverso le fonti che ci offrono una descrizione geografica dei luoghi nel corso dei sec. I-II d.C, in particolare, in quelle in cui comincia a trovare spazio il concetto di “Magna Graecia”.

 

La “Magna Graecia”

La più antica documentazione dell’espressione “Magna Graecia” risale a Polibio (sec. II a.C.),[xciv] mentre i tentativi di alcuni storici moderni di ricondurla ad epoche precedenti a quella di questa fonte, sono rimasti delle congetture.

Anche se Polibio afferma che tale espressione fosse già usata al tempo in cui erano state incendiate le sedi dei Pitagorici,[xcv] possiamo evidenziare, invece, che essa fa riferimento ad un concetto chiaramente estraneo alla cultura greca, per la quale non esistevano realtà statali che superassero le dimensioni di quelle cittadine, e nella quale non è neanche immaginabile la comparazione tra una sorta di grecità maggiore a confronto di una di proporzioni minori. Senza contare che il concetto di Elleni (o di Greci), aveva una dimensione etnica e culturale ma non certamente politica.[xcvi]  In riferimento all’esigenza di usare una espressione per indicare, complessivamente, i Greci delle città dell’Italia meridionale, già in antico, Erodoto (sec. V a.C.), come fecero anche altri, usa infatti quella generica di “Italioti”.[xcvii]

A conferma di ciò, l’espressione Magna Grecia (μεγάλην Ἑλλάδα), che si ritiene frutto di “una interpolazione tarda”,[xcviii] ricorre in un unico passo di Strabone, nella sua “Geografia” scritta agli inizi del sec. I d.C.,[xcix] sulla base del quale, è stato supposto da alcuni, che la sua ampiezza geografica fosse da indentedere estesa anche alla Sicilia.

Essa non compare neanche nella descrizione della costa ionica contenuta nella “Chorographia” di Pomponio Mela, vissuto nella prima metà del sec. I d.C.[c] che, ripercorrendo i confini già segnalatici da Strabone, dopo aver riferito che la “Calabria” cominciava da Brindisi e comprendeva Otranto e Gallipoli, descrive geograficamente i diversi golfi presenti lungo questo litorale, incorrendo comunque in errore, nella menzione del promontorio “Zephyrium” in luogo di quello di Stilo.

Risultano così elencate le città poste nel golfo di Taranto, tra i promontori Sallentino e Lacinio, da Taranto fino a Crotone, quelle poste nel golfo di Squillace, tra i promontori Lacinio e Zefirio (sic), e quelle poste nel golfo tra i promontori Zefirio e “Bruttium”, in cui andavano comprese Cosenza, Caulonia e Locri. “In Bruttio”, erano Reggio, Scilla, Tauriano e Metauro.[ci] Sul versante tirrenico, ancora, l’elenco dei luoghi menzionati da Pomponio Mela, cominciando da Medma, continua poi senza soluzione di continuità, con l’elenco dei luoghi della Lucania.[cii]

Differiscono da queste, le descrizioni geografiche forniteci da Plinio il Vecchio (sec. I d.C.) e Tolomeo (sec. II d.C.), nelle quali compare l’espressione “Magna Graecia”.

Rifacendosi al divo Augusto quale sua fonte, Plinio ci descrive l’Italia ripartita in undici “regiones”.[ciii] Pur mancando chiare testimonianze circa le ragioni che condussero i Romani a tale suddivisione, è possibile che queste siano state dettate dalla necessità di ripartire gli approvvigionamenti alimentari di Roma (l’Annona), tra le diverse popolazioni soggette alla capitale imperiale, come sembra evidenziare una epigrafe datata al 273-275 d.C. che, in relazione all’incarico di “conrectorem” ricevuto da C. Pius Esuvius Tetricus, evidenzia: “… conrectorem totius Italiae fecit, id est Campaniae Samni Lucaniae Brittiorum Apuliae Calabriae Etruriae atque Umbriae Piceni et Flaminiae omnisque annonariae regionis”.[civ]

Secondo Plinio, che costituisce la sola fonte che ci descrive complessivamente tale ripartizione, la “regio tertia” iniziava dal “Silaro” sul versante tirrenico, dove erano i limiti del territorio Lucano e Brettio[cv] mentre, su quello opposto, i suoi confini erano rappresentati da Metaponto “quo tertia Italiae regio finitur”.[cvi] Superato questo limite, iniziava la “secunda regio” che, oltre gli “Hirpinos”, includeva la “Calabriam”, la “Apuliam” ed i “Salentinos”.[cvii] Nell’ambito di questa descrizione, egli riferisce anche della “Magna Graecia”, identificandola con il tratto della costa ionica, comprendente i tre golfi esistenti tra Locri e Taranto.[cviii]

Questa descrizione di Plinio trova riscontro, successivamente, nella Geografia di Tolomeo che, al pari del precedente, stabilisce una ripartizione del territorio oggetto della nostra indagine, tra quello posto lungo il versante tirrenico: parte dei Lucani e parte dei Brettii (Bρουττίων), e la “Magna Grecia” (Mεγάλης Ἑλλάδος) posta sul versante opposto.

Secondo quanto è riportato da questa fonte, lungo il mare Tirreno, appartenevano ai Lucani: Pesto, Velia e Buxento. Lungo questo stesso litorale appartenevano invece ai Brettii: la foce del fiume Lao, la città di Tempsa, lo scoglio Tauriano, il golfo di Ipponio, il promontorio di Scilla, Reggio Iulia ed il promontorio di Leucopetra.[cix] Erano città interne dei Brettii (Bρουττίων μεσόγειοι): Numistro (Nουμίστρων), Consentia e Vibo Valentia.[cx]

Dopo il promontorio di Leucopetra, Tolomeo descrive la Magna Grecia, a cui appartenevano: il promontorio Zefiro, Locri e la foce del fiume Locano (Λoυϰανoῦ). Seguivano nel successivo golfo di Squillace, la città di Squillace e le parti interne di questo golfo, fino al promontorio Lacinio. Appartenevano ancora alla Magna Grecia le città del golfo tarantino: Crotone, Turio, Metaponto e Taranto.

Superato il territorio tarantino che stabiliva il termine della Magna Grecia, seguiva poi a questo quello dei Salentini, con il promontorio Iapigio o Salentino, quindi le città di Calabria (Kαλαβρίας) poste lungo il mare Ionio: Otranto, Luppia e Brindisi.[cxi] Città interne della Magna Grecia (Mεγάλης Ἑλλάδος μεσόγειοι) erano Petilia (Πετηλία) e Abustro o Abrusto (Ἄβυστρον ἢ Ἄβρυστον), mentre città interne della Calabria (Kαλαβρίας μεσόγειοι) erano Sturno e Vreto.[cxii]

Carta tolemaica (dalla pagina Facebook Monumenta Cartographica Calabriae).

Rappresentazione cartografica medievale della Geografia di Tolomeo (dalla pagina Facebook Monumenta Cartographica Calabriae).

In merito alle descrizioni forniteci da Plinio e Tolomeo, possiamo osservare come il confine settentrionale della regione geografica detta “Magna Grecia”, costituito dalla città di Taranto, risulti definito in maniera contraddittoria rispetto ad altre fonti, che collocano questa città in “Messapia” o “Iapigia”, ovvero in “Calabria”,[cxiii] mentre appare confermato il suo limite meridionale con i Brettii (Bρουττίων) dove, nella parte più meridionale della penisola, si apriva quello che Pomponio Mela definisce il golfo “Brutium”,[cxiv] luogo in cui si univano i due mari. Martiano Capella, vissuto intorno alla prima metà del V secolo d.C., evidenzia: “… in Brutium sinum, qui est primus Europae, emissa maria conquiescunt.”[cxv]

Da questa parte infatti, Tolomeo pone nei Brettii il promontorio di Leucopetra ma, oltre al promontorio Zefiro, Locri e Caulonia, assegna alla Magna Grecia anche la foce del fiume Locano (Λoυϰανoῦ), luogo d’incerta identificazione, forse ancora riferibile al promontorio di Leucopetra.[cxvi]

Plinio, infatti, identifica Cano (“Caenus”) quale promontorio che definiva lo Stretto, ponendolo a 15 miglia da Reggio ed a 51 da Locri: “Siculum fretum ac duo adversa promunturia, ex Italia Caenus, e Sicilia Pelorum, XII stadiorum intervallo, unde Regium XCIV. Inde Appennini silva Sila, promunturium Leucopetra XV p., ab ea LI Locri, cognominati a promunturio Zephyrio. Absunt a Silero CCCIII.”[cxvii]

A riguardo dell’identificazione di questi luoghi che, nella descrizione di Tolomeo, costituivano i termini che distinguevano il territorio brettio da quello delle polis magno-greche, secondo quanto riferisce Strabone, il promontorio chiamato “Leucopetra” dal suo colore, identificabile con l’odierno Capo dell’Armi, era posto nel territorio di Reggio ad una distanza di cinquanta stadi a Levante di quest’ultima, nel luogo dove terminavano i “monti Appennini”. A questo seguiva il promontorio “di Eracle, che è l’ultimo ad essere rivolto verso mezzogiorno”, (oggi identificabile con il Capo Spartivento) ed ancora a seguire, “quello di Locri, detto Zefiro, che ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò deriva anche il nome.”.[cxviii]

Il promontorio di Leucopetra, quale limite meridionale del territorio abitato dai Brettii, è ricordato anche successivamente da altre fonti.

Dionisio il Periegeta (prima metà del sec. II d.C.), afferma che i Lucani ed i Brettii (Bρέντιοι), abitavano il territorio dal fiume Silaro sino a Leucopetra (Λευκὴν ἐπὶ πέτρην),[cxix] come ripetono più tardi Prisciano (sec. V-VI d.C.), il quale afferma che i Lucani ed i loro coloni Brettii (“Brettique coloni”), abitavano dal Silaro fino a Leucopetra (“ad Leucem petram”)[cxx] e Niceforo Blémmide (sec. XIII d.C.) che pone sempre a Leucopetra (Λευκῆς πέτρας) il limite tra la Sicilia ed il territorio abitato dai Lucani e dai Brettii (Bρέντιοι).[cxxi]

 

Nella provincia di Calabria

Cercando di trovare ragioni al concetto di “Magna Graecia”, possiamo rilevare che, per stabilire una partizione tra il territorio abitato dai Brettii e quello delle antiche polis poste lungo la costa ionica, Plinio e Tolomeo non menzionano alcun confine relativo ad una diversa provincia o regione, ma ricorrono entrambi al concetto filosofico di “Magna Grecia”, che non poggia su basi amministrative ma, alludendo ad un’antica comunanza etnica, ormai comuque, quasi del tutto scomparsa – come riferisce Strabone precedentemente a loro – si rifà a correnti erudite del pensiero romano che perdureranno, come dimostrano, ad esempio, i neo-platonici Giamblico e Porfirio verso la fine del sec. III d.C..[cxxii]

Concetto che, in quanto privo di una precisa territorialità, pur essendo spesso usato dagli antichi scrittori, rimarrà soggetto a diverse interpretazioni nella sua concreta delimitazione geografica, come si evidenzia nello Pseudo Scimno, secondo il quale la Magna Grecia andava da Terina a Taranto,[cxxiii] o come rileviamo in Servio, il quale sostiene, invece, che da Taranto, giungeva fino a Cuma.[cxxiv] Qualcosa di simile all’attuale concetto di “Padania”, che pur privo di una effettiva concretezza amministrativa, rimane d’uso comune, riflettendo precise e concrete posizioni politiche.

Volendo poi cercare d’interpretare i motivi di questa anomala presa di posizione, possiamo rilevare la particolare importanza marittima che Taranto ebbe in questo periodo, assieme a quella delle altre antiche città greche poste lungo questo versante costiero, come pongono in evidenza le fonti e come sottolineano le azioni dei Romani subito conseguenti alla conquista quando, a differenza di quanto fecero lungo la costa tirrenica, intervennero estromettendo i Brettii dalle polis della costa ionica, che erano cadute il loro possesso durante la seconda guerra punica. Città cui continuò ad essere riconosciuta una formale identità greca che, per parte romana, dimostra di apparire tesa a salvaguardarne la particolare importanza.

Precedentemente a quella di Tolomeo, comunque, in questa direzione troviamo già la testimonianza di Strabone, che pur non facendone menzione quando descrive il popolamento di questi luoghi, allude agli antichi legami che avrebbero unito le parti più prossime delle due estreme propaggini della penisola italiana, quando, nell’ambito della descrizione del “golfo di Taranto”, che iniziava dal “promontorio Lacinio” e giungeva al “promontorio Iapigio”, riconosciuto come “la così detta bocca” di questo golfo, identificava come “i tre promontori degli Iapigi”, quelli esistenti presso Crotone, tra “Scylletium” ed “il Lacinio”.[cxxv] Un riferimento che, secondo la testimonianza dello stesso Strabone, non potendo poggiare su alcuna base etnica, dimostra di trovare riferimento nella particolare importanza di Taranto, Otranto e Crotone nell’ambito dei collegamenti marittimi con l’Oriente, come risulta documentato, sia durante questo periodo sia in seguito.[cxxvi]

Una importanza strategica posta in luce già in antico, come evidenziano le vicende che avevano visto i Romani, violare gli accordi con i Tarantini, che precludevano loro di superare il capo Lacinio, al tempo dei fatti che determinarono la venuta di Pirro in Italia,[cxxvii] e come rileviamo, ad esempio, nel 192 a. C., quando, nella imminenza dello scoppio del conflitto contro Antioco III, il senato romano ordinò a Marco Bebio, di far avanzare le legioni dal territorio Brettio (“ex Bruttis”) verso Taranto e Brindisi, in relazione ad un possibile loro transito in Macedonia,[cxxviii] mentre sappiamo che, nel sorteggio delle “provincias” del 190 a.C., al pretore M. Tuccio toccarono la Puglia ed i Brettii (“Apuliam et Bruttios”). Un’assegnazione che nasceva dalla necessità di ordine militare di tenere sotto controllo quei territori[cxxix] e che, nel particolare quadro strategico di quel frangente, fu prorogata al detto pretore nei due anni seguenti.[cxxx]

Tali considerazioni ci permettono di evidenziare con sicurezza che, ancora al tempo di Tolomeo, ovvero nel sec. II d.C., i confini della provincia dei Brettii, secondo l’antico stanziamento di questa popolazione, continuavano ad essere quelli stabiliti al tempo della conquista romana, dopo la partenza di Annibale. Una situazione che trova ancora un riscontro successivo, come evidenzia la maniera con la quale i toponimi “LUCCANIA”, “BRITTIUS”, “APULIA”, “SALENTINI” e “CALABRIA”, sono riportati nella carta medievale (sec. XIII) nota come “Tabula Peutingeriana”, ritenuta copia di un originale romano andato perduto (300 d.C. ca.).

Tabula Peutingeriana

Restituzione della Tabula Peutingeriana (seg. VII).

In seguito però, risultano documentati dei cambiamenti che, alla luce delle considerazioni espresse, appaiono funzionali agli interessi strategici e/o commerciali dei Romani, nell’ambito dei collegamenti marittimi lungo le rotte orientali, come evidenzia l’“Itinerarium Maritimum Imp. Antonini Augusti” (III-IV secolo d.C), che identifica tanto Otranto (“Hydrunto”), quanto Crotone (“Crotona”) come, del resto, tutte le altre tappe di questo itinerario poste lungo la costa ionica fino a Reggio, nell’ambito della “provinciae Calabriae”.[cxxxi]

È forse per tale ragione, come evidenzia il Romanelli, che Servio (fine IV – inizi sec. V d.C.), commentando il verso di Virgilio dove il poeta parla dell’arx di Caulonia e del promontorio di Stilo,[cxxxii] evidenzia che il luogo “est Calabriae”,[cxxxiii] citando erroneamente i versi di Orazio[cxxxiv] che, invece, si riferiscono al monte Aulon nel territorio tarantino.[cxxxv]

 

Antichi confini

Dopo la divisione dell’impero alla morte di Teodosio (395 d.C.), Polemio Silvio (IV-V sec. d.C.), sulla base dell’antico ordinamento, distingueva ancora l’Italia in 17 provincie: “In Italia provinciae XVII: (…) Apulia cum Calabria, in qua est Tarentum Brutia cum Lucania, in qua est Regium (…)”.[cxxxvi] Ripartizione che, in età giustinianea, trova riscontro nel Synecdemus di Ierocle, dove, al termine del “catalogo” che elenca tutte le città e le provincie sottoposte al dominio dell’imperatore romano di Costantinopoli, si menzionano le 60 “provincie” (ἐπαρχίαι) sottoposte a Roma, tra cui sono ricordate, complessivamente, le 17 appartenenti all’Italia (Ἰταλίας), oltre alle isole di Sicilia, Sardegna e Corsica che costituivano ciascuna una provincia unica.[cxxxvii]

Una situazione posta in evidenza anche dalle testimonianze epigrafiche che, a cominciare dalla metà del sec. II d.C. e fino agli inizi del sec. VI d.C., ricordano i diversi magistrati romani (“Procuratores”, “Iuridici”, “Correctores”, ecc.), distinti per: “Apuliam”, “Calabriam”, “Lucaniam” e “Bruttios”/“Bruttiorum”/“Brittios”.[cxxxviii]

Distinzione che evidenzia differenze tra una giurisdizione per provincie ed una per regioni. Come possiamo osservare circa la magistratura dei “Correctores”, in riferimento alla quale, risulta spesso documentato in questo periodo, e fino agli inizi del sec. VI d.C., il nome del magistrato che assumeva tali funzioni nell’ambito di tutta la III regio, in qualità di “corrector Lucaniae et Brittiorum” o di “Lucaniae et Bruttiorum”[cxxxix] ma che, a volte, risulta aver posseduto, invece, una giurisdizione estesa solo al territorio di una singola provincia.

Come testimoniano, ad esempio, i casi di una epigrafe datata tra la fine del III e gli inizi del sec. IV d.C., che ricorda: “[…]vio Basso, v(iro) p(erfectissimo), corr(ectori) / [re]gionum Lucaniae / [et] Brittiorum …”,[cxl] e quella che, nello stesso periodo e riguardo alla stessa magistratura, ma nell’ambito di giurisdizione estesa alla sola provincia di Lucania, trova: “… Fl(avio) Delma / tio, v(iro) p(erfectissimo), cor(r)e(ctori) p(rovinciae) Lucaniae”.[cxli]

Sulla composizione di queste circoscrizioni durante questo periodo, anche se in maniera incerta e parziale, c’informano i c.d. Libri Coloniari, un insieme di scritti eterogenei, ricostruiti in epoca moderna attraverso un codice databile al sec. VI d.C., con l’integrazione di passi appartenenti ad altri codici più recenti.[cxlii] Questa fonte menziona la prefectura “Veliensisis” tra quelle appartenenti alla provincia “Lucania”, ed annovera i seguenti territori appartenenti alla “Provincia Brittiorum”: “Ager Buxentinus”, “Ager Consentinus”, “Ager Vivonensis”, Ager Clampetinus” e “Ager Benebentanus”, mentre, tra i “territoria” che appartenevano alla “Provincia Calabria”, menziona quello “Tarentinum”,[cxliii] oltre a quelli di Brindisi, Otranto e Metaponto, tutte “Civitates Provinciae Calabriae”.[cxliv]

Riferimenti all’antica organizzazione imperiale si ritrovano ancora in Cassiodoro (sec. VI d.C.),[cxlv] mentre, successivamente, pur continuando l’uso degli antichi nomi dei luoghi appartenuti alle antiche popolazioni italiche, che avevano costituito i riferimenti per comporre la geografia dell’amministrazione romana, si coglie, inevitabilmente, il loro distacco dalla realtà precedente, a seguito del rapido decadimento dell’impero che si avviava a divenire una realtà medievale.

Come riscontriamo in Iordanes che, nel sec. VI d.C., in occasione del suo racconto dei fatti riguardanti l’invasione dell’Italia da parte dei Visigoti agli inizi del secolo precedente, descrive la regione (“regio”) detta dei “Bryttiorum”, ovvero i Brettii (“Brittios”),[cxlvi] ed ancora, attorno alla metà di questo secolo, in Procopio di Cesarea che, in occasione della c.d. guerra greco-gotica (535-553 d.C.), nel descrivere gli episodi del conflitto che si svolsero in questi luoghi dell’Italia (Ἰταλίαν),[cxlvii] menziona l’attraversamento del Bruzio (Bρουτίων) e della Lucania, durante la marcia dell’esercito di Bellisario da Reggio verso la Campania.[cxlviii]

In questo periodo, gli antichi limiti che definivano il confine tra la Lucania e le terre dei Brettii in età augustea, costituiti dalla città di Laos sul versante tirrenico e dal limite tra le città di Metaponto e Thurii su quello ionico, continuavano ad essere mantenuti, come evidenziano le fonti, che li identificano con i limiti del Bruzio (Bρυτίους).

Essi risultavano, infatti, in relazione alle due sole vie terrestri che consentivano l’ingresso nella “regione”, come mette in luce Procopio di Cesarea il quale, ancora nel suo racconto degli avvenimenti riguardanti la guerra greco-gotica, riferisce che i monti della Lucania, estendendosi fino al Bruzio (Bρυτίους), consentivano “due soli assai angusti ingressi per quella regione”: uno che “i Latini” chiamavano “Pietra del Sangue” (Πέτρα αἵματος), l’altro che “quei del paese” denominavano “Labula” (Λαβούλαν).[cxlix]

Per quanto riguarda le origini del primo, identificabile sulla costa ionica in corrispondenza della foce del fiume Sinni, la sua antichità, attestata dalla testimonianza di Procopio di Cesarea, e la sua origine latina, consentono di ricondurne l’apparire e l’uso al periodo romano, escludendo riferimenti a fatti molto più antichi legati al noto episodio sacrilego dello spargimento del sangue dei Siriti da parte degli Achei. Anche se la menzione del “tumulo” di Calcante, contenuta nell’Alessandra di Licofrone, evidenzia che il luogo costituiva un’importante area di confine in epoca antica.[cl]

Nel nostro caso, infatti, possiamo mettere in relazione questo toponimo latino, all’esistenza di un confine tra due diverse etnie (il “Sangue”), diverso da quello che distingueva la divisione amministrativa tra le “regiones” II e III posto più a nord, sul confine del territorio di Metaponto, e che quindi, alla luce delle testimonianze passate in rassegna, possiamo individuare in quello che, in epoca romana, divideva la provincia dei Lucani da quella dei Brettii.

Le delimitazioni territoriali che distinguevano lo stanziamento delle antiche popolazioni italiche, sono ripercorse in questo periodo ancora da Procopio di Cesarea che, alla destra della città di Otranto, distingueva i “Calabri” (Kαλαβρoί), i Pugliesi ed i Sanniti, mentre, a sinistra della stessa città, l’altra porzione dei Calabri (Kαλαβρῶν) i Brettii (Bρέττιoί) ed i Lucani. Egli affermava inoltre, che qui si trovava la regione detta nel passato “Magna Grecia”, poichè “nei Brettii” (ἐν Bρεττίοις), si trovavano i Locresi Epizephirii, i Crotoniati ed i Thurini.[cli]

 

I “nefandissimi Longobardi”

Rispetto a questa antica situazione sopravvissuta per tutto il periodo romano, che affiora in questi primi tempi dell’età medievale, una importante trasformazione si realizzò nella seconda metà del sec. VI d.C., quando, a seguito del consolidarsi della presenza dei Longobardi nella Campania e della loro espansione verso i territori vicini, il territorio dei Brettii, interessato da tale espansione ed occupato in parte da questi nuovi venuti di diversa etnia, subì una mutazione profonda della sua struttura precedente, che produsse un riassetto e determinò il ridisegno dei suoi confini.

In seguito a ciò, al dominio longobardo della Lucania e dell’Apulia, fu sottoposto anche quello della porzione nord-occidentale delle terre dei “Brittiorum”, mentre, la porzione sud-orientale di questo territorio, rimase in potere dell’impero bizantino. Il De administrando imperio (metà circa del sec. X), ricorda infatti che, al tempo della loro espansione, il dominio dei Longobardi aveva interessato tutto il territorio che sarebbe poi divenuto il thema di Longobardia, e parte di quella che sarebbe stata la Calabria (Kαλαβρίας,), eccetto Otranto, Gallipoli, Rossano, Napoli, Gaeta, Sorrento e Amalfi.[clii]

In questo quadro, il Crotonese assieme ad altri territori della parte centrale della regione, oltre a costituire un’importante frontiera marittima, andò così acquisendo anche un ruolo di confine terrestre tra le aree sottoposte al dominio longobardo e quelle mantenute dai Bizantini, come comincia ad essere evidenziato verso la fine del sec. VI.

Nel luglio-agosto del 596, i Longobardi del ducato di Benevento riuscirono infatti a predare la città di Crotone facendo schiavi i suoi cittadini, in cui soccorso intervenne papa Gregorio Magno che, per pagare il loro riscatto, destinò 15 libre d’oro “ad redimendos Crotonienses”[cliii] mentre, qualche anno dopo, a conferma di una presenza longobarda ormai sufficientemente radicata, troviamo lo stesso papa ricorrere ad Arechi, duca di Benevento, affinchè potessero essere trasportate a Roma, via mare, le travi tagliate “de partibus Brittiorum”, necessarie alle “ecclesias beatorum Petri ac Pauli”. Trasporto in cui furono coinvolti il vescovo di Tempsa e quello di Vibona, essendo questi, evidentemente, i luoghi previsti per l’imbarco.[cliv]

Questa nuova situazione è evidenziata sia attraverso le fonti bizantine, sia attraverso quelle longobarde, che ci descrivono il territorio conseguentemente a questi fatti, risentendo, comunque, della loro diversa appartenenza.

Secondo quanto riporta Georgius Ciprio, che menziona il Bριττίων o Bρεττανία tra i possedimenti bizantini dell’Italia (Ἰταλíας),[clv] agli inizi del sec. VII, appartenevano alla provincia o eparchia di Calabria (Ἐπαρχία Kαλαβρίας): Reggio (ʽΡήγιον), Locri (Λούϰρις), Squillace (Σϰυλαϰίας), Crotone (Kοτρώνων), Cosenza (Kωνσταντία), Tropea (Τροπαίων) e Tauriana (Ταυρίανα).[clvi] Vescovati che risultano menzionati in questo periodo, anche nell’epistolario di S. Gregorio Magno, quando erano ancora tutti immediatamente dipendenti dalla Santa Sede romana.[clvii]

La distinzione tra una “provincia” detta “Calabria Brindicensis” ed una detta “Pritas (sic) Rigiensis” è riferita, invece, dall’Anonimo di Ravenna (sec. VII).[clviii] La descrizione delle “Italiae provincias” esposta da Paolo Diacono (sec. VIII), identifica la “octava” con i nomi di “Lucania”, “cum Brittia” che, iniziando dal fiume “Silerio”, giungeva allo Stretto di Sicilia, comprendendo, dei “duae superiores”, il “cornu” destro dell’Italia da “Pestus et Lainus” fino a Reggio.[clix]

 

Tra Oriente ed Occidente

Rispetto a questa partizione del territorio che andava consolidandosi tra il dominio bizantino e quello longobardo, l’esistenza di una provincia di “Calabriae” e di una dei “Brutiorum” (Bρυτίων), in relazione ad una diversa dipendenza dei vescovati, rispettivamente, dal patriarca di Costantinopoli e dal papa di Roma, si evidenzia in occasione del sinodo romano del 680, quando volendo rimarcare la loro differente appartenenza, i vescovi di Tempsa, Squillace e Crotone si dichiararono della “provinciae” o eparchia (ἐπαρχίας) dei “Brutiorum” (Bρυτίων), mentre i vescovi di Tauriana, Tropea, e Turio si dichiararono appartenenti a quella di “Calabriae” (Kαλαβρίας), come del resto fece anche il vescovo di Taranto.

In altri casi, tale appartenenza risulta invece omessa in alcune versioni dei diversi testi pervenutici, come riscontriamo nel caso dei vescovi di Locri e Vibo della provincia di Calabria e per quello di Cosenza della provincia dei Brettii, altre volte risulta contradditoria, come nel caso del vescovo di Otranto, che risulta appartenente alla provincia di Calabria nel testo greco, mentre le versioni latine riportano una l’appartenenza ai Brettii l’altra alla Calabria.[clx]

Questa ed altre apparenti incongruenze, come quella evidenziata dal caso di Abundantio vescovo di Tempsa, che a volte figura quale vescovo di Paterno, accanto alla evidente impossibilità di ricondurre nell’ambito di un unico circuito territoriale tutti i vescovati menzionati nell’ambito della stessa provincia, evidenziano come, a quel tempo, oltre ad essere ancora indipendenti l’uno dall’altro, questi fossero ancora privi di una struttura diocesana definita in un ambito territoriale unico.

Gli aspetti che emergono in questa occasione, evidenziano comunque la volontà dei vescovi, in qualità di principali autorità locali cittadine, di porre in essere i primi adeguamenti alle trasformazioni intervenute, attraverso scelte di campo che evidentemente, dovevano tenere conto delle prospettive create attraverso la partizione del territorio ed in relazione alla contrapposizione in essere tra il mondo orientale e quello occidentale. Un solco che andrà approfondendosi nel tempo con l’inasprirsi di tale contrapposizione, in particolare dopo l’ulteriore espansione longobarda dei sec. VII-VIII quando, delle “due punte” o corna che costituivano le estreme propaggini della penisola italiana, rimase in potere dei Bizantini solo quella più meridionale.

In questo quadro instabile e conflittuale, dopo la promulgazione dell’editto che vietava il culto delle immagini nelle chiese (730) e per ritorsione all’opposizione del papa Gregorio III, l’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico (717-741), comandò la confisca del patrimonio appartenenente alla Chiesa romana esistente nell’ambito del dominio bizantino, sottoponendo tutti i vescovati al patriarca di Costantinopoli.[clxi]

A seguito di ciò, in occasione di alcuni concili successivi tenuti dalla Chiesa orientale, troviamo che la partecipazione dei vescovi della regione, fu limitata a quelli appartenenti alla sua porzione più meridionale. Come riscontriamo in occasione della partecipazione dei vescovi di Reggio, Santa Cyriaca, Vibona, Crotone, Tropea, Nicotera e Tauriana al secondo concilio di Nicea del 787,[clxii] e come rileviamo ancora, in occasione del quarto concilio di Costantinopoli (869-870), quando furono presenti quelli di Crotone, Tempsa, Santa Cyriaca, Squillace, Reggio e Tauriana,[clxiii] occasioni in cui, tra l’altro, non risulta menzionata la loro appartenenza ad una particolare provincia.

Per quanto riguarda invece i vescovi della parte settentrionale della regione durante questo periodo, sappiamo che il vescovo di Cosenza e quello di Bisignano, parteciparono al concilio romano del 743 assieme ai vescovi del ducato di Benevento,[clxiv] mentre, non risultano tra i partecipanti del concilio di Nicea del 787 e di quello Costantinopolitano del 869-870. Sappiamo ancora che nell’849, Cosenza e Cassano, in qualità di gastaldati dipendenti da Salerno, compaiono nell’atto di spartizione del ducato di Benevento.[clxv]

In una prospettiva occidentale, il consolidamento del toponimo “Calabria”, è evidenziato in questo periodo, dall’apparire dei termini di Calabria “superioris” ed “inferioris” utilizzati per indicare le due estremità della penisola italiana. Termini che ritroviamo già in Einhardo, che vi ricorre per evidenziare il confine tra Longobardi e Bizantini al tempo di Carlo Magno (768-814), scrivendo circa due decenni dopo la morte dell’imperatore: “… deinde Italiam totam, quae ab Augusta Praetoria usque in Calabriam inferiorem, in qua Grecorum ac Beneventanorum constat esse confinia, …”.[clxvi]

I termini di Calabria superiore ed inferiore, ricorrono in questo periodo anche nell’ambito della documentazione vaticana, attraverso la menzione di un “patrimonium Calabriae inferioris et superioris”, come troviamo nel privilegio fatto il 10 luglio 818 dall’imperatore Ludovico Pio al papa Pasquale I (817-824),[clxvii] e come continuiamo a trovare anche nei privilegi e nelle conferme prodotti dalla cancelleria imperiale successivamente, secondo l’uso che prevedeva di riprendere la stesura del testo originario. Ne abbiamo riscontro nel privilegio fatto il 13 febbraio 962 dall’imperatore Ottone I al papa Giovanni XII (955-964)[clxviii] ed ancora, nel diploma di conferma delle donazioni e dei privilegi già concessi alla chiesa di Roma, fatta nell’aprile 1020, dall’imperatore Enrico III al papa Benedetto VIII (1012-1024).[clxix]

 

I Saraceni

A seguito della conquista musulmana della Sicilia avviata nel 827,[clxx] la Calabria, già interessata dalle scorrerie dei Saraceni, fu esposta più direttamente alla loro minaccia che, in particolare, si concretizzò attorno alla metà del secolo, attraverso l’occupazione di Amantea e Santa Severina.[clxxi]  Due capisaldi strategici per il controllo dei collegamenti tra la parte meridionale e quella settentrionale della regione, che furono riportati successivamente in potere dei Bizantini, per opera dello “stratego di Calabria” Niceforo Foca il Vecchio (885-886),[clxxii] nell’ambito di una vasta campagna di riconquista dell’Italia meridionale, che consentì di arginare l’espansione dei Saraceni e d’imporre il dominio di Bisanzio alle terre dei Longobardi.

Anche continuando a rimanere soggetto alle scorrerie dei musulmani, alle ambizioni degli imperatori occidentali ed a quelle dei papi della Chiesa romana, a seguito di ciò, nell’ambito di quella che era al tempo l’organizzazione dei possedimenti dell’impero di Bisanzio, il territorio riconquistato fu suddiviso in due “themata” (ϑέματα): il thema di Longobardia ed il thema di Sicilia, da cui dipendeva militarmente la Calabria (Kαλαβρίας) che, verosimilmente, rimase in questa situazione fino al tempo delle ultime conquiste musulmane nell’isola, relative alla presa di Catania (900) ed a quella di Taormina (902).

Nel De thematibus (databile agli anni Trenta del sec. X), a proposito del decimo thema di Sicilia, si riferisce, infatti, che Reggio, S. Cyriaca, Santa Severina (ἁγίας Σεβηρίνης), Crotone (Kρότων) ed altre in Calabria (Kαλαβρία), erano sottoposte allo stratego di Calabria (στρατηγòς Kαλαβρίας)[clxxiii] mentre, nel De administrando imperio (databile al periodo 948-952 secondo la stima di G. Moravcsik), si riferisce che la “strategia” di Calabria (Kαλαβρίας στρατηγὶς), era stata in passato “ducato” (δουϰάτον) della strategia di Sicilia.[clxxiv]

 

Una nuova “tattica”

Risentono del nuovo assetto prodotto dalle conquiste militari di Niceforo Foca, i provvediemti che la Chiesa orientale mise in campo in questo periodo, con l’intento di stabilizzare e rafforzare il proprio potere, nei luoghi di confine maggiormente sensibili e particolarmente esposti da un punto di vista strategico, gratificando i principali centri urbani del nuovo scacchiere ricostituito.

Prima fra tutte la città di Reggio che, per la sua tradizionale posizione di dominio sullo stretto, era divenuta, all’attualità, il confine con il mondo musulmano, in seconda battuta i centri che garantivano i principali accessi all’istmo posto tra i golfi di Vibo e di Squillace, dando altresì particolare rilevanza a tutta l’area interna posta tra il Crotonese, il Rossanese e la Sila, dove l’antica identità greca dei centri della costa ionica, doveva poter interfacciare un’ormai consolidata presenza longobarda nell’interno.

Risale infatti a questo periodo la “Néa tacticà” o “Diatyposis”, compilata al tempo di Leone VI il Filosofo (886-911), che elenca le metropoli e le diocesi soggette al patriarcato di Costantinopoli, dove risulta che alla metropoli di “Reggio di Calabria” (ʽΡηγίῳ Kαλαβρίας), “che esisteva nei primi del secolo IX”,[clxxv] erano sottoposti tutti gli antichi vescovati della regione, assieme ad altri di più recente erezione.

In questo elenco, oltre agli antichi vescovati di Vibona (ὁ Βιβώνης), Tauriana (ὁ Ταυριάνης), Locri (ὁ Λοϰρίδος), Squillace (ὁ Σϰυλαϰίου), Tropea (ὁ Τροπαίου), Crotone (ὁ Kρωτώνης), Cosenza (ὁ Kωνσταντίας) e Nicotera (ὁ Nιϰοτέρων), troviamo infatti, quelli più recenti di Bisignano (ὁ Bισουνιάνου) e di Rossano (ὁ ʽΡoυσιανοῦ), eretti nell’area che aveva precedentemente visto la presenza di Thurii, mentre quelli recenti di Amantea (ὁ ’Aμαντίας) e di Nicastro (ὁ Nεοϰάστρου), andarono a prendere il posto di quello di Tempsa, ereditandone e rafforzandone il ruolo.[clxxvi]

Un rafforzamento che interessò particolarmente i luoghi precedentemente oggetto dell’occupazione musulmana e della successiva riconquista bizantina, come nel caso di Amantea, Tropea e Santa Severina (Ἁγίας Σευηρίνης).[clxxvii] Riconquista attuata attraverso le armi, secondo il monaco benedettino Erchemperto,[clxxviii] facendo invece ricorso ad un accordo, secondo le fonti musulmane.[clxxix]

In tale frangente, la particolare importanza di “Santa Severina di Calabria” (Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας), è posta in risalto attraverso la sua erezione a nuovo vescovato, istituito come nuova metropolia di un vasto territorio ai confini della Sila, cui furono sottoposti i quattro nuovi vescovati di Umbriatico (ὁ Eὐρυάτων), Cerenzia (ὁ ’Aϰερεντίας), Belcastro (ὁ Kαλλιπόλεως) e Isola ([ὁ] τῶν ’Aησύλων).[clxxx]

Vescovati greci posti in maggioranza lungo il limite dove, da alcuni secoli, gravitava la presenza delle popolazioni longobarde del Cosentino, la cui antica origine di centri sorti su questo confine naturale, divenuto etnico e religioso e quindi, politico e militare, è posta in evidenza dal titolo delle loro nuove cattedrali che, fatta eccezione per quella di Isola, che sappiamo dedicata alla Vergine al tempo dei Normanni, furono tutte consacrate ad una theoria di santi guerrieri: San Michele Arcangelo a Belcastro, San Teodoro a Cerenzia e San Donato ad Umbriatico.

L’importanza della linea di confine tra la parte settentrionale e quella meridionale della regione, lungo le valli dei fiumi Crati e Savuto, sottolineata dall’emergere di nuove realtà vescovili, risulta confermata anche in seguito.

In un rimaneggiamento della Diatiposi che si ritiene anteriore al Mille, ma la cui redazione è del tempo dell’imperatore Alessio Comneno (posteriore al 1084),[clxxxi] ai vescovati sottoposti alla metropolia di “Calabria ossia di Reggio” (Τῷ Kαλαβρίας ἤτοι τοῦ ʽΡηγίου) già menzionati precedentemente, risulta aggiunto quello di Cassano (ὁ Kασάνου),[clxxxii] mentre quello di Policastro (ὁ τοῦ Пαλαιοϰάστρου) risulta aggiunto alla metropolia di Santa Severina.[clxxxiii]

A conferma dell’esistenza di una situazione delicata in queste aree di confine, dove gli interessi del patriarca di Costantinopoli dovevano fronteggiare quelli del papa romano, la documentazione vaticana trova i vescovati di Bisignano, Malvito e Cosenza, tra quelli soggetti alla nuova metropolia latina di Salerno (983).[clxxxiv]

 

Italia o Calabria

Dopo la campagna di riconquista dell’Italia meridionale condotta da Niceforo Foca, le differenze etniche e religiose, esistenti tra le aree greche e quelle latine ricadenti nell’ambito dei possedimenti bizantini, produssero anche un diverso uso rispetto al passato, degli antichi nomi di Italia e Calabria, che discendeva dal linguaggio adottato dalla struttura amministrativa romana.

Il primo che, fin da quei tempi, aveva sempre indicato tutta la penisola italiana distinta dalla Sicilia, pur continuando a mantenere questo significato generale, nell’ambito dei possedimenti bizantini, andò invece ad identificare, assieme a quello più recente di Longobardia, solo i territori dove si era insediata la popolazione latina, mentre il secondo rimase ad identificare quelli dove tradizionalmente, era stanziata la popolazione greca.

Una situazione evidenziata dalle informazioni che ci provengono circa le magistrature bizantine del periodo compreso tra la fine del sec. IX e la metà del sec. XI, che distinguono una diversa giurisdizione, tra l’ambito del territorio di Longobardia, ovvero d’Italia, e quello del territorio di Calabria, a volte riuniti entrambi sotto l’autorità di un solo ufficiale.

Ne abbiamo notizia con riferimento all’organizzazione militare, in merito all’ufficio di stratego che distingueva tra quello di Longobardia e quello di Calabria (στρατηγòς Kαλαϐρίας),[clxxxv] ma anche nell’ambito giudiziario, come si evidenzia nel caso di Euprassio, giudice d’Italia e di Calabria (ϰριτοῦ γεγονότος Ἰταλίας χαὶ Καλαϐρίας),[clxxxvi] o quando si menziona “Leo (Potus) Spatharocandidatus a secretis et iudex Longobardiae et Calabriae”,[clxxxvii] oltre che nell’ambito amministrativo, come rileviamo attraverso le diverse testimonianze relative all’ufficio di catapano d’Italia (ϰατεπάνω ἰταλίας)[clxxxviii] che, a volte, riuniva a questo lo stesso incarico relativo al territorio di Calabria (“protospatharii et catepani Italiae et Calabriae”).[clxxxix]

Tale distinzione ricorre anche nei geografi musulmani, durante il sec. X: il persiano Ibn Rustah e al-Mas‘ūdī, ricordano la Calabria (Qalūriya) abitata da “franchi e longobardi (Lu‘bardiyyūn)” mentre, verso la fine del secolo, Ibn Ḥawqal riferisce che, ad est della Sicilia, sul litorale del “grande continente dove si trova Costantinopoli, sorge la città di Rīw (Reggio), poi vi sono le provincie di Qalūriya (Calabria)”.[cxc]

Dalla parte tirrenica, il confine tra Calabria e Longobardia era rappresentato dal limite del principato longobardo di Salerno, come descrive ancora Ibn Ḥawqal: “Indi il territorio della Qillavrîah (Calabria) confina con quello di Άnkubardah (Longobardia, i Principati Longobardi), il primo de’ quali è S.tûr.y (leggasi Salerno). Indi [si viene a’] contorni di Malf (Amalfi): la più prospera città di Longobardia …”[cxci] mentre, dalla parte ionica, il limite tra queste due realtà era costituito dal territorio della città di Cassano ed in particolare, dall’antico luogo confinario che continuava ad essere detto “Petram Sanguinariam”, come riferisce un atto del 18 aprile 969, stipulato “in Kalabria in suburbio Cassano”. Questo documento riferisce che quando l’imperatore Ottone I si trovava “in Kalabria”, “in confine atque planicie que est inter Cassanum et Petram Sanguinariam, ibique nostro imperiali iure”, aveva imposto a tutti i suoi sudditi, tanto ai Calabresi (“Kalabris”), quanto a tutti gli Italici, sia Franchi che Germanici (“omnibus Italicis Francisque atque Teutonicis”), le leggi ed i precetti dell’impero.[cxcii]

Una posizione di confine che, alcune volte, risulta riferita come quella esistente tra la Puglia e la Calabria, come evidenzia per questo periodo, il bios dell’abbate Gregorio di Burtscheid, che ricorda il santo come “in confinio Calabriae et Apuliae oriundus”.[cxciii]

Questa situazione risulta confermata durante l’offensiva condotta dall’imperatore d’Occidente Ottone II contro i musulmani nella primavera-estate del 982. In questa occasione, dopo lo scontro con l’esercito nemico e la disfatta delle forze imperiali, il 13 luglio 982 presso Crotone,[cxciv] l’imperatore, che era riuscito a trovare riparo via mare a Rossano, si avviò verso Salerno. Il 27 luglio egli era “in Calabria iuxta civitatem que dicitur Cassianum”, mentre il 31 si trovava “in Calabria iuxta civitatem quae dicitur Rossianum”. Il 2 agosto egli era ancora “in Calabria” presso il fiume detto “Laginum”, come testimonia un atto stipulato “in Calabria iuxta flumen quod vocatur Laginum”.[cxcv]

 

Gli uomini del nord

Dopo la conquista da parte dei Normanni, la provincia di “Calabria”, anticamente detta “Britania”, come riferisce Guidone nella sua Geografia, verso gli inizi del sec. XII,[cxcvi] ormai in mano ai nuovi conquistatori che avevano sconfitto i Bizantini “circa Crotonem in Calabria”,[cxcvii] fu sottoposta al dominio di Roberto il Guiscardo.

Quest’ultimo, sulla scorta di quanto risulta precedentemente documentato per Argiro figlio di Melo che, nel maggio 1054, compare con il titolo di duca d’Italia, Calabria, Sicilia e Paphlagonia (δουκὸς ἰταλίας ϰαλαβρίας σικελίας παφλαγονίας),[cxcviii] attraverso la concessione di papa Nicolo II (1059-1061) e sulla base dell’autorità arbitraria della chiesa romana, nell’agosto del 1059 assunse il titolo di “dux Apuliae et Calabriae” per grazia di Dio e di San Pietro, augurandosi, come recita il suo “Iuramentum” fatto al papa, qualificandolo così come il proprio signore (“domino meo”), di divenire presto anche duca di Sicilia, con l’aiuto d’entrambi.[cxcix]

A seguito di ciò, le “Calabritans ecclesias, que in terra iuris sanctae Romanae Ecclesiae, consistunt”, furono tutte sottoposte all’autorità della Sede apostolica di Roma.[cc] Fatto che produsse alcuni cambiamenti significativi nella organizzazione ecclesiatica del territorio dove, alla metropoli di Reggio, pur confermata, rimasero solo i vescovati della porzione meridionale della Calabria. Tale situazione appare riconducibile già al tempo di papa Gregorio VII (1073-1085), come ricorda la bolla di Alessandro III del 19 novembre 1165: “Archiepiscopo Rhegino confirmat iura metropolitana super ecclesiis Tropeensi, Neocastrensi, Sillana, Cassanensi, Bovensi, Geratina, Opensi et Crotonensi.”.[cci]

 

Una realtà in radicale trasformazione

Le informazioni circa i vescovati calabresi di questo periodo, che ci provengono dalle fonti medievali, spesso posteriori ai fatti del tempo ed a volte, contraddittorie, oppure, in alcuni casi, palesemente false, risentono notevolmente delle trasformazioni che interessarono il territorio conseguentemente alla conquista normanna. Evento che, segnando la fine del lungo dominio bizantino iniziato nella prima metà del sec. VI d.C., determinò il progressivo abbandono delle forme di governo del territorio, proprie del precedente passato imperiale, attraverso l’introduzione del rapporto feudale.

La riorganizzazione dei vescovati calabresi in funzione di tale rapporto, sarà comunque un processo ancora lungo che, seguendo la definizione dei nuovi territori, dimensionati secondo l’articolazione dei rapporti di forza stabiliti tra i nuovi signori, determinerà la formazione delle “terre”. Un processo mediante il quale, ad esempio, l’antica organizzazione legata all’originaria dimensione di monastero ancora posseduto dalla chiesa cattedrale di questo periodo, sarà ricomposta nel tempo attraverso la costituzione delle diocesi cittadine, mentre permarrà altrove ancora a lungo, continuando a caratterizzare l’organizzazione rurale delle abbazie.

Tracce di questo antico assetto, comune a tutte le realtà vescovili del tempo, emergono, ad esempio, attraverso la notizia riferita dal Fiore, secondo cui, la chiesa di Isola fu anticamente un monastero benedettino, il cui abate trasformò attorno al Mille in cattedrale,[ccii] o attraverso quella che, lo stesso Fiore, riferisce circa l’appartenenza alla “diocesi di Gerenzia” del monastero Tassitano posto nella Sila.[cciii]

Ancora al tempo del c.d. Decennio francese, nei luoghi silani, la Mensa vescovile di Cerenzia possedeva la difesa di Trepidò Sottano[cciv] mentre, a riscontro di quello che era stato il suo antico assetto ecclesiastico, sorto nell’ambito di un vasto territorio che aveva visto la presenza d’importanti realtà dell’evo antico, rileviamo che, al tempo della erezione della cattedrale di Cariati (1437), quest’ultima fu unità alla sede vescovile di Cerenzia[ccv] e non a quella più vicina Umbriatico, costituendo la nuova diocesi con i territori di Cariati, Scala, Terra vecchia e S. Maurello che, precedentemente, facevano parte della diocesi di Rossano, alla quale andarono quelli di Campana e Bocchigliero, precedentemente appartenuti alla diocesi di Cerenzia.[ccvi]

Una chiara illustrazione di questa situazione relativa alla persistenza dell’antica organizzazione delle chiese calabresi al tempo dell’arrivo dei Normanni, ci proviene da un “brébion” risalente a verso la metà del sec. XI, che elenca i beni fondiari posseduti della metropolia di Reggio, ovvero di “Calabria” (Καλαβρίας).[ccvii]

Attraverso tale documento apprendiamo che, ancora durante tale periodo, quest’ultima possedeva beni in una vasta area della Calabria che ricadevano anche in luoghi molto distanti dalla città. Pur nell’incertezza legata alla difficile identificazione di molti luoghi menzionati in questo documento, emerge, comunque, come l’area in cui ricadevano tali possessi, o almeno quelli riferiti ai luoghi più chiaramente identificabili, sembra escludere completamente il Cosentino e l’area silana corrispondente, giungendo sino al limite costituito dal corso dei fiumi Crati e Savuto.

Per quanto attiene ai luoghi della regione più prossimi al Crotonese, oltre a possedere beni fondiari a Taverna, a Squillace ed a Soverato,[ccviii] la metropolia di Reggio possedeva anche il monastero di San Giovanni di Campolongo (Καμπoλόγγoυ),[ccix] e sempre in questa località, che è richiamata negli antichi privilegi del vescovo di Isola,[ccx] aveva il possesso di Santa Vennera a Campolongo (Καμπoλόγγoν).[ccxi]

Alla metropolia di Reggio appartenevano anche i beni del monastero di Santa Eufemia di Nicastro, che era una sua grangia, tra cui quelli posti lungo il versante ionico a sud del fiume Crati, che si trovavano presso il corso dello stesso fiume, di fronte a “Lykosyria” (Λυϰoσύρια), vicino a Mandatoriccio (Mανδατoριτζίων), ed ancora in questa stessa località, presso il mare di Alice (Ἁλυϰῆς), con la montagna chiamata Castiglione (Kαστελίoνας).[ccxii] Altri beni della grangia di Santa Eufemia in quest’area, si trovavano ancora presso Palopoli (Παλαιoπόλεως), a Volviti (Boυβλίτoυ), di fronte a Cariati (Kαριάτι) ed a Manipuglia (Moνoπoύλια).[ccxiii]

Sempre in quest’area compresa tra il corso del fiume Trionto e quello del fiume Neto, la metropolia di Reggio possedeva, ancora, il monastero di San Nicola di Campana (τῆς Καμπάνας),[ccxiv] ed il monastero di Santa Marina, che deteneva possessi posti a “Ptéléa” (Πτελέαν) e Melissa (Mελισσά).[ccxv] Il casale di “Ptéléa” (Xωρίoν Ἡ Πτελέα), sopravvivenza medievale dell’antica città dei Brettii, apparteneva interamente alla metropolia.[ccxvi]

Accanto all’antica organizzazione della Chiesa, anche quella relativa alle istituzione civili facenti capo all’organizzazione imperiale, rimase in uso in Calabria ben oltre i primi anni della conquista normanna.

L’esistenza del thema di Calabria (ϑέματη ϰἀλἁβρίας), cui apparteneva il castrum di Stilo, documentata da un atto che il Trinchera attribuisce al novembre 1059, dove Stephano risulta vicario di Calabria (προσωπου ϰαλαβριας) del dominus Antioco, protospatario imperiale e stratego di Calabria (στρατηγου ϰαλαβριας),[ccxvii] continua ad essere documentata da un atto del 1079, che riferisce l’appartenenza della città di Gerace al thema di Calabria.[ccxviii]

In riferimento più specifico al Crotonese, accenni relativi alle trasformazioni delle istituzioni appartenenti al precedente ordinamento politico-amministrativo bizantino, durante questo primo periodo del dominio normanno, emergono attraverso alcuni documenti del secolo successivo.

Lo stratego (στρατηγοϋ) Petro Drako è menzionato in un documento del 1115-1116 (a.m. 6624) relativo ad una concessione enfiteutica in territorio di Roccabernarda,[ccxix] mentre Costa, notaro e stratego di Santa Severina e Crotone (νoτάριoν ϰαὶ στρατηγὸν ἁγίας σευηρίνας ϰαὶ ϰρoτόνης), risulta menzionato in un atto dell’aprile 1121, relativamente ad una sentenza riguardante alcune terre poste in territorio di Santa Severina.[ccxx] Ufficio che, in una carta latina del 1118, appare invece ricoperto da “Girardum baiulum Sancte Severine et Cutroni”.[ccxxi]

Michele, catapano di Crotone (ϰατεπάν ϰρoτωνoς), sottoscrisse un atto del 1159 (a.m. 6667),[ccxxii] mentre Nicola, catapano di Cerenzia (ϰἀτεπανoς ἀϰερετιας), sottoscrisse un atto del 1170 (a.m. 6678).[ccxxiii]

 

I due fratelli

Più che attraverso i pochi documenti conservati, le prime trasformazioni in atto, generate dall’introduzione del rapporto feudale, emergono attraverso alcune cronache medievali, che ci forniscono un racconto ricavato sulla base delle gesta dei principali personaggi artefici di questo periodo, attraverso le dispute e le lotte che trovarono protagonisti questi nuovi padroni.

Relativamente all’anno 1058, il Malaterra riferisce che, fatta pace tra di loro, Ruggero avrebbe ottenuto dal duca Roberto suo fratello, la concessione di “medietatem totius Calabriae a iugo montis Nichifoli et montis Sckillacii”, parte già conquistata, fino a Reggio, anche se quest’ultima porzione rimaneva ancora da conquistare e lo sarebbe stata solo nel 1060. Questo confine, identificabile attraverso una linea che dall’Angitola sulla costa tirrenica, raggiungeva quella ionica presso Squillace, era in effetti quello da sempre più importante per il controllo dei movimenti tra le due parti della Calabria divise dall’istmo.[ccxxiv]

Non stupisce, quindi che, in tale contesto, sempre secondo quanto riporta il Malaterra, nell’anno 1065 il duca Roberto, assieme al conte Ruggero suo fratello, realizzarono una spedizione che li portò all’assedio di alcuni “castra Calabriae”, posti in posizioni chiave di questo confine. Tale azione condotta contro il castrum di Policastro ed “in provincia Cusentii”, contro quelli di “Rogel” (Rogliano ?) e di “Ayel” (Aiello),[ccxxv] sembra poter essere inquadrabile nel contesto di quelle che, successivamente, trovarono ancora protagonisti i due Altavilla, contro altri importanti capisaldi che presidiavano il confine tra la parte meridionale e quella settentrionale della regione.

Come indicano i fatti riferibili agli anni 1073/74, relativi alle vicende relative alla disputa che interessò il controllo della città di Santa Severina, episodio subito conseguente alla conquista di Palermo (gennaio 1072), a seguito della quale, secondo Amato di Montecassino, i due fratelli giunsero ad accordarsi circa la spartizione delle terre già conquistate, spartendosi anche quelle che lo sarebbero state in futuro. In questa occasione, Roberto avrebbe concesso a Ruggero la metà della Sicilia, assieme alla metà della Calabria che già deteneva.[ccxxvi]

Questa loro sintonia d’intenti appare evidenziata anche in occasione dell’episodio conseguente a questi fatti, riguardante Santa Severina, quando i due intervennero assieme nella lotta contro l’altro loro familiare Abagelardo, figlio del conte Humfredo che, divenuto ribelle al duca Roberto suo zio, si era arroccato “apud Sanctam Severinam, Calabriae urbem”. Qui, dalla Sicilia, si recò ad assediarlo il conte Ruggero, chiamato dal duca suo fratello, al quale, in seguito, giunse a dare manforte lo stesso Roberto. Fu così che, stretto d’assedio attraverso l’erezione di “tria castella”, Abagelardo fu costretto a cedere la città.[ccxxvii]

Capitolo S. Severina tre castelli

Sigillo del capitolo di Santa Severina che raffigura Santa Anastasia reggere in mano un simulacro della città con tre castelli.

 

Nelle “terre” di Calabria

Le lotte che avevano trovato protagonisti i primi conquistatori, ripresero vigore dopo la morte di Roberto il Guiscardo (1085) quando, in relazione alla sua successione, i Normanni si divisero in due fazioni contrapposte. Una facente capo al duca Ruggero detto Borsa (1085-1111), figlio del Guiscardo e di Sichelgaita, indicato dallo stesso Roberto quale suo successore, l’altra che parteggiò per Boemondo, nato dal primo matrimonio di Roberto con Alberada, poi ripudiata.

Durante tale critico frangente, sempre secondo il racconto del Malaterra, nel 1085, il conte Ruggero si schierò dalla parte del duca Ruggero Borsa che, in questa occasione, lo avrebbe ricompensato concedendogli per intero, “omnia castella Calabriae, quorum necdum nisi medietatem cuiusquam comes Rogerius habebat”.[ccxxviii]

In questo quadro si svilupparono i fatti che condussero alla costituzione della contea di Catanzaro quando, nel 1087, Mihera “filius Hugonis Falloc”, che aveva ereditato dal padre “Catanzarium et Roccam” (Rocca Fallucca), si schierò con Boemondo impadronendosi di “Maja” (Maida).

Avvenuta però la riconciliazione tra Boemondo ed il duca Ruggero, Mihera cercò di rientrare nelle grazie del duca restituendogli Maida. La sua mossa fu vana, perché il conte Ruggero e Roberto de Loretello, figlio di Goffredo, fratello di Roberto il Guiscardo, che il duca Ruggero aveva chiamati in suo aiuto contro Boemondo, sfruttando l’occasione favorevole, lo attaccarono per impadronirsi delle sue terre.

Mihera, rifiutando lo scontro, si ritirò monaco a Benevento, lasciando erede il figlio Adam. Anche questi, comunque, fu costretto alla resa, ma prima di cedere all’assedio postogli nel 1088 da Rodulpho de Loretello, fratello minore di Roberto, appiccò il fuoco ai propri beni. Fu così che questi fatti condussero il conte Ruggero e Rodulpho a spartirsi le sue terre,[ccxxix] portando quest’ultimo a divenire il primo conte di Catanzaro (1088-1098).[ccxxx]

La particolare importanza strategica di Catanzaro nel quadro dei collegamenti tra la Puglia e la Sicilia durante questo periodo, si evidenzia assieme a quella di altri centri del versante ionico della Calabria, come Cerenzia e Rossano.

In questi ultimi anni del secolo, infatti, le lotte per stabilire il dominio feudale dei luoghi appartenenti a quest’area, coinvolsero anche l’antica Cerenzia, il cui territorio, limitrofo a quello rossanese, s’andava a formare alle falde della Sila che lo divideva dal Cosentino.

Secondo le cronache, che riconducono i fatti al 1090, al tempo in cui il conte Ruggero si accingeva alla spedizione contro Malta, lo scontro con quest’ultimo sarebbe nato dal rifiuto di “Mainerius de Gerentia” di partecipare all’impresa. Constatata tale insolenza, il conte avrebbe quindi differito la sua partenza per Malta, spostandosi dalla Sicilia “in Calabriam”, per ricondurre al proprio volere il feudatario ribelle. Quest’ultimo, atterrito dall’assedio postogli da Ruggero, sarebbe dunque giunto a più miti consigli, e chiedendo supplice la misericordia del conte, si sarebbe sottomesso pagandogli mille solidos d’oro.[ccxxxi]

Rispetto a questo sviluppo dei fatti fornitoci dal Malaterra, diversa appare la conclusione della vicenda secondo le cronache di Lupo Prothospatario e di Romualdo Salernitano che, concordemente, riferiscono la devastazione e l’incendio della città di “Acherontia” nel 1090.[ccxxxii]

In questo caso, come abbiamo visto precedentemenete, in occasione dell’episodio che condusse alla costituzione della contea di Catanzaro, al pari di altri menzionati dalle cronache medievali, tali devastazioni, prodotte ricorrendo all’incendio dei luoghi, vanno interpretate alla luce del processo di ricomposizione del territorio, assumendo un significato rigenerativo/rifondativo.

Nell’ambito della “Calabria”, limite di tale azione condotta negli antichi territori di tradizione greca, risulta essere stato Rossano che, in questa fase, assunse funzioni di confine. Già nel bios di San Nilo, infatti, dove si distingue l’Italia (ovvero la Longobardia) dalla Calabria, in qualità di territori differenti,[ccxxxiii] Rossano è ricordata ai confini della Calabria (Kαλαϐρίας τέρμασι).[ccxxxiv] Il Malaterra individua la città, dove il duca eresse il castello (1073), nella provincia di Calabria,[ccxxxv] come conferma un atto del 1091, dove si specifica l’appartenenza del luogo in cui si trovava il monastero di S. Adriano: “quod positum est in Calabria in pertinentiis Rossani”.[ccxxxvi]

 

La Valle del Crati

Dopo la conquista normanna, la porzione più settentrionale della Calabria, posta oltre il limite segnato dal corso del fiume Crati, territorio caratterizzato dall’antica presenza latina dei Longobardi, andò strutturandosi secondo un proprio assetto nell’ambito della nuova organizzazione feudale, assumendo anche una propria identità, distinta da quella del resto del territorio calabrese di tradizione greca.

L’esistenza del territorio detto di Valle Crati, posto nella porzione più settentrionale di quello di “Calabria”, secondo limiti che ricalcavano gli antichi confini, è posta in evidenza attraverso la narrazione delle vicende del monaco Vitale di Castronovo che, secondo quanto risulta riportato nel suo bios, dopo aver già vissuto per due anni in un monastero presso Santa Severina, ed essere ritornato in Sicilia, tornò nuovamente “in Calabriam” e “peragratis (sic) finibus”, giunse presso la città di Cassano (“Cassani civitatis”), fermandosi nel monte detto “Liporachi” e successivamente, visse nel luogo che “nunc Petra Roseti dicitur”.[ccxxxvii]

Questo luogo confinario, anticamente segnato dalla “pietra del sangue” posta presso il fiume Sinni, risulta evidenziato verso la metà del sec. XII, dal geografo musulmano Edrisi, che lo individua con il territorio della “città” di Roseto. Quest’ultima, posta a dodici miglia dopo il fiume Crati, si trovava a dodici miglia dal “confine tra i Franchi e i Longobardi”, posto nel luogo detto in arabo sahrat saku, espressione che l’Amari e lo Schiapparelli, pur in forma dubitativa, traducono in “il sasso del Sinno” ed individuano nella Pietra di Roseto. Sei miglia separavano questo confine dal fiume Sinni.[ccxxxviii]

La menzione del territorio di Valle Crati, si rinviene anche nella cronaca del Malaterra, opera che si ritiene scritta negli ultimi anni del sec. XI.

La localizzazione “in valle Cratensi” e nell’ambito della Calabria, del castrum posto in “loco qui Scribla dicitur”, è riferita da questo autore, in occasione dei fatti che, attorno alla metà del secolo, trovarono protagonista Roberto il Guiscardo “ad debellandos Cusentinos et eos qui adhuc in Calabria rebelles erant.”[ccxxxix] Tale situazione è evidenziata anche da un passo successivo di questa cronaca, relativo all’anno 1062, quando il territorio di Valle Crati compare nell’ambito della “provincia” definita “totam Calabriam”.[ccxl] Territorio al quale appartenevano Castrovillari e San Marco,[ccxli] a volte menzionato come “provincia” di Cosenza,[ccxlii] città comunque di “Calabriae”,[ccxliii] i cui confini meridionali sul versante tirrenico, erano rappresentati dal territorio di Martirano e dal corso del fiume Amato.[ccxliv]

Riscontrano questi racconti, alcuni documenti degli inizi del sec. XII. In un atto del 1112, il senescalco Riccardo, risulta “magister di tutta la Calabria” (μαΐστορος πάσης Kαλαβρίας),[ccxlv] mentre un atto del maggio 1130, riferisce che re Ruggero confermò all’abbate del monastero della “intemeratae Dei Matris et Novae Hodegetriae Patris”, tutti i privilegi e le donazioni di terre precedentemente fatte “in tota Valle Crathis, et Rusiani, et S. Mauri” (βαϑείαν τοῦ Γράτου ϰαὶ Ρoυσιανοῦ ϰαὶ ἅγιον Mαῦρον).[ccxlvi]

Carta di Sawley

L’antica centralità della Calabria e dei territori vicini, continua ad essere rappresentata nella c.d. Carta di Sawley, la più antica mappa mundi inglese, che illustra la popolare cronaca storica del teologo Onorio Augustodunensis (1080-1154). In questa carta, disegnata con l’oriente in alto ed al cui centro troviamo l’isola di Delo, ritenuto il luogo di nascita di Apollo, le poche indicazioni relative all’Italia sono concentrate soprattutto nella sua porzione meridionale, dove compaiono i toponimi: “campania”, “lucania”, “apulia”, “calabria” e “brucii”, quest’ultimo retaggio relativo all’antico stanziamento di questa popolazione.

Santa Severina di Calabria

Sul confine con i territori della Valle del Crati, assieme con i vescovati che componevano la sua arcidiocesi, si trovava da tempo anche Santa Severina, ovvero Santa Severina “di Calabria” (Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας), come risulta documentato già verso la fine del sec. IX.[ccxlvii]

Questa sua posizione e questa sua appartenenza sono poste in evidenza in occasione della rifondazione dell’abbazia di Calabro Maria, detta anche della Vergine Maria de Calabro (poi detta di Altilia), posta in diocesi di Santa Severina, che fu una delle più antiche ed importanti abbazie di rito greco esistenti nella vallata del Neto.

Il toponimo “Calabro” rimanda alla località nella quale si trovavano le famose ed importanti Saline di Neto (“de salina Neti, quae est prope Calabromariam”), dette anche le “salinas Calabriae”,[ccxlviii] dove il luogo sacro dedicato alla Vergine Maria, come avvenne in altri casi similari, aggiunse il nome della località al toponimo agiografico.

Abbandonata ed andata in rovina, essa risorse alla fine del sec. XI, per opera del vescovo di Cerenzia Polycronio il quale, col consenso del metropolita di Santa Severina Costantino, la riedificò e la ripristinò, reintroducendovi i monaci, e la dotò di molti beni.

In questa occasione, su istanza dello stesso vescovo, l’abbazia fu confermata nei possessi e arricchita di privilegi dal duca Ruggero Borsa (“à Rogerio Duce Italiae, Calabriae, et Siciliae”), che il 31 maggio 1099 (a.m. 6607), in Tropea, le concesse il territorio silano di San Duca, libero da servitù e con ogni bene esistente, affinché i monaci potessero aprirvi un altro monastero.

In seguito, su richiesta dello stesso Polycronio, i beni dell’abbazia furono confermati dal conte Ruggero II (“Rogerio Comite Calabriae, et Siciliae”) che, in Santa Severina, il primo giugno 1115 (a.m. 6623), aggiunse 12 once annuali da riscuotere dalle saline di Neto, col solo peso per il monastero di versare tre libbre di cera alla chiesa di Santa Severina. Successivamente, il 18 ottobre 1149 (a.m. 6653), dietro l’esibizione dei privilegi del convento da parte del vescovo di Isola Tasimeo, lo stesso Ruggero II, nel frattempo divenuto re di Sicilia, confermò le concessioni precedenti, elargendo ai monaci altri privilegi nel quadro del contesto economico e produttivo del territorio in cui sorgeva la loro abbazia, che prevedevano di poter usare l’acqua del Neto per animare mulini, la giurisdizione sul casale Caria ed il libero pascolo nei tenimenti di Santa Severina e Roccabernarda per il proprio bestiame e per quello forestiero, nel caso quest’ultimo vi avesse pascolato per conto del monastero.[ccxlix]

L’ampiezza dell’area caratterizzata dalla presenza del toponimo “Calabria”, sottoposta alla città di Santa Severina risulta estesa ben oltre la località dove erano poste la Salina, l’abbazia dedicata alla Vergine ed il casale di Calabrò,[ccl] come dimostra l’esistenza del canonicato della cattedrale di Santa Severina intitolato alla chiesa di Santa Maria di “mon Calabria” o di “Boncalabria”/“BuonCalabria”, posta in territorio di Scandale, casale di Santa Severina, la cui esistenza comincia ad essere documentata agli inizi del Cinquecento,[ccli] anche se il toponimo sembra apparire già in periodo svevo, quando “Matheus de Mencalabri” (sic) sottoscrisse un atto dell’aprile 1224, riguardante il possesso di alcuni beni posti in tenimento di Santa Severina.[cclii]

 

In potere del duca

Alcuni atti che riportano le concessioni fatte dai signori feudali a cominciare dalla fine del secolo XI, documentano il lungo ed ininterrotto dominio dei duchi normanni nel Crotonese, fino al tempo della costituzione del regno di Sicilia.

Poco tempo dopo la conquista normanna, la cattedrale di Isola che risultava “diruta, lacerata et deserta”, fu ripristinata e ridotata per privilegi concessi nel maggio 1092 dal duca Ruggero Borsa (1085-1111). Privilegi che saranno confermati ed ampliati nel 1145, da re Ruggero II a Luca vescovo di Isola.[ccliii]

Le concessioni fatte dei duchi normanni sono documentate anche in seguito, come risulta per il duca Guglielmo (1111-1127), figlio del duca Ruggero Borsa, che troviamo in un atto del 1112, in qualità di duca d’Italia, di Calabria e di Sicilia (δουκὸς Ἰταλίας Kαλαβρίας καὶ Ʃικελίας).[ccliv]

In questa occasione, sottoscrivendo entrambi l’atto, il duca, assieme al senescalco Riccardo, “magister di tutta la Calabria” (μαΐστορος πάσης Kαλαβρίας), donarono a Thomas, categumeno del monastero di Santa Maria della Matina, l’ospedale edificato nella città di Crotone da Kottophridas Philbouè, con tutti i suoi domini, le sue terre, le vigne, le case ed i villani.[cclv]

Le concessioni di questi due signori feudali sono documentate anche in territorio di Santa Severina, come risulta in occasione della conferma dei privilegi dell’arcivescovo di Santa Severina, da parte del papa Lucio III (1183), tra cui sono ricordate le libertà e le immunità, precedentemente concesse ai suoi predecessori, dal duca Ruggero e dal senescalco Riccardo, figlio di Drogone conte di Venosa.[cclvi]

La lunga persistenza del dominio dei duchi normanni in territorio di Santa Severina, è ripercorsa dalle notizie contenute in un atto del novembre 1118 quando, “Girardum baiulum Sancte Severine et Cutroni”, sentenziò contro “Arnaldus de Fontana Coperta cognominatus”, in merito alla controversia sollevata da questi contro l’abbazia di Santa Maria della Matina, circa il possesso di alcune terre contese tra le parti, poste presso il fiume Tacina.

La ricostruzione dei fatti riportata nel documento, che ci fornisce indicazioni sull’articolazione locale del dominio feudale tra il dominus ed i suoi vassalli, faceva risalire l’originario possesso di queste terre, alla erezione da parte del “biscontis” di Santa Severina “Nicolaus qui de Grimaldo cognominatur, qui tunc castri Sancte Severine principabatur”, delle chiese di Santa Maria e di S.to Nicola, edificate “in loco Castelli et fluminis Tachine in uno loco” e dotate dallo stesso Nicola con propri beni ed animali, al fine di realizzare un “monasterium parvum quod est prope flumen Tachine”.

Dopo la morte del detto Nicola, il monastero era stato detenuto dal duca Ruggero Borsa (“dux ille fortis tunc dominus noster”, morto il 22.06.1111) che, prima, lo aveva concesso a “Brienio magnato suo” e, successivamente, all’altro suo “magnatus” “Alioctus”.

Dopo la morte di Aliocto, il duca aveva concesso il monastero a “Gottofridus filius Yvum” e dopo la morte di quest’ultimo, l’aveva concesso a “Cheles comestabulus” che, successivamente lo aveva restituito al duca. Questi lo aveva quindi dato, a “Fulconem de Monte Curbino” che, in seguito, con l’assenso del “metropolitanus dominus Gregorius”, aveva infine offerto il detto “monasterium subiectum”, alla “Sanctissime Marie Dei genitricis de Matina”.[cclvii]

Un’altra concessione da parte del senescalco Riccardo, si rileva, in questo periodo, nell’ambito diocesano di Umbriatico, come evidenzia un atto del 15 giugno 1115 scritto “aput castrum S. Mauri, quod est in Calabria”, luogo forse identificabile con quello menzionato da Edrisi, posto a cinque miglia da Rossano, a sei dal mare ed a nove da Bisignano.[cclviii] In questa occasione, al fine di realizzare “aliquam mansionem vel receptaculum in terra nostra, que ad Ebriaticum pertinet”, il senescalco Riccardo, presente alla stesura dell’atto, figlio del gran conte Drogone (“Ricardus, senescallus, magni comitis Drogonis filius”), “pro rimedio” della sua anima, di quella di suo padre, “nobilissimi comitis”, nonché di Roberto il Guiscardo suo avunculo, “probissimi ducis”, del figlio di questi Roggerio, “non minoris memorie ducis”, di sua madre, di sua moglie Altrude e di sua sorella Rocca, concedeva alla “ecclesie S. Salvatoris de Monte Tabor” ed all’abate Raymundo, nonché a tutti i “fratribus monacis ejusdem loci, tam presentibus quam futuris”, il “montem totum, in quo situm fuit castrum Licie”.[cclix]

 

La “comitissa” Mabilia

Accanto a quella fornitaci da questi documenti, una idea sulla strutturazione del possesso feudale in Calabria, al tempo del dominio dei primi conquistatori normanni, ci perviene attraverso le vicende di Mabilia, figlia di Roberto il Guiscardo che, qualche anno prima che suo padre partisse per la spedizione in Oriente, durante la quale trovò la morte nel 1085, andò sposa a Guglielmo de Grantemanil, nipote ex frate di Roberto, abbate di Santa Eufemia, portandogli in dote quindici castelli.[cclx]

Secondo il Pontieri, Guglielmo fu “signore di Castrovillari, S. Marco, Crotone, Oriolo” per volontà del Guiscardo, che “gli assegnò in feudo queste importanti cittadine e volendolo legare vieppiù a se, gli dette pure in moglie la figlia Mabilia. Carattere avventuroso e ambizioso, il Grantmesnil aspirava anche a Rossano, come appannaggio dotale della moglie; ma non si agitò finchè visse suo suocero.”.[cclxi]

Morto il Guiscardo, però, Guglielmo de Grantemanil si schierò dalla parte di Boemondo contro quella di Ruggero Borsa, ed assediato in Castrovillari da questi e dal conte Ruggero, fu costretto alla resa venendo privato dei feudi. Partito per Costantinopoli, dopo aver raggiunto la riappacificazione, fece ritorno in patria, ottenendo così la restituzione dei suoi feudi “excepto castro Sancti Marci”.[cclxii]

Nel 1096 partì per la crociata sotto le bandiere di Boemondo ma, successivamente, dopo aver abbandonato l’assedio di Antiochia nel 1098, incorse nella scomunica da parte di papa Pasquale II, morendo, probabilmente, poco tempo dopo, lasciando la moglie ed i figli Guglielmo iuniore e Roberto.[cclxiii]

Le notizie riguardanti i possedimenti di Guglielmo seniore, che emergono attraverso le cronache che lo ricordano, trovano riscontro in alcuni documenti, dove sono menzionate le sue concessioni e quelle dei suoi familiari: “in tenimento Castrovillari”,[cclxiv] a Oriolo ed Altomonte,[cclxv] nell’area compresa tra i fiumi Crati e Coscile,[cclxvi] “in tenimento Sagicte” (territorio di Chiaromonte e diocesi di Anglona),[cclxvii] ed ancora, presso Isola e nelle pertinenze di Crotone dove, le primitive donazioni all’abbazia di Santa Maria del Patir, risalivano al duca Roberto il Guiscardo.

Tra i primi privilegi del monastero greco di Santa Maria della Nuova Odigitria, detto Santa Maria del Patir, spicca infatti quello del duca di Calabria Roberto il Guiscardo, che concesse il libero pascolo per gli animali del monastero, presso Isola e nelle pertinenze di Crotone.[cclxviii]

Nel maggio del 1130 (a.m. 6638), in Messina, re Ruggero II confermava allo stesso Luca, abbate del monastero della “intemeratae Dei Matris et Novae Hodegetriae Patris”, tutti i privilegi e le donazioni precedentemente fatte “per totam Vallem Crathis”, tra cui ogni cosa donata da Guglielmo Grandtemanel (Γουλλέλμου Γρανδτεμανὴλ). Confermava inoltre l’obbedienza, che il monastero aveva in agro di Crotone, cioè “sanctum Costantium Asylorum cum omnibus suis instrumentis, sigillis et possessionibus, et cum omnibus pascuis et iumentis, ut iis sine impedimento fruantur”.[cclxix]

Nel febbraio 1132, Mabilia, figlia di Roberto il Guiscardo, investita nuovamente della contea di Crotone dal re Ruggero II, per la salvezza della sua anima e di quella del padre Roberto confermava all’abate Luca, che era accompagnato dall’arcivescovo di Santa Severina Romano, il privilegio a suo tempo concesso dal padre di libero pascolo, cioè senza impedimento e senza ostacoli eccetto la decima, per gli animali del monastero, presso Isola e nelle pertinenze di Crotone, sia in primavera che d’estate e la donazione, fatta dal vescovo di Isola Giovanni, della chiesa di San Costantino con i suoi diritti e pertinenze e con il mulino situato nel torrente Ceramida, fatto da Monachus. Inoltre, per la salvezza delle anime di suo padre, dei suoi antenati e sua, aggiungeva alcune terre in territorio di Isola presso la chiesa di S. Costantino.[cclxx]

 

Il regno di Sicilia

Rispetto alle prime trasformazioni avvenute durante il dominio dei duchi normanni, maggiori e più profondi cambiamenti interessarono il territorio calabrese al tempo della costituzione del regno di Sicilia, quando tale avvenimento, che possiamo considerare il prodotto delle lunghe lotte protrattesi per quasi un secolo, stabilizzò i rapporti di forza tra i poteri formatisi durante il processo di conquista, determinando un primo assestamento delle tensioni generatesi tra i principali signori che meglio erano riusciti a radicarsi sul territorio.

Questi ultimi esprimevano un potere costituito attraverso il rapporto feudale che, fino a questo punto, era vissuto articolandosi attorno a diversi centri di gravità, ma che, durante questa nuova fase, cominiciò ad esprimersi in forme più unitarie rispetto al passato, formando i primi abbozzi di organizzazione statale che, diversi storici degli ultimi due secoli passati, hanno voluto considerare (assieme alla monarchia d’Inghilterra), come una delle prime anticipazioni dei moderni stati europei.

Morto senza figli il duca Guglielmo (28 luglio 1127), figlio di Ruggero Borsa, le vicende videro succedergli nel titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia, il conte Ruggero II, nel frattempo già succeduto al padre Ruggero I nel titolo di conte di Sicilia.

Quest’ultimo era morto nel 1101 ed era stato sepolto a Mileto “in provincia di Calabria”,[cclxxi] mentre sua moglie Adelaide, a causa della minore età dei figli, aveva assunto la reggenza comitale di Sicilia, prima per il primo figlio Simone e dopo, morto anche costui, per l’altro figlio Ruggero II, detenendola fino alla maggiore età di quest’ultimo (1112).

Romualdo Salernitano, afferma che Ruggero II sarebbe stato designato nella successione direttamente dal duca,[cclxxii] mentre Falcone Beneventano, fonte a lui ostile, riferisce che, precedentemente a questi fatti, il duca Guglielmo era dovuto ricorrere al suo aiuto, per sedare la ribellione di Giordano conte d’Ariano, concedendogli in cambio in questa occasione, la propria metà delle città di Palermo e Messina e di “totius Calabriae” (1122),[cclxxiii] tacendo circa la sua istituzione ad erede da parte del duca e descrivendo l’aspro confronto che invece l’oppose al papa.[cclxxiv]

In qualità di dominus dei feudi appartenuti al duca, dopo la morte di Guglielmo, spettava infatti ad Onorio II concedere i feudi del duca ad nuovo vassallo. Concessione per la quale si proponeva Ruggero II, essendo il parente maschio più prossimo del suo defunto nipote. Alla fine, comunque, il papa investì Ruggero II in qualità di duca di Puglia, Calabria e Sicilia (1128).

Le contrastate vicende che condussero Ruggero II ad essere incoronato re di Sicilia, il giorno di Natale del 1130, trovarono protagonista anche il signore feudale di Crotone Roberto de Grantemanil, figlio di Guglielmo e di Mabilia che, inizialmente, si schierò dalla parte di Ruggero II e nel giugno del 1127, assieme ad altri feudatari, giunse all’assedio del “castellum Obmanum”, dove si erano radunate le forze fedeli al conte.[cclxxv]

Nel giugno del 1129, Roberto partecipò anche all’assedio di Montalto ma, in seguito, postosi in contrasto con Ruggero II,[cclxxvi] e divenutogli ribelle, si arroccò in Oriolo e Castrovillari ma, stretto d’assedio, fu infine obbligato ad abbandonare i castelli che possedeva.[cclxxvii]

 

Uffiali e territori

Rispetto alla precedenti forme di governo del territorio, fondate principalmente sull’intervento locale di uomini appartenenti alla corte del proprio signore – uomini inseriti nei quadri di una gerarchia feudale che, in parte, risentiva ancora del recente passato imperiale – con la costituzione del regno di Sicilia comincia ad apparire una organizzazione centrale più strutturata e composta da diversi uffici, ciascuno articolato localmente secondo i diversi territori che componevano il nuovo regno.

Secondo alcuni, l’esistenza di questi uffici sarebbe documentata già al tempo di Ruggero I, quando risalirebbe la notizia della presenza di un “camerarius totius Calabriae et Vallis Gratis et Vallis Sinni atque Vallis Marsici”,[cclxxviii] anche se la cronaca di Romualdo Salernitano riferisce esplicitamente, che re Ruggero II istituì camerari e giustizieri nel 1139 per tutto il regno: “Rex autem Roggerius in regno suo perfecte pacis tranquillitate potitus, pro conservanda pace camerarios et iustitiarios per totam terram instituit, leges a se noviter conditas promulgavit, malas consuetudines de medio abstulit.”.[cclxxix]

A seguito di ciò, in relazione all’amminsitrazione della giustizia, il territorio di “tutta la Calabria” fu affidato ad un mastro giustiziere e fu diviso in distretti giudiziari detti giustizierati, affidati ciscuno ad un giustiziere.

Accanto a compiti amministrativi e ricognitivi, a questi ufficiali era affidata, principalmente, l’amministrazione della giustizia nelle cause più importanti, rispetto ai feudatari che, detenendo la bagliva, secondo specifici capitoli e con differenze legate ai singoli territori, avevano, in genere, solo il potere di riconoscere le prime e seconde cause nell’ambito del loro feudo.

Lo stesso giustiziere poteva detenere l’amministrazione della giustizia anche in più distretti che oltre a quello di “Calabria”, toponimo che continuava a definire il territorio abitato dalla popolazione greca, comprendevano anche quelli abitati dai longobardi, ossia i territori di “Valle Crati”, di “Valle Sinni”, di “Valle Laino” e di “Valle Marsico”, che riprendevano la suddivisione dei più antichi gastaldati longobardi esistenti al tempo del principato di Salerno.

Una situazione che comincia ad essere documentata già attorno alla metà del secolo, quando Carbonello di Tarsia e Guglielmo figlio di Ruggero, che detenevano “in vall(e) G[r]atis regali potestate primatum iudiciorum”, sentenziarono contro il monastero di Santa Maria della Matina a San Marco nell’aprile 1153,[cclxxx] mentre, nel gennaio del 1157, Riccardo de Say “comestabulus et iusticiarius”, assieme a Carbonello de Tarsia e Ruggero di Sangineto, “iustificatores in valle Gratis”, sentenziarono a Cassano.[cclxxxi]

Un atto del febbraio 1168 ricorda il “comite Hugone catanzarii; magistro iusticiario et comestabulo totius calabrie”,[cclxxxii] mentre in un atto del giugno 1181, compaiono “Guillelmo Rogerii filio et Goffrido de Barento Vallis Gratis, regiis iustitiariis”.[cclxxxiii]

In questo periodo, la distinzione di un territorio detto “Valle de Grati” ed uno detto “vallem de Sinu” (sic, ma Sinni) nell’ambito di quello di Calabria, emerge nella cronaca dell’Anonimo Cassinense.[cclxxxiv]

Accanto a questa divisione per territori, nell’ambito dei quali s’estendeva la giurisdizione dei diversi ufficiali regi che avevano il compito di amministrare il regno, quest’ultimo risultava distinto in due porzioni principali, divise da un confine stabilito “secondo la linea del fiume Sinni”[cclxxxv] che ripartiva la Dogana, vocabolo forse derivato dall’arabo “Diwân”, che avrebbe avuto lo stesso significato di “Curia”, designando “l’uffizio, che soprintendeva all’amministrazione della rendita pubblica di qualunque natura essa fosse”. Tale ufficio relativo a compiti amministrativi di tesoreria relativi al regio tesoro, è detto nei documenti semplicemente “Dohana”, ma anche “Dohana de secretis”, in quanto questo confine divideva i territori posti sotto la giurisdizione dei due secreti, oppure “Dohana baronum”, come si rinviene nelle antiche costituzioni del Regno di Sicilia.[cclxxxvi]

Questo secondo appellativo risulta relativo alla ripartizione del pagamento dell’Adoha, come dimostra una significativa omissione, che possiamo riscontrare nel c.d. “Catalogo dei Baroni”: una copia trecentesca, di un elenco che si fa risalire a verso la metà del secolo XII,[cclxxxvii] compilato allo scopo di fissare la contribuzione ai fini militari, spettante ai feudatari del regno normanno di quel tempo dove, in virtù della loro diversa appartenenza, la Calabria come, del resto, la Sicilia, non risultano elencate.[cclxxxviii]

Esso, infatti, “comincia coi feudi di Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto, passa indi a quelli di Capitanata, del Molise, e dei Principati, toccando di nuovo taluni punti della Basilicata; va poscia di nuovo nel Molise, e in Terra di Lavoro, e termina cogli Abruzzi e colla lista dei militi di Arce, Sora, ed Aquino.”.[cclxxxix]

 

La geografia di Edrisi

Attorno alla metà del sec. XII, il geografo musulmano Edrisi, ci fornisce una descrizione molto particolareggiata del regno di Sicilia. Nella sua opera commissionatagli da Ruggero II, “re di Sicilia, Italia, Longobardia e Calabria”,[ccxc] egli distingue la Calabria (qillawrîah) dalla Longobardia (’ankubardah) territorio, quest’ultimo, che oltre a comprendere gli antichi principati longobardi,[ccxci] comprendeva anche la Puglia (bûlîah), nomi che identificavano questi due “territorii o provincie”.[ccxcii]

A sud di Bari, che “è la capitale del paese de’ Longobardi ed è una delle metropoli rinomate dei Rûm”,[ccxciii] ovvero “Sulla riviera di ponente del golfo dei Veneziani” (il mare Adriatico), Edrisi pone Brindisi, Ostuni, Monopoli, Conversano, Molfetta, Bisceglie, Trani, Barletta, Canne, Siponto/Viesti, Rodi, Lesina e Campo Marino. “Tutte queste città fanno parte dell’ ’ankubardah (Longobardia) e si trovano [come abbiam detto] sulla costa di ponente del golfo [dei Veneziani].”.[ccxciv]

Egli pone invece la città di Otranto “nel paese dei rûm”, essendo appartenente alla “[costiera] orientale della qillawrîah (Calabria)”[ccxcv] mentre, lungo quello che chiama il “mare di Siria” (ovvero il Mediterraneo), pone Tacina (ṭâǵ.nah), Crotone (quṭrûnah), Rossano (ruśśânah), Roseto (rûsît) e Taranto (ṭâr.nt).

Appartenevano alle “città di Calabria”: Catanzaro (qaṭ.nsân), Martirano (marṭurân), Viggiano, Castrovillari (q.ṭ.rûb.lî), Benevento, Melfi, Conza, Venosa, Sant’Agata, Chiaromonte, Senise, Bisignano (b.snîân), Simeri (sîm.rî), Strongoli (’.st.r.nǵ.lî), Tricarico, e “ǵ.rsanah (leg. ǵ.ransah Acerenza). Queste, [diciamo], sono tutte città di Calabria”.

Fra “le città di ’ankubardîah (Longobardia)” Edrisi annovera invece: Matera, Cerignola, Mottola, Gravina, Canosa, Ordona, Ascoli Satriano, San Lorenzo, Sambiase, Civitate, San Severo, Monte Sant’Angelo, Lesina, Campo Marino e Termoli.[ccxcvi]

Sull’altro versante, sono definiti “paesi di qillawrîah (Calabria)”: Reggio (rîyû), Massa (’al mâssah), Nicotera (n.qûtrah), Tropea (’at.rbîah) e Sant’Eufemia (śant fîmî).[ccxcvii] Da questa parte, l’appartenenza di Benevento alla Calabria, sopra ricordata, appare controversa rispetto ad un altro passo dello stesso Edrisi che menziona Amalfi, Sorrento, Benevento e Sant’Angelo dei Lombardi, confinanti con le città della Calabria.[ccxcviii]

Edrisi

Restituzione della carta di Edrisi che illustra le principali località della penisola italiana e della Sicilia (particolare).

 

Vescovati vecchi e nuovi

Accanto alla nuova organizzazione delle istituzioni civili, conseguente alla costituzione del regno, in questa fase, anche quella ecclesiatica giunse a definire una strutturazione territoriale più matura rispetto ai tempi.

Ne abbiamo riscontro verso la fine del secolo XII, attraverso il provinciale vetus di Albino dove, ai vescovati suffraganei della metropolia di Reggio menzionati precedentemente, risulta aggiunto quello di Catanzaro, mentre Rossano e Cosenza figurano entrambe come metropoli, quest’ultima con il vescovo di Martirano suffraganeo. Sempre in “Calabria”, risultavano invece immediatamente dipendenti dal pontefice romano, i vescovati di Bisignano, San Marco, Squillace e Mileto.

Significative trasformazioni risultano evidenziate da questa fonte, anche nell’ambito della metropolia di Santa Severina dove, accanto agli antichi vescovati di Umbriatico (“Hembriacensem”), di Belcastro (“Genecocastrensem”) e di Cerenzia (“Gerentinum”), compare il nuovo vescovato di Strongoli (“Stroniensem”) in luogo di quello antico di Policastro. Anche l’altro antico vescovato di Isola non compare, ma troviamo al suo posto quello “Cotroniensem”.[ccxcix]Una incongruenza giustificabile alla luce del fatto che, per quasi tutto il Medioevo, pur permanendo sempre in qualità di “civitas”, essendo una diocesi vescovile suffraganea di Santa Severina, Isola fu “casale” di Crotone e fu detta “Insula Cutroni”[ccc] o Torre d’Isola.[ccci]

Tali cambiamenti ed incongruenze, trovano significative giustificazioni in altre fonti di questo periodo, che ribadiscono le importanti trasformazioni intervenute in questa fase.

Le notitiae episcopatuum scritte in greco da Nilo Doxapatrio attorno alla metà del sec. XII, sulla base dell’antica organizzazione ecclesiastica del patriarcato Constantinopolitano, riferiscono che alla metropolia di Reggio di Calabria (ʽΡηγίου τῆς Kαλαβρίας) appartenevano tredici vescovati, tra cui quelli di Cosenza, Tauriana e Mileto (che aveva preso il posto di Vibona), mentre cinque erano i vescovati suffraganei della metropolia di Santa Severina di Calabria (Ἁγία Σεβερίνη τῆς Kαλαβρίας), ovvero “Calliopolin” (Kαλλιούπολιν), “Asyla” (Ἄσυλα), “Acerontiam” (Ἀϰεροντίαν), “et reliquas”.[cccii]

La probabile presenza di Strongoli tra questi ultimi, risulta confortata dalla testimonianza di Edrisi che, descrivendo il percorso del fiume Neto, individua la città presso la sua foce durante questo periodo: “Il nahr nîṭû (fiume Neto) scende da ’aṣṣîlâ (la Sila) a destra di ǵ.runtîah (Cerenzia) e si dirige verso levante. A sinistra di questa città esce un altro fiume (fiume Lese) che si unisce col precedente nel luogo chiamato ’al mallâḥah (“la Salina” in oggi Salina di Altilia), distante da ǵ.runtîah, che dicesi pur ǵ.ransîah (Cerenzia), nove miglia. Il Neto quindi continua il suo corso fino a che passa sotto śant samîrî (Santa Severina) lontano un miglio e mezzo, e proseguendo tra quṭrûnî (Cotrone) e ’.str.nǵ.lî (Strongoli) mette in mare.”.[ccciii]

In relazione alla sua istituzione più recente, evidenziata anche dal titolo della sua cattedrale che, in sintonia con questo periodo di passaggio alla dipendenza della Sede Apostolica romana, fu dedicata ai SS. Pietro e Paolo, il vescovato di Strongoli non risulta menzionato nella bolla di Lucio III (1183) tra quelli suffraganei dell’arcivescovo di Santa Severina dove, accanto ai vescovi di Umbriatico (“Ebriacensem”), Cerenzia (“Geretinensem”) e Belcastro (“[Geneoc]as[tr]ensem”), compaiono quelli “Giropolensem” e “Lesim[anensem]”, in ragione di una evidente falsificazione.[ccciv]

Un artificio che sembra trovare spiegazione in relazione al progressivo superamento della fase classica e altomedievale relativa all’antica Petelia che, ancora verso la metà del sec. XI, costituiva un casale (Xωρίoν Ἡ Πτελέα) appartenente alla metropolia di Reggio, annoverato tra quelli “esenti” dalla locale giurisdizione vescovile[cccv] mentre, successivamente, diverrà una città, in qualità di vescovato suffraganeo della metropolia di Santa Severina.

Un caso che trova alcune corrispondenze con quello di Isola, dove, nell’ambito di situazioni più articolate, riguardanti la difficile ricomposizione di alcuni antichi territori, riscontriamo, contemporaneamente, la dipendenza della città dall’arcidiocesi di Santa Severina, per quanto riguarda la sfera ecclesiastica, a cui fa riscontro la sua dipendenza dalla città di Crotone in qualità di casale, per quanto attiene a quella civile.

 

Gli Svevi

Dopo essere passato attraverso il dominio di Guglielmo I “il Malo” (1154-1166), figlio di Ruggero II, e quello di suo figlio Guglielmo II “il Buono” (1166-1189), alla morte di quest’ultimo (1189) senza figli, sua zia Costanza d’Altavilla ereditò il regno di Sicilia, aprendo così la fase che condusse al dominio svevo.

Attraverso una certa continuità con il periodo precedente, anche a seguito dell’avvento degli Svevi, aperta attraverso il matrimonio della regina Costanza con Enrico VI di Svevia, figlio dell’imperatore Federico Barbarossa e suo successore, l’impianto delle principali istituzioni costituite al tempo dei re normanni, pur attraverso adattamenti, continuò a permanere ed a costituire la base dell’organizzazione civile, economica e militare del territorio. A cominciare dalla suddivisione amministrativa del regno in due parti.

Sappiamo, infatti che, in periodo Svevo, il “locus calabriae” detto “petra roseti” o “porta Roseti”, posto al confine tra la Calabria e la Puglia, dove passava la via principale che collegava questi due territori,[cccvi] costituiva il termine che divideva il regno in due parti: una settentrionale che giungeva “usque Trontum”[cccvii] ed una meridionale che, giunta allo Stretto (“usque Farum”), comprendeva anche tutta la Sicilia.[cccviii]

Sotteso a questo termine, il territorio calabrese risultava suddiviso nel giustizierato di “Vallisgratae”, che giungeva fino al corso del fiume Crati, da cui iniziava quello di “Terrae Jordanae”[cccix] che, lungo il versante ionico, comprendeva tutto il Crotonese ed il Catanzarese, fino al confine con il territorio di Squillace,[cccx] da cui iniziava il giustizierato di “Calabriae”.

 

La terra Giordana

L’esistenza di un territorio detto di “terre Iordanis”, distinto da quello di Valle Crati, dal quale si distinguevano anche i territori detti della valle di “Sinni” e della “vallis Layni”, comincia ad essere documentata agli inizi del periodo svevo, quando compare uno specifico giustiziere deputato ad amministrarvi giustizia.

Nell’anno 1194/95, detenendo anche diversi altri uffici, “Lambertus” risulta infatti “Iusticiarius tocius Calabrie sinni et Layni et terre Iordanis”[cccxi] mentre, nello stesso periodo, relativamente ad un ufficio la cui giurisdizione era estesa all’intero territorio calabrese, “Bartholomei de Lucy” risulta mastro giustiziere di “tocius Calabrie”.[cccxii]

L’attività degli ufficiali regi addetti all’amministrazione della giustizia in Calabria, durante questo primo periodo del regno svevo, è documentata da altri atti.

I giustizieri “Guillelmus de Bisianiano, et Alexander filius Guillelmi”, compaiono in qualità di “regii vallis Gratis justitiarii” nel 1199. Incarico che avevano precedentemente ricoperto anche “Rogerio filio Johelis” e “Simeone de Mamistra”, quest’ultimo detenendo più uffici, in qualità di “justitiario vallis Gratis, vallis Signi, et vallis Layni”.[cccxiii]

Il regio giustiziere Guglielmo di Bisignano compare anche successivamente, in un atto del 1209: “Instrumentum donationis factae per Guglielmum de Bisiniano regium iusticiarium fratri Mattheo Veneri abbati Florensi unius casalini in civitate Cosentiae, in anno 1209.”.[cccxiv] In un atto del marzo 1200, l’illustre Simone de Mamistra risulta invece mastro giustiziere di “Calabriae”,[cccxv] mentre sappiamo che il conte di Crotone Stefano Marchisorto, detenne l’ufficio di capitano e di “magister iusticiarius Calabriae” nel periodo 1214-1216.[cccxvi]

 

Greci e latini

I documenti relativi agli inizi del dominio svevo, evidenziano che anche dopo l’istituzione del giustizierato di Terra Giordana, il territorio Crotonese e quelli vicini, pur ricadendo nell’ambito di tale ripartizione, per un certo tempo continuarono ad essere identificati in “Calabria”.[cccxvii]

Ciò in relazione alla loro antica identità etnica e religiosa che, pur avviata a disgregarsi ed a omologarsi a quella latina, persisterà ben oltre il periodo della dominazione sveva.

Agli inizi del Duecento, infatti, la lingua ed il rito greco nel Crotonese, anche se minacciati dalle nuove istituzioni politico-religiose, mantenevano ancora la loro forza, rappresentando i tratti caratteristici di una particolare identità e di una specifica appartenenza, dalla quale discendevano usi propri e specifici diritti della popolazione. In particolare quelli che riguardavano il governo locale.

Come leggiamo nella decretale di Innocenzo III del 6 febbario 1198, nella quale è riferito che i canonici componenti il capitolo della cattedrale di Santa Severina, parlavano ed officiavano in greco: “Cum igitur in ecclesia vestra, quae sub obedientia sedis apostolice perseverans, Graecorum hactenus et ritum servavit et linguam”, mantenendo i loro antichi diritti, tra cui quello che consentiva loro di eleggere il proprio vescovo. Identità e prerogative però, che cominciavano ad essere contrastate.

Proprio in questa occasione, infatti, il Capitolo si era rivolto al papa chiedendone l’intervento, al fine di rimuovere un vescovo imposto “per laicalem potentiam” dallo scomunicato senescalco imperiale Marcovaldo che, agendo senza l’autorità e l’elezione da parte dei canonici, aveva insediato sul trono vescovile di Santa Severina, un pastore latino definito “barbarus” ed “intrusus”. Accogliendo le richieste del Capitolo, il papa concedeva ai canonici la libertà di eleggere un nuovo pastore, secondo gli statuti e l’antica consuetudine della chiesa di Santa Severina[cccxviii] e qualche giorno dopo (9 febbraio 1198), scriveva alla regina Costanza d’Altavillla, affinché non frapponesse ostacoli.[cccxix]

A quel tempo, i canonici di Santa Severina che, al pari degli altri ecclesiastici della città, non osservavano il vincolo del celibato[cccxx] e che, in relazione alla loro importanza, possedevano la prerogativa riservata solo a vescovi ed abati, di portare la mitra,[cccxxi] costituivano il governo della diocesi, ed intervenivano nelle decisioni più importanti assunte dall’arcivescovo, in quanto questi poteva agire e prendere le decisioni, solo “cum consensu et voluntate capituli” e “cum consilio et consensu totius capituli”, come testimoniano alcuni documenti riguardanti la fondazione del monastero cisterciense di Sant’Angelo di Frigillo, al tempo dell’arcivescovo di Santa Severina Bartolomeo.[cccxxii]

La presenza di un clero di rito greco è ancora documentata a Catanzaro alla fine del Trecento[cccxxiii] mentre, ancora in età moderna, gli arcivescovi di Santa Severina, conservavano il diritto si spoglio nei confronti dei propri suffraganei.[cccxxiv]

 

L’abbazia Florense

In tale quadro dove quel che restava dell’antico mondo greco-bizantino, ancora ben radicato nella parte meridionale della regione, conviveva accanto alla ormai irreversibile penetrazione latina che filtrava attraverso la sua porzione più settentrionale, questi primi anni della dominazione sveva, testimoniano di un importante intervento della corona nel Crotonese.

Verso la fine del sec. XII, infatti, presso il confine silano della Valle Crati, fu fondato il monastero di San Giovanni in Fiore che, secondo i documenti più antichi, si trovava eretto “in tenimento Sile”, ovvero nel “tenimentum in Sila Calabriae, in qua eorum monasterium situm est”,[cccxxv] dove l’abbate Gioacchino aveva realizzato “quoddam receptaculum” per il rifugio dei suoi frati, “in loco qui dicitur Caput Album in extrema parte Silae, quae adjacet civitati Cusentinae”.[cccxxvi] Luogo che si trovava “in frigidissimis Sylae finibus”.[cccxxvii]

Questa nuova fondazione latina andò ad influire profondamente sulla vita dei monasteri più antichi e degli altri abitati greci presenti in quest’area. Nell’ambito della sua attività economica, infatti, i regnanti svevi assegnarono al monastero di Fiore, non solo diritti e possedimenti nell’ambito silano, ma anche “per totam Calabriam”, come evidenziano già i primi privilegi concessi all’abate Gioacchino, più volte riconfermati.

Ciò risulta, ad esempio, riguardo il diritto di pascolo che questi privilegi assegnavano all’abbazia nell’ambito del tenimento di “Fluca” posto “in maritima Calabriae”, presso la confluenza dei fiumi Vitravo e Neto, “et aliis tenimentis tam demani nostri, quam aliorum, quae sunt per totam Calabriam, tam scilicet in terris cultis et incultis, quam nemoribus et silvis absque glannatico et herbatico.”.

Il diritto dei Florensi si estendeva per privilegio anche sulle saline di “Calabriae” presso il fiume Neto, dove era concesso loro di prendervi il sale senza alcun impedimento o esazione, e di poterlo vendere ed acquistare “absque theleonatico, plateatico et passagio”.[cccxxviii]

Nell’ambito dei larghi favori dati ai Florensi dai privilegi regi già in antico, fu anche concesso loro e più volte riconfermato, di poter “cavare et percipere meneras ferri, per omnes meneras Calabriae”, mentre nel caso fossero state rinvenute nuove miniere nei tenimenti del monastero, queste sarebbero potute rimanere nel suo possesso perpetuo.[cccxxix]

Tali concessioni che, in relazione alle attività economiche condotte dall’abbazia, erano incentrate sullo sfruttamento delle risorse montane del territorio silano, ma comunque collegate ed estese a quelli limitanti, determinarono spesso dispute tra i Florensi ed i loro vicini. Occasioni in cui risulta che già nei primi anni di vita, l’abbazia ricadeva nella giurisdizione del giustiziere di Valle Crati.

Come si rileva già nel giugno del 1199, quando “Guillelmus de Bisianiano, et Alexander filius Guillelmi regii vallis Gratis justitiarii”, sentenziarono in merito alla richiesta dell’abate Gioacchino che lamentava i danni arrecatigli dai monaci del monastero dei SS. Trium Puerorum e dagli uomini di Caccuri che, a mano armata, avevano attaccato i suoi monaci che custodivano le pecore ed avevano invaso il suo monastero suffraganeo “quod dicitur de Bono Ligno”, distruggendo le “officinas ipsius monasterii” e saccheggiando i suoi beni.

In precedenza, per avere giustizia nel merito della questione che riguardava la contesa di questi beni, l’abate aveva richiesto l’intervento dei “justitiarii Cusentini” che però, né erano venuti, né avevano fatto cessare le invasioni. Richiesta simile era stata fatta in tal senso, anche dal “comite Raynero Marchisorte dicti temporis calabriae Capitaneo”, senza però che i facinorosi cessassero le violenze. L’abate era quindi dovuto ricorrere ai giustizieri di Valle Crati ed al dominus Simeone de Mamistra “capitaneo, et magistro comestabulo, atque justitiario vallis Gratis, vallis Signi, et vallis Layni”.[cccxxx]

Pur confermando questa situazione, altri documenti, pongono in risalto come l’abbazia occupasse comunque una delicata posizione di confine, tra il territorio di Valle Crati gravitante sulla città di Cosenza ed sui suoi casali, e quello di Calabria posto oltre questi confini. Una presenza duramente avversata dai monaci dei monasteri vicini e dagli altri abitanti dell’area che, evidentemente, si facevano forti di precedenti diritti.[cccxxxi]

Come si evidenzia in un atto del giugno 1221, quando, in occasione di alcune usurpazioni riguardanti, tra l’altro, i possedimenti ed i pascoli del monastero Florense che erano stati invasi specialmente dai monaci “de Patyro”, mentre altri “de Calabria et Vallis Gratis”, agendo in danno del monastero “faciunt furnos picis, fractas et venationes alias”, Federico II ordinava ai “Iusticiariis et camerariis Calabriae et Vallis Gratis”, d’intervenire per far rispettare i diritti dei Florensi.[cccxxxii] L’intervento degli ufficiali che agivano nei due diversi territori, si riscontra anche in seguito. Il 19 agosto 1222, dall’accampamento di Jato, Obizo arcivescovo di Cosenza e Biagio vescovo di Cassano, autenticavano la trascrizione di un atto di Federico II, attraverso cui il sovrano, rivolgendosi ai “Magistris iusticiariis et camerariis Calabriae et Vallis Gratis”, li ammoniva affinchè fossero rispettati i privilegi da lui concessi al monastero ed a questo confermati dai pontefici romani, senza pretendere di trarlo “ad civile forum”.[cccxxxiii]

 

In potere dell’imperatore

L’assetto del territorio Crotonese rimase inalterato anche durante i primi anni seguenti all’ascesa di Federico II alla corona imperiale, quando continuò ad appartenere al giustizierato di Terra Giordana.

L’appartenenza del Crotonese alla giurisdizione dei giustizieri di “Terrae Iordanae” o “Terrae Iordani”, è documentata da un atto del gennaio 1223, quando troviamo “Iohanne Nicolao e Bartholomeo de Logotheta imperialibus iusticiariis Terrae Iordanae”, constituiti nell’esecuzione del loro ufficio “in Psychro” (Cirò), dove si presentò “frater Belprandus” per parte del venerabile abate e degli altri suoi confratelli del monastero Florense, portando con sé la lettera di Federico II data in Cosenza il 4 novembre 1222 ed indirizzata ai “Iusticiariis Terrae Iordani”, che fu trascritta in questo documento.[cccxxxiv]

Durante la prima metà del Duecento, le principali suddivisione amministrative del territorio calabrese, corrispondenti a quelle di quest’ufficio, possono essere apprezzate attraverso la giurisdizione assegnata ai giustizieri menzionati in alcuni atti di questo periodo, che spesso ne detenevano più d’una e spesso passavano da una all’altra.

Emblematico è il caso del giustiziere Alessandro di Policastro, che detenne questo ufficio già nel 1215[cccxxxv] e che, in seguito, compare prima in qualità di giustiziere della contea di Catanzaro (1222)[cccxxxvi] e poi, di giustiziere imperiale di Calabria e Terra Giordana (1226)[cccxxxvii] mentre, successivamente, fu “imperialis iusticiarie Calabrie et Vallis Gratis” (1230).[cccxxxviii]

L’ufficio di giustiziere ricoperto dall’ormai “quondam” Alessandro, è ricordato ancora nel 1240, al tempo in cui Tholomeo de Castellione era “justitiario vallis Gratis et terre Jordane.”.[cccxxxix]

In tale frangente, però, il giustizierato di Valle Crati e quello di Terra Giordana, erano stati precedentemente uniti sotto la giurisdizione di un unico giustiziere.

Nell’ambito del processo descritto ed ormai avviato, che perseguiva l’assimilazione della Calabria greca da parte della sua porzione latina, a seguito della promulgazione delle c.d. Costituzioni di Melfi (1231) da parte di Federico II che, in questa occasione, tra l’altro, definì funzioni e competenze, nonché estensioni dei giustizierati,[cccxl] il territorio di Calabria[cccxli] che, dallo Stretto giungeva “ad portam Roseti”,[cccxlii] risultò suddiviso in due distinte provincie: una corrispondente al territorio appartenente alla giurisdizione del giustiziere di Calabria, l’altra che univa i territori di Valle Crati e di Terra Giordana nell’ambito di un secondo giustizierato.

Come risulta evidenziato già nel gennaio del 1234 quando, in merito alle modalità di congregazione della curia, che avrebbe dovuto riunirsi due volte all’anno “per singulas provincias regni nostro”, era stabilito che nel caso di quelle di “Calabria, terra Giordani et vallis Cratis”, i partecipanti si congregassero “apud Consentiam”.[cccxliii]

Una situazione che, nell’ambito della provincia costituita dei territori di “valle Gratis” e di “terram Jordanem”,[cccxliv] trovò agire il “Iusticiario Vallis Gracie (sic) et Terre Iordane”, come testimonia un atto del 3 gennaio 1238, riguardante un relevio feudale relativo ad alcuni villani in Santa Severina,[cccxlv] e come risulta in occasione della ripartizione tra i baroni del regno dei prigionieri lombardi fatta nel dicembre dell’anno dopo, quando questi ultimi risultano elencati, distintamente, “in justitiariatu Calabriae” ed “in justitiariatu vallis Gratis et terre Jordane”.[cccxlvi]

Nell’ambito di quest’ultimo ricadeva anche Genicocastro. Nel 1240, in occasione di una contoversia riguardante un feudo posto in territorio di Genicocastro, rileviamo che in questa occasione agì Tholomeo de Castellione “Iustitiario Vallis Gratis” mentre, precedentemente, lo aveva fatto G. de Montefusculo “Tunc temporis justitiarius Vallis Gratis, ut videtur”.[cccxlvii]

 

La Sila di Cosenza

Rispetto agli antichi documenti che, al tempo della formazione del tenimento dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, ne riferiscono l’ubicazione nella Sila di “Calabriae”, con evidente riferimento ai luoghi che, in epoche più antiche di quella in cui fu fondata l’abbazia, dovevano essere stati nel dominio dei monasteri greci che sorgevano alle falde dell’altopiano, gli atti della prima metà del Duecento evidenziano, invece, che il tenimento dell’abbazia costituiva una pertinenza della “Sylae de Cusentia”.

Nella Sila di Cosenza, presso il fiume Ampollino ed i confini dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, si trovava anche il tenimento di “Sanduca”, che i Normanni avevano anticamente concesso all’abbazia di Calabromaria.

Rispetto ai riferimenti che emergono in queste prime concessioni, che noi però possediamo solo attraverso una trascrizione settecentesca degli antichi privilegi tradotti dal greco in latino il 2 dicembre 1253, dove il tenimento di “Sanduca” risulta genericamente individuato “in Sila” o “apud Silam”,[cccxlviii] in una memoria cinquecentesca senza datazione, che riporta alcuni passi della conferma dei possedimenti fatta all’abbazia da papa Gregorio IX nel 1227, si legge: “Confirmamus dictum Tenimentum in Sila Cosensiae quod Sanduca dicitur prope flumen Ampolini, cum pratis, et vineis, terris, nemoribus, …”. Nello stessa memoria si specifica ancora: “Donatio sup(radi)ttorum bonorum, et aliorum non descriptarum fuit fatta Monast.o dictae Abbatiae et sig(nant)er dicti territorii positi in Sila Cosensiae à Rege Rugerio p.o Rege Neapolis sub anni 1129 ut apparet ex privilegio grece scripto, et in latino traducto, quod Privilegium fuit confirmatum et ampliatum ab Imperatore Federico Rege Siciliae in anno 1221 …”.[cccxlix]

L’appartenenza del territorio dell’abbazia di San Giovanni in Fiore alla Sila di Cosenza, risulta evidenziata al tempo in cui i conti di Catanzaro entrarono in possesso del feudo di Policastro, il cui territorio penetrava profondamente nella montagna della Sila.

In alcuni atti relativi ad una lunga lite sorta tra l’abbazia di San Giovanni in Fiore ed i conti di Catanzaro, riguardante il tenimento di “Ampulinus”, posto presso i confini del territorio abbaziale, s’evidenziava, infatti, come i monaci rivendicassero il tenimento conteso nelle pertinenze della “Sylae de Cusentia”, opponendosi ai conti di Catanzaro che, invece, lo dichiaravano ricadente nel territorio del loro feudo di Policastro.

I procuratori dell’abbazia evidenziavano come, le ingiuste pretese della loro parte avversa, poggiassero sul fatto che, il “tenimentum in libello designatum, quod dicit esse in pertinentiis Policastri et ignorat ipsum tenimentum esse in pertinentiis Cusentiae”. Tale situazione aveva già portato a redigere un “instrumentum” nel luglio del 1253 quando, in occasione di un arbitrato, era stata pronunciata una sentenza in favore del comitato di Catanzaro, rappresentato da “domino Riccardum Gactum procuratorem comitatus Catanzarii per dominum Petrum Ruffum”, contro l’abbate ed il convento di San Giovanni in Fiore.[cccl]

L’appartenenza del territorio dell’abbazia alla giurisdizione del giustieziere di Valle Crati e Terra Giordana, si evidenzia nel maggio 1248, in Cosenza, quando “Raynonus de Misiano imperialis magister camerarius Vallis Gratis, et Terrae Iordanae”, insieme con “domino Riccardo de Neocastro”, ricognirono i beni del monastero al fine di accertare i diritti fiscali dovuti al loro ufficio. In questa occasione l’abbate ed il convento del monastero di Flore, essendosi rifiutati di contribuire per “quedam lignamina galearum”, erano stati citati ed erano comparsi in giudizio innanzi alla curia imperiale, mostrando i privilegi “et alia iura eorum”, che comprovavano i loro diritti. In questa occasione essi mostrarono anche la lettera data loro precedentemente dal dominus Matteo Marclafabe. In questa lettera il detto Matteo “imperialis doanae de secretis et questorum magister”, rivolgendosi ai “camerariis, procuratoribus demaniis, collectoribus lignaminum, baiulis” ed a tutti gli “officialibus per Calabriam, Vallem Gratis et Terram Iordanam”, affermava che il monastero Florense con le sue grangie e dipendenze, godeva di ampi privilegi da parte della curia imperiale ed era esente dalla contibuzione del legname e da ogni servizio feudale.[cccli]

 

Nel regno di Napoli

Le vicende che condussero gli Angioini a stabilire il dominio della loro dinastia nell’Italia meridionale, ebbero per la Calabria importanti ricadute da un punto di vista territoriale generale, considerato che la loro azione, determinò il distacco della Sicilia dalla parte continentale del regno. Per i Calabresi, infatti, ciò produsse l’inversione della polarità geografico-politica precedentemente esistente, facendoli passare dall’appartenenza al regno di Sicilia con capitale Palermo, a quella del regno di Napoli.

Tale appartenenza, inizialmente, non determinò modifiche dell’assetto amministrativo del nuovo regno che, durante il primo periodo conseguente all’affermazione di Carlo I, dopo la sconfitta e la morte di Corradino (1268), conservò per un certo periodo l’impianto precedente. Successivamente, invece, durante gli anni della c.d. Guerra del Vespro, il sovrano intervenne nel modificare l’assetto esistente, probabilmente per ragioni di opportunità politica legate alle necessità strategico-militari di questa guerra.

Fu così che nelle imminenze del conflitto, il territorio del giustizierato o provincia di Valle Crati e Terra Giordana[ccclii] fu ridimensionato dal sovrano, in favore di quello di Calabria.[cccliii]

Il 13 febbraio 1280, re Carlo d’Angiò, notificava a Goffrido de Sumesot, giustiziere di Valle Crati e Terra Giordana, l’aggregazione al giustizierato di Calabria, di alcune terre precedentemente appartenute alla sua giurisdizione, ovvero: Catanzaro, Taverna, Sellia, Simeri, Genicocastro e Mesoraca con i loro casali, Policastro, Tacina, Le Castella, Roccabernarda, Santa Severina con i casali, San Giovanni Monaco e Crotone con i casali.[cccliv]

Se ne fa menzione anche il 17 aprile di quell’anno, quando “Re Carlo rimuove dall’ufficio di Giustiziere di Calabria Roberto di Richeville e vi nomina in sua vece Geberto de Herville, aggiungendo all’antico Giustizierato tutto quel tratto di paese che sta dal fiume Neto al fiume Gattino”.[ccclv] Quest’ultimo forse individuabile con il corso del fiume Ghetterello che attualmente scorre nel territorio di Squillace.

Sempre relativamente a questi ultimi anni del secolo, sappiamo che il confine settentrionale del territorio di Terra Giordana continuava ad essere rappresentato dal corso del fiume Crati, come si evidenzia nel 1294 a riguardo di “Ameraco de Possiaco milite, padrone di Strongolo, regio capitano e giustiziero della Calabria ‹‹et Terrae Joardanae usque ad flumen Gratis, nec non secreto» maestro portulano e procuratore e maestro del sale di tutta la Calabria.”.[ccclvi]

 

Lungo il fiume Neto

I cambiamenti apportati da questi provvedimenti, si riscontrano attraverso alcuni documenti degli inizi del Trecento quando, nell’ambito del territorio del ducato di Calabria, esistevano due distinte provincie coincidenti con i due giustizierati sottoposti, rispettivamente, al giustiziere di Calabria ed a quello di Valle Crati e Terra Giordana.[ccclvii]

Una situazione che, per quanto riguarda il Crotonese ed i particolari aspetti legati alla sua natura di terra di confine, può essere evidenziata attraverso le vicende di alcuni possedimenti del monastero di San Giovanni in Fiore posti lungo il corso del fiume Neto, che costituiva il confine tra queste due provincie.

Come testimonia agli inizi del secolo, una controversia riguardante il territorio di “Fiuca” o “Fluce” posto presso la foce del fiume, sulla quale sentenziarono in Cirò, il giustiziere di Valle Crati e Terra Giordana ed i suoi giudici,[ccclviii] e come si rileva in una “regales patentes litteras”, data in Napoli 20 giugno 1331 e trascritta in un atto del 16 agosto di quell’anno, dove la grangia di Santa Maria della Terrata, posta in territorio di Rocca di Neto ed alla sinistra idrografica del fiume, risultava appartenere al giutizierato di Valle Crati e Terra Giordana.

In questa occasione, re Roberto, rivolgendosi ai “comes generalibus capitaneis utriusque provinciae Calabriae et iustitiariis Vallis Gratis et Terrae Iordanae”, ordinava loro di fare giustizia in merito a quanto aveva appreso da parte di “Guillelmi abbatis monasterii Sancti Iohannis de Flore de dicta provincia”, ed in relazione alla situazione di “quadam grancia, quae Terrata dicitur” appartenente a detto monastero, che si trovava “in iusticieratu Vallis Gratis et Terrae Iordanae”.[ccclix]

In relazione alla presenza di zone estrattive, evidentemente poste in corrispondenza di entrambe le sponde del fiume, meno definita doveva apparire invece la situazione relativa all’appartenenza della salina di Neto. Come risulta attraverso un atto del 5 gennaio 1346, quando il re Ludovico e la regina Giovanna I, rivolgendosi ai “Vicemgerenti nostro in partibus Siciliae ac toto Ducato Calabriae ac iustitiariis Calabriae et Vallis Gratis et secretis ducatus eiusdem necnon quibuscumque perceptioribus iurium, reddituumet proventuum salinae Neti de tenuta Sanctae Severinae”, intervennero affinchè non fossero frapposti ostacoli all’abbate Petro ed al convento del monastero di Fiore in merito alla riscossione dei 50 bisanzi d’oro sopra le entrate della detta salina, concessa dai loro antecessori re di Sicilia e da loro confermata.[ccclx]

Una situazione controversa che doveva caratterizzare anche i possessi dei Florensi e quelli delle loro dipendenze, posti lungo il confine tra i due giustizierati che correva lungo la media valle del fiume. Come evidenziano un gruppo di documenti stipulati in occasione dei danni subiti dai monaci di Flore, da parte del signore feudale di Caccuri e dei suoi vasalli, i quali avevano occupato i beni del monastero, commettendo violenze e sopprusi che, in particolare, avevano interessato i possedimenti i “Sanctae Mariae Novae positi intra tenimentum dicti monasterii Florensis cum grancia de Berdò, posita prope terram Caccuri”. In queste occasioni, il re Ludovico e la regina Giovanna I, intervennero attraverso i loro “magnificis viris vicemgerentibus nostris in insula Siciliae et ducatu Calabriae, necnon iustitiariis Vallis Gratis et Terrae Iordanae, consiliariis et fidelibus nostris”,[ccclxi] ma anche chiamando in causa i “iustitiariis Calabriae”.[ccclxii]

 

I confini silani

Al tempo di re Roberto d’Angiò (1309-1343), un atto del 24 dicembre 1333, prodotto in funzione di salvaguardare i diritti della corona e sulla base dei documenti conservati nei regi archivi di quel tempo, ci fornisce una ricognizione dei confini silani del tenimento di Cosenza, evidenziando come il “tenimentum, seu territorium Silae de ducatu Calabriae”, “quae fore noscitur de maero nostro demanio et antiquo”, fosse interamente compreso entro i confini del tenimento di Cosenza.

Questi limiti del “tenimentum Cosentiae, in quo est Sila”, risultavano: “incipit a fluminis Arentis et ascendit per Sanctum Maurum de Sifonatis, et vadit ad flumen de Ponticellis, et ascendit ipsum flumen, et vadit ad flumen Mucconis et ascendit per ipsum vallonem Mucconis et vadit ad flumen de Melissa, et ascendit per ipsum flumen ad Petram de Altari, quae est supra Longobuccum, et vadit ad ripam Russam at ab inde vadit ad serram de Pimeriis et vadit ad vallonem de Afari in confinio Campanae et descendit per ipsum vallonem usque ad flumen de Laurenzana, et ascendit per ipsum flumen ad serram de Minera, et vadit ad serram de Alessandrella et ascendit ad locum dictum ortum de Menta, et abinde vadit ad Sanctum Nicolaum de Parnice, et vadit per viam Nicolai Laurenzana, et exinde vadit ad portum et descendit usque ad flumen Neti, et ascendit ad Hominem mortum supra Cutroneos et ab inde descendit ad flumen Tacinae, et ascendit et ferit ad Petram scriptam supra Policastrum, et ferit ad Petram irtam et vadit ad Petram de Duo et exinde vadit ad Petram de Diacono, et ferit ad Serram de Morone, et vadit ad Serram de Paludara et abinde vadit ad Serram de Piro et vadit ad Serram de Bibulo.”.

All’interno dei confini di questo territorio (“tenimentum Silae”), in cui si trovava il tenimento dato dall’imperatore Enrico VI al monastero di Fiore, la regia corte deteneva diversi diritti (“ius plateatici, herbagii, affidature animalium extraneorum, glandagii et ius picis”), al cui pagamento non rimanevano soggetti gli “hominibus Cosentiae et casalium suorum”. La regia corte deteneva anche il diritto di esigere la “decima victualium” sulle miniere di ferro in qualunque parte della Sila, mentre gli antichi monasteri greci del Patire e di S.to Adriano, pur continuando a poter usare i pascoli silani all’interno dei confini menzionati, erano tenuti a pagare annualmente ai baiuli della Sila due oncie e 4 capre per ogni mandra introdotta.[ccclxiii]

 

I Ruffo “de Calabria”

Il 18 ottobre 1390, re Ladislao di Durazzo concedeva il titolo di marchese di Crotone a Nicola Ruffo, primogenito di Antonello conte di Catanzaro.[ccclxiv]

Attraverso tale atto, la vasta signoria dei Ruffo, compostasi durante il corso dei sec. XIII-XIV, che comprendeva territori posti tanto alla destra che alla sinistra del corso del fiume Neto, in questo periodo confine tra le provincie di “calabria citra et ultra”, unificò in poche mani, un vasto comprensorio di terre costituito da seminativi e da terre pascolative che, dalla Sila, giungeva sino alla marina.

Da quanto risulta posteriormente, attraverso l’atto di papa Martino V, relativo alla conferma dei possessi del marchese (11.07.1426), a quel tempo il “nobilis vir Nicolaus Ruffus Marchio Cotronis”, possedeva la città Crotone, con il titolo di marchese e quella di Catanzaro, con il titolo di conte, assieme ai rispettivi marchesato e comitato, Cirò con le pertinenze di Alichia, Melissa, il feudo di S.to Stefano, le terre di Policastro, Roccabernarda, Mesoraca, Le Castella, Tacina, San Mauro, Rocca Falluca, Gimigliano, Tiriolo, i casali di Cutro, San Giovanni Monaco, Papanice, Cromito, Aprigliano, Mabrocolo, Misicello, Lachano, Crepacore, Massanova e Torre d’Isola, ed ancora, tra le altre, Barbaro con Cropani e la terra di Taverna.[ccclxv]

Sempre a quel tempo, Cariati, Scala, Verzino, Rocca di Neto, Campana, Bocchigliero, Cerenzia e Caccuri, facevano parte dei feudi che, dopo la morte di Carlo II Ruffo, conte di Montalto, avvenuta nel 1414, erano pervenuti alla figlia Polissena. Possessi che nel 1417, le furono confermati dalla regina Giovanna II.[ccclxvi]

In seguito, “Covella Ruffo, erede della sorella Polissena, ebbe la città di Umbriatico, la terra di Casabona, Rocca di Neto, la città di Cerenzia con la salina di Miliati, la terra di Caccuri con il diritto di plateatico e con le saline di S. Giorgio e la terra di Verzino”.[ccclxvii]

 

NOTE

[i] Virgilio, Aeneidos I, 530-533.

[ii] “Alle falde delle Alpi inizia quella che ora si chiama Italia.” (Strabone, Geografia V, 1, 1).

[iii] “La parte restante dell’Italia, poi, è stretta e allungata e termina con due punte una delle quali finisce allo stretto di Sicilia, l’altra al capo Iapigio; essa è abbracciata dell’Adriatico da una parte, dal mar Tirreno dall’altra.” (Strabone, Geografia V, 1, 3).

[iv] Servio, Ad Aeneidem III, 400.

[v] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Bρέττος.

[vi] “Gli antichi, infatti, chiamavano col nome di Italia l’Enotria, che si estendeva dallo Stretto di Sicilia fino al Golfo di Taranto e di Posidonia; poi il nome prevalse e si estese fino alle falde delle Alpi. (…) Si può supporre che i primi a chiamarsi Itali, grazie alla loro prosperità, fecero partecipi di questo nome anche i popoli confinanti e continuarono ad estenderlo fino all’epoca della conquista romana. Più tardi, dopo che i Romani ebbero concesso il diritto di cittadinanza agli Italici, essi decisero di concedere lo stesso onore anche ai Galli cisalpini ed ai Veneti e di chiamare tutti Italici e Romani;”. (Strabone, Geografia V, 1, 1).

“Antioco, nella sua opera Sull’Italia, dice che la suddetta regione si chiamava Italia e che su essa verteva la sua trattazione: prima però, era chiamata Enotria. Egli ne dà come confine dalla parte del Mar Tirreno lo stesso che abbiamo indicato per la Lucania, vale a dire il fiume Laos; dalla parte del mar di Sicilia, Metaponto. Considera esterna all’Italia la regione tarantina, contigua a Metaponto, chiamando i suoi abitanti Iapigi. Antioco dice inoltre che, in età ancora più antica si chiamavano Enotrî ed Itali solo quelli che gravitavano sullo Stretto di Sicilia, all’interno dell’istmo.” (Strabone, Geografia VI, 1, 4).

[vii] “Avendo già descritto la regione dell’antica Italia fino a Metaponto, devo ora parlare delle regioni immediatamente vicine. Subito confinante con essa c’è la Iapigia; i Greci la chiamano anche Messapia, mentre la popolazione autoctona chiama terra dei Salentini la parte intorno al Capo Iapigio, Calabria tutto il resto. Al di sopra di questi , procedendo verso settentrione, si trovano i popoli chiamati in greco Peucezî e Dauni. La popolazione del posto, invece, dà a tutto il territorio che viene dopo la Calabria il nome di Apulia. (…)” (Strabone, Geografia VI, 3, 1).

“La terra a cui si gira intorno andando da Taranto a Brentesion assomiglia ad una penisola; l’itinerario interno da Brentesion fino a Taranto, è percorribile da un corriere in un solo giorno di cammino e forma l’istmo della suddetta penisola. La maggior parte della gente chiama quest’ultima con il nome generale di Messapia, oppure Iapigia, oppure Calabria o anche Salentina, sebbene alcuni distinguano più parti, come ho già detto in precedenza. (…)” (Strabone, Geografia VI, 3, 5).

[viii] Strabone, Geografia VI, 1, 1.

[ix] Strabone, Geografia VI, 1, 4.

[x] Strabone, Geografia VI, 1, 2.

[xi] Strabone, Geografia V, 3, 1; “I Lucani sono di stirpe sannitica” (Strabone, Geografia VI, 1, 3).

[xii] Strabone, Geografia VI, 1, 2.

[xiii] “Praeter Petelinos Brutti omnes”, Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXII, 61. “Eodem tempore Petelinos, qui uni ex Bruttiis manserant in amicitia Romana”, Ibidem, XXIII, 20. “Petelia in Bruttis”, Ibidem XXIII, 30.

[xiv] Appiano, Annibalica, 57.

[xv] Strabone, Geografia VI, 1, 3.

[xvi] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 41.

[xvii] Attianese P., La Monetazione dei Brettii, 2015.

[xviii] Strabone, Geografia V, 3, 6; 4, 10; VI, 3, 1; 3, 5-8; 3, 10.

[xix] Procopio di Cesarea, De bello Gothico II, 15; IV, 20. Ed. Comparetti D., La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, voll. 3, Roma 1895, 1896, 1898, in Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano.

[xx] Trumper J. B., Geostoria Linguistica della Calabria, 2016, p. 48.

[xxi] Nelle fonti troviamo: “Est ergo folio maxime querno adsimulata, multo proceritate amplior quam latitudine, in laevam se flectens cacumine et Amazonicae figura desinens parmae, ubi a medio excursu Cocynthos vocatur, per sinus lunatos duo cornua emittens, Leucopetram dextra, Lacinium sinistra.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 43. “De Italia magis quia ordo exigit quam quia monstrari eget, pauca dicentur: nota sunt omnia. Ab Alpibus incipit in altum excedere, atque ut procedit se media perpetuo iugo Appennini montis adtollens, inter Hadriaticum et Tuscum sive, ut aliter eadem adpellantur, inter Superum mare et Inferum excurrit diu solida. Verum ubi longe abiit, in duo cornua finditur, respicitque altero Siculum pelagus, altero Ionium: tota angusta et alicubi multo quam unde coepit angustior.” Pomponio Mela, Chorographia, II, 51. “Hucusque Hadria, hucusque Italiae latus alterum pertinet. Frons eius in duo quidem se cornua, sicut supra diximus, scindit: ceterum mare quod inter utraque admisit tenuibus promunturiis semel iterumque distinguens non uno margine circumit, nec diffusum patensque sed per sinus recipit.” Pomponio Mela, Chorographia, II, 60.

[xxii] Strabone, Geografia VI, 1, 4.

[xxiii] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XVI, 15, 1-2.

[xxiv] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Bρέττος, dove si ricorda “l’oscura, orribile lingua Brettia” (μέλαινα δεινὴ γλῶσσα Bρεττία παρῆν).

[xxv] “Itaque fatigatus querelis sociorum Dionysius, Siciliae tyrannus, sexcentos Afros ad conpescendos eos miserat; quorum castellum proditum sibi per Bruttiam mulierem expugnaverunt ibique civitatem concurrentibus ad opinionem novae urbis pastoribus statuerunt Bruttiosque se ex nomine mulieris vocaverunt.” Giustino, XXIII, 1, 11-12.

[xxvi] Tito Livio, Ab Urbe Condita, VIII, 24.

[xxvii] “Ed altri intanto giungeranno sulle inaccessibili alture della Sila e sul promontorio di Lino che alto si protende nel mare – regione posseduta da una Amazone – e accoglieranno il giogo di una donna di condizione servile. Lei condurranno le onde, errabonda, in straniera contrada, lei, serva di quella indomita vergine che va tutta coperta di bronzo, e cui, nell’atto di esalare l’estremo spirito, sarà strappato un occhio, che costerà la vita ad un Etolo pernicioso, brutto come una scimmia; il quale dall’asta ancora calda di sangue sarà passato da una parte all’altra. Un giorno, in vero, distruggeranno la città dell’Amazone i Crotoniati, uccidendo la regina che porta il nome del suo paese; ma molti pria cadranno sotto i colpi di lei mordendo coi denti la terra, né senza affanno abbatteranno le torri quei nepoti di Laureta.” Licofrone, Alexandra vv. 993-1007.

[xxviii] Schol. Vet. ad Lycophronem, Alexandra, v. 996; Etymologicum Magnum 517, 54.

[xxix] Attianese P., La Monetazione dei Brettii, 2015.

[xxx] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Ἀβρεττηνή.

[xxxi] Iordanes, De origine actibusque Getarum, XXX, 156.

[xxxii] Paulo Diacono, Historia Langobardorum II, 17; MGH Hannoverae 1878, p. 98.

[xxxiii] “L’entroterra di questa città [Locri] è occupato dai Brettî; vi si trovano la città di Mamertium e quella foresta che chiamano Sila, che produce la pece migliore che si conosca, detta «pece brettia». È ricca di piante e di acqua e si estende in lunghezza per 700 stadî.” Strabone, Geografia, VI, I, 9.

[xxxiv] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 193.

[xxxv] Pugliese Carratelli G., I Brettii, in Magna Grecia, 1987, p. 285.

[xxxvi] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Πανδοσία.

[xxxvii] “E giungerà pure alla città di Siris e al golfo Lacinio, dove Teti farà crescere alla dea Oplosmia un bosco tutto ornato di belle piante come un giardino. Già sarà sempre costume delle donne di quel paese piangere il nepote di Eaco e di Doride, lo smisurato eroe fulmine di guerra; e non ornarsi, allora, le candide membra di aurei vezzi, né cingere molli vesti tinte di porpora: e per questo l’una dea darà all’altra, come dimora, il grande promontorio.” Licofrone, Alexandra vv. 956-965.

[xxxviii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIV, 3.

[xxxix] Strabone, Geografia VI, 1, 5.

[xl] Anonymi (vulgo Scymni Chii), Orbis Descriptio vv. 326-327, in Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855, I, p. 209.

[xli] Tito Livio, Ab Urbe Condita, VIII, 24, 5.

[xlii] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XIX, 2.

[xliii] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XIX, 10.

[xliv] La presenza di un abitato presso il fiume Traente, dove si erano stabiliti i Sibariti per sfuggire il pericolo della guerra civile nella loro patria, viene fatta risalire al tempo in cui ad Atene era arconte Lisimachide (445-444 a.C.) ed in cui a Roma, erano consoli Tito Menenio e Publio Sestio Capitolino (452 a.C.). Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XII, 22.

[xlv] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 274.

[xlvi] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXII, 61.

[xlvii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIII, 30.

[xlviii] “Eadem aestate in Bruttiis Clampetia a consule ui capta, Consentia et Pandosia et ignobiles aliae ciuitates uoluntate in dicionem uenerunt. et cum comitiorum iam appeteret tempus, Cornelium potius ex Etruria ubi nihil belli erat Romam acciri placuit. is consules Cn. Seruilium Caepionem et C. Seruilium Geminum creauit. inde praetoria comitia habita. creati P. Cornelius Lentulus P. Quinctilius Uarus P. Aelius Paetus P. Uillius Tappulus; hi duo cum aediles plebis essent, praetores creati sunt. consul comitiis perfectis ad exercitum in Etruriam redit.” Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIX, 38.

[xlix] Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, Exc. XX, 15.

[l] Appiano, Annibalica, 61; Libica, 256-257.

[li] Gellio, Le notti attiche, X, 3, 18-19.

[lii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXI, 7 e 11.

[liii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 7.

[liv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 35.

[lv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 36.

[lvi] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVIII, 10.

[lvii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVIII, 38.

[lviii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVIII, 45.

[lix] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIX, 13.

[lx] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXX, 1; 27; 40; 41. XXXV, 20; 41. XXXVI, 2.

[lxi] Polibio, Storie, XI, 6.

[lxii] Appiano, Annibalica, 54.

[lxiii] “in oppida Bruttii agri”, Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXX, 20.

[lxiv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVIII, 44.

[lxv] “Eodem tempore in Bruttiis ex duodecim populis, qui anno priore ad Poenos desciverant, Consentini et Tauriani in fidem populi Romani redierunt …”, Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXV, 1.

[lxvi] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXX, 19.

[lxvii] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Bάδιζα.

[lxviii] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Λαμπέτεια.

[lxix] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, fr. XXI, 3.

[lxx] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XXXVII, 2.

[lxxi] Appiano, Annibalica 44.

[lxxii] Erodiano, De Prosodia Catholica, vol. 3/1, pp. 286-287 Lentz, in Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 179.

[lxxiii] Appiano, Annibalica, 56. Stefano Bizantino, citando Dionigi di Alicarnasso, riferisce che “Costanteia” (Kωστάντεια) si trovava nella Brettia (Bρεττίας). Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Kωστάντεια.

[lxxiv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 11.

[lxxv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXX, 19.

[lxxvi] Pausania, Descrizione della Grecia, VIII, 15, 9.

[lxxvii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXIV, 53.

[lxxviii] Strabone, Geografia, VI, 1, 3.

[lxxix] Pseudo-Acrone, Commentari a Quinto Orazio Flacco, carme III 9, in Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, pp. 179-180.

[lxxx] Girolamo, Cronaca di Eusebio, p. 156 ed. Helm., in Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 150.

[lxxxi] Il console P. Sempronio, che si trovava nella provincia dei Brettii (“Bruttii provincia”), durante la sua azione nel territorio di Crotone (“in agro Crotoniensi”) ebbe con Annibale uno scontro tumultuoso (Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIX, 36). In occasione della spoliazione delle tegole del tempio di Giunone Lacinia, da parte del censore Q. Fulvio Flacco (173 a.C.), Tito Livio afferma che l’episodio era avvenuto quando quest’ultimo si era recato “in Bruttios” (Tito Livio, Ab Urbe Condita, XLII, 3).

[lxxxii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXIV, 45.

[lxxxiii] Minieri Riccio C., Studi Storici su Fascicoli Angioini dell’Archivio della Regia Zecca di Napoli, 1863, pp. 19-20.

[lxxxiv] Cicerone, Brutus, 85.

[lxxxv] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXV, 40.

[lxxxvi] Erodiano, De Prosodia Catholica, vol. 3/1, p. 364 Lentz, in Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 179.

[lxxxvii] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Ἰππώνιoν.

[lxxxviii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXI, 6.

[lxxxix] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXI, 12.

[xc] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXII, 1.

[xci] Polibio, Storie, I, 56.

[xcii] Strabone, Geografia, VI, I, 9.

[xciii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVII, 15.

[xciv] Polibio, Storie II, 39, 1.

[xcv] Polibio, Storie II, 39 1-2.

[xcvi] Rende P., Mito e Storia di Crotone nella Magna Grecia, cap. 9, www.archiviostoricocrotone.it

[xcvii] Erodoto IV, 15.

[xcviii] Napoli M., Civiltà della Magna Grecia, 1978, p. 30.

[xcix] “Questi ultimi, infatti, a cominciare già dai tempi della guerra di Troia, si erano impadroniti sia di gran parte dell’entroterra, accrescendosi a tal punto da chiamare questa terra «Magna Grecia», sia della Sicilia.” Strabone, Geografia, VI, I, 2.

[c] “Interiora eius aliae aliaeque gentes; sinistra parte Carni, et Veneti colunt Togatam Galliam; tum Italici populi, Picentes, Frentani, Dauni, Apuli, Calabri, Sallentini. Ad dextram sunt sub alpibus Ligures, sub Apennino Etruria; post Latium, Volsci, Campania et super Lucaniam Bruttii.” Pomponio Mela, Chorographia, II, 52. Ed. Muratori G.F, 1855, pp. 97-98.

[ci] “Sinus est continuo Apulo litore incinctus, nomine Urias, modicus spatio, pleraque asper accessu: extra Sipontum, vel (ut Grai dixere) Sipus; et flumen, quod Canusium attingens, Aufidum appellant: post Barium, et Gnatia, et Ennio cive nobiles Rudiae: et iam in Calabria Brundisium, Valetium, Lupiae, Hydrus mons, tum Sallentini campi, et Sallentina litora et urbs Graia Callipolis. Hucusque Hadria, hucusque Italiae latus alterum pertinet. Frons eius in duo quidem se cornua (sicut supra diximus) scindit: ceterum mare, quod inter utraque admittit, tenuibus promontoriis semel iterumque distinguens, non uno margine circuit, nec diffusum patensque, sed per sinus recipit. Primus Tarentinus dicitur, inter promontoria Sallentinum, et Lacinium; in eoque sunt Tarentus, Metapontum, Heraclea, Croto, Thurium: secundus Scyllaceus, inter promontoria Lacinium et Zephyrium; in quo est Petilia, Carcinus, Scylaceum, Mystiae: tertius inter Zephyrium et Bruttium, Consentiam, Cauloniam, Locrosque circumdat. In Bruttio sunt, Columna Rhegia, Rhegium, Scylla, Taurianum, et Metaurum.” Pomponio Mela, Chorographia, II, 59-61. Ed. cit., pp. 101-103.

[cii] “Hinc in Tuscum mare est flexus, et eiusdem terrae latus alterum. Medama, Hippo, nunc Vibon, Temesa, Clampetia, Blanda, Buxentum, Velia, Palinurus, olim Phrygii gubernatoris, nunc loci nomen, Paestanus sinus, Paestum oppidum, Silerus amnis, Picentia, Petrae quas Sirenes habitavere, Minervae promontorium, omnia Lucaniae loca;”. Pomponio Mela, Chorographia, II, 62. Ed. cit., pp. 103-104.

[ciii] “Nunc ambitum ejus, urbesque enumerabimus. Qua in re praefari necessarium est, auctorem nos Divum Augustum secuturos, discriptionemque ab eo factam Italiae totius in regiones XI, sed ordine eo, qui litorum tractu fiet, urbium quidem vicinitates oratione utique praepropera servari non posse : itaque interiori in parte digestionem in litteras ejusdem nos secuturos, coloniarum mentione signata, quas ille in eo prodidit numero.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 46. Ed. Domenichi M.L., 1844, p. 349.

[civ] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 291.

[cv] “A Silaro regio tertia, et ager Lucanus Bruttiusque incipit : nec ibi rara incolarum mutatione. Tenuerunt eam Pelasgi, Oenotri, Itali, Morgetes, Siculi, Graeciae maxime populi : novissime Lucani a Samnitibus orti duce Lucio. Oppidum Paestum, Graecis Posidonia appellatum, sinus Paestanus; oppidum Elea, quae nunc Velia. Promunturium Palinurum : a quo sinu recedente trajectus ad Columnam Rhegiam centum M. pass. Proximum autem huic flumen Melpes : oppidum Buxentum, graeciae Pyxus : Laus amnis : fuit et oppidum eodem nomine. Ab eo Bruttium litus : oppidum Blanda, flumen Batum : portus Parthenius Phocensium : sinus Vibonensis, locus Clampetiae : oppidum Temsa, a Graecis Temese dictum, et Crotoniensium Terina, sinusque ingens Terinaeus. Oppidum Consentia. Intus in paeninsula fluvius Acheron, a quo oppidani Acherontini. Hippo, quod nunc Vibonem Valentiam appellamus, portus Herculis, Metaurus amnis, Tauroentum oppidum, portus Orestis et Medua. Oppidum Scyllaeum, Cratais fluvius, mater (ut dixere) Scyllae. Dein Columna Rhegia : Siculum fretum, ac duo adversa promontoria : ex Italia Caenys, ex Sicilia Pelorum, duodecim stadiorum intervallo. Unde Rhegium duodecim M D pass. Inde Appennini silva Sila, promontorium Leucopetra XII M. pass. ab ea Locri cognominati a promontorio Zephyrio, absunt a Silaro CCCIII M. passuum.” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 71-74. Ed. cit., pp. 359-361.

[cvi] “A Lacinio promontorio secundus Europae sinus incipit, magno ambitu flexus, et Acroceraunio Epiri finitus promontorio, a quo abest LXXV M pass.. Oppidum Croto, amnis Neaethus. Oppidum Thurii inter duos amnes Crathin et Sybarin, ubi fuit urbs eodem nomine. Similiter est inter Sirin et Acirin Heraclia, aliquando Siris vocitata. Flumina : Acalandrum, Casuentum : oppidum Metapontum, quo tertia Italiae regio finitur. Mediterranei Brutiorum, Aprustani tantum : Lucanorum autem, Atinates, Bantini, Eburini, Grumentini, Potentini, Sontini, Sirini, Tergilani, Ursentini, Volcentani, quibus Numestrani iunguntur. Praeterea interisse Thebas Lucanas Cato auctor est. Et Pandosiam Lucanorum urbem fuisse Theopompus, in qua Alexander Epirotes occubuerit.” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 97-98. Ed. cit., pp. 369-371.

[cvii] “Conectitur secunda regio, amplexa Hirpinos, Calabriam, Apuliam, Salentinos, CCL M sinu, qui Tarentinus appellatur, ab oppido Laconum, in recessu hoc intimo sito, contributa eo maritima, colonia quae ibi fuerat. Abest CXXXVI M pass. a Lacinio promontorio, adversam ei Calabriam in paeninsulam emittens. Graeci Messapiam a duce appellavere; et ante Peucetiam a Peucetio Oenotri fratre. In Sallentino agro inter promontoria C M pass. Intersunt : latitudo paeninsulae a Tarento Brundisium terreno itinere XXXXV M pass. patet, multoque brevius a portu Sasine.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 99. Ed. cit. p. 371.

[cviii] “A Locris Italiae frons incipit, Magna Graecia appellata, in tres sinus recedens Ausonii maris; quoniam Ausones tenuere primi : patet octoginta duo mila pass. ut auctor est Varro. Plerique LXXII M fecere. In ea ora flumina innumera, sed memoratu digna a Locris Sagra, et vestigia oppidi Caulonis, Mystia, Consilinum castrum, Cocinthum, quod esse longissimum Italiae promontorium aliqui exsistimant. Dein sinus Scyllaceus : et Scylacium, Scylletium Atheniensibus, quum conderent, dictum : quem locum occurens Terinaeus sinus peninsulam efficit : et in ea portus, qui vocatur Castra Hannibalis, nusquam angustiore Italia : XX M pass. latitudo est. Itaque Dionysius major intercisam eo loco adjicere Siciliae volvit. Amnes ibi navigabiles : Caecinos, Crotalus, Semirus, Arocha, Targines. Oppidum intus Petilia : mons Clibanus, promontorium Lacinium : cujus ante oras insula X M pass. a terra Dioscoron : altera Calypsus, quam Ogygiam appellasse Homerus exstimatur : praetera Tiris, Eranusa, Meloessa. Ipsum a Caulone abesse LXX M pass. prodidit Agrippa.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 95-96. Ed. cit. p. 369.

[cix] Tolomeo, Geografia, lib. III, 1, ed. Nobbe C.F.A., Tom. 1 Lipsia 1843, p. 141.

[cx] Tolomeo, Geografia, lib. III, 1, ed. cit., p. 154.

[cxi] Tolomeo, Geografia, lib. III, 1, ed. cit., p. 142.

[cxii] Tolomeo, Geografia, lib. III, 1, ed. cit., p. 154.

[cxiii] Strabone, Geografia VI, 3, 1; 5.

[cxiv] Pomponio Mela, Chorographia, II, 59-61. Ed. cit., pp. 101-103.

[cxv] De Nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 638-639.

[cxvi] Tolomeo, Geografia, lib. III, 1, ed. cit., pp. 141-142.

[cxvii] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 73-74.

[cxviii] “I monti Appennini, (…) raggiunta la terra dei Lucani, essi inclinano piuttosto verso l’altro mare e passando, per la parte restante, in mezzo ai Lucani e ai Brettî, terminano al promontorio detto Leucopetra, nel territorio di Rhegion.” Strabone, Geografia, V, 1, 3. “Chi naviga da Rhegion verso levante per una distanza di 50 stadî, trova quel promontorio che dal colore chiamano Leucopetra, con quale, dicono, finiscono gli Appennini. Segue poi il promontorio di Eracle, che è l’ultimo ad essere rivolto verso mezzogiorno: infatti chi doppia questo capo naviga direttamente spinto spinto dal Libeccio, fino al promontorio Iapigio; poi la rotta inclina sempre più verso settentrione e verso occidente sino al golfo Ionio. Dopo il promontorio di Eracle si trova quello di Locri, detto Zefiro, che ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò deriva anche il nome.” Strabone, Geografia, VI, 1, 7.

[cxix] Dionisio il Periegeta, Descrizione della Terra, 360-363.

[cxx] Prisciano, Periegesi, 356-357.

[cxxi] Niceforo Blémmide, Geografia Sinottica, 36.

[cxxii] Rende P., Mito e Storia di Crotone nella Magna Grecia, cap. 9, www.archiviostoricocrotone.it.

[cxxiii] Napoli M., cit., p. 31.

[cxxiv] Servio, Ad Aeneidem, I, 569.

[cxxv] “A Scylletium segue la terra dei Crotoniati e i tre promontori degli Iapigi; viene poi il Lacinio, un santuario di Era, una volta assai ricco e pieno di doni votivi. Le distanze fra questi luoghi non si possono dire con esattezza, eccetto che, in generale, Polibio dà una distanza di 1.300 [2.300] stadi dallo Stretto fino al Lacinio e una distanza di 700 stadi di qui al promontorio Iapigio e questa è la così detta bocca del golfo di Taranto. Il golfo stesso poi, ha un periplo di ragguardevole lunghezza, pari a 240 miglia secondo il Corografo; esso sarebbe invece pari a 2.300 stadi secondo Polibio che però, al dire di Artemidoro, ne considererebbe 80 in meno rispetto alla reale ampiezza dell’imboccatura del golfo. Quest’ultimo è rivolto verso il levante invernale e inizia dal promontorio Lacinio. Chi doppia questo promontorio trova subito quelle città che un tempo appartenevano agli Achei e che ora non esistono più, ad eccezione di Taranto; (…).” (Strabone, Geografia VI, 1, 11). Nell’ambito delle cose meravigliose raccolte nel suo scritto, lo Pseudo Aristotele affermava che presso Pandosia in Iapigia, erano mostrate le impronte lasciate da Ercole lungo il suo percorso, alle quali a nessuno era consentito accostarsi. Pseudo Aristotele, De Mirabilibus Auscultationibus, 97.

[cxxvi] Polibio, Storie, framm. lib. X, 3-4-5-6. Rende P., Sulle rotte di Levante. Crotone e la navigazione in “alto mare” nell’Antichità e nel Medioevo, www.archiviostoricocrotone.it

[cxxvii] Arriano, Samn., 7.

[cxxviii] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXV, 23.

[cxxix] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXVII, 2.

[cxxx] Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXXVII, 50; XXXVIII, 36.

[cxxxi] “A Sasonis insula traiectus Hydrunto provinciae Calabriae … stadia CCCC. ab Hydrunto litoraria Leucas provinciae supra scriptae … stadia CCC. a Leucis Crotona provinciae supra scriptae … stadia DCCC. a Crotona Naus provinciae supra scriptae … stadia C. a Naus Stilida provinciae supra scriptae … stadia DC. ab Stilida Zephyrio provinciae supra scriptae … stadia CCCC. a Zephyrio Regio civitas provinciae supra scriptae … stadia CCCCXX”. Parthey G. e Pinder M., Itinerarium Antonini Augusti et Hierosolymitanum, 1848, pp. 236-237.

[cxxxii] “Hinc sinus Herculei, si vera est fama, Tarenti cernitur; attollit se diva Lacinia contra Caulonisque arces et navifragum Scylaceum.” Virgilio, Aeneidos III, 551-553.

[cxxxiii] “Cavlonisque arces Aulon mons est Calabriae, ut Horatius «et amicus Aulon fertilis Baccho»: in quo oppidum fuit a Locris conditum, quod secundum Hyginum, qui scripsit de situ urbium Italicarum, olim non est. alii a Caulo, Clitae Amazonis filio, conditum tradunt. navifragum scyllaceum periculosum navibus. dictum Scyllaceum aut a tractu, vel a periculi similitudine: nam inde Scylla longe est. alii dicunt Ulixen post naufragium in Italia de navium fragmentis civitatem sibi fecisse, quam navifragum Scyllaceum nominavit. alii ab Atheniensibus, qui cum Mnestheo duce venerant et a Libya redierant, conditum tradunt.” Servio, Ad Aeneidem, III, 553.

[cxxxiv] Orazio, Ode 2, 6.

[cxxxv] Romanelli D., Antica Topografia Istorica del Regno di Napoli, Parte Prima, 1815, pp. 168-169.

[cxxxvi] Polemio Silvio, Ex Laterculo Polemii Silvii. Nomina Omnium Provinciarum, in Riese A., Geographi Latini Minores, 1878, p. 130.

[cxxxvii] Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 51.

[cxxxviii] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, pp. 281-309.

[cxxxix] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, pp. 291-309.

[cxl] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 292.

[cxli] Intrieri M. e Zumbo A., I Brettii, Tomo II Fonti letterarie ed epigrafiche, 1995, p. 293 nota 229.

[cxlii] Volpe G., La Daunia nell’Età della Romanizzazione: Paesaggio Agrario, Produzione, Scambi, 1990, p. 217.

[cxliii] Liber Coloniarum I, Ed. Blume F., Lachmann K., Rudorff A., Berlin 1848, pp. 209-211.

[cxliv] Liber Coloniarum II, Ed. Blume F., Lachmann K., Rudorff A., Berlin 1848, pp. 261-262.

[cxlv] “Anastasio Cancellario Lucaniae et Bruttiorum”, Cassiodoro, Variae, XII 14, 1 e 3. “Maximo V.C. Cancellario Lucaniae et Bruttiorum”, Ibidem, XII 15, 5. “Anastasio Cancellario Lucaniae et Bruttiorum”, Ibidem, XII 12. “Vitaliano V.C. Cancellario Lucaniae et Bruttiorum”, Ibidem, XI 39, 3.

[cxlvi] “Ad postremum Romae ingressi Halarico iubente spoliant tantum, non autem, ut solent gentes, igne supponunt nec locis sanctorum in aliquo paenitus iniuria inrogare patiuntur. Exindeque egressi per Campaniam et Lucania simili clade peracta Brittios accesserunt; ubi diu resedentes ad Siciliam et exinde ad Africae terras ire deliberant. Bryttiorum si quidem regio in extremis Italiae finibus australi interiacens parti – angulus eius Appinini montis initium fecit – Adriaeque pelagus velut lingua porrecta a Tyrreno aestu seiungens nomen quondam a Bryttia sortitus regina.” Iordanes, De origine actibusque Getarum, XXX, 156.

[cxlvii] Nel menzionare “gli assediati nel castello di Rossano”, Procopio di Cesarea riferisce che tra di loro, oltre alle truppe bizantine “dell’esercito romano” ed illiriche, si trovavano molti e distinti Italiani (Ἰταλῶν), mentre successivamente, nel descrivere i fatti relativi all’assedio di Crotone, egli si sprime affermando che l’imperatore ordinò alle truppe inviate in soccorso della città, di navigare “al più presto verso l’Italia” (Ἰταλίαν). Procopio di Cesarea, De bello Gothico III, 30 e IV, 26. Ed. Comparetti D., La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, voll. 3, Roma 1895, 1896, 1898, in Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano.

[cxlviii] “Belisario, lasciata guarnigione in Siracusa e in Palermo, col resto dell’esercito passò da Messina a Reggio (…) L’esercito procedette per terra per gli Abbruzzi (sic) e la Lucania e seguivalo lungo il continente la flotta. Procopio di Cesarea, De bello Gothico I, 8.

[cxlix] Procopio di Cesarea, De bello Gothico III, 28. Ed. Comparetti D., La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, voll. 3, Roma 1895, 1896, 1898, in Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano.

[cl] “Molti invece andranno a stanziarsi presso Siris e i campi di Leuternia, dove ha un tumulo l’infelice Calcante (…) là, dove rapide passano le correnti del Sinis bagnando la bassa campagna di Cônia. Come Troia, anche là un giorno gli sciagurati distruggeranno una città, e a Pallade, dea Trombettiera che concede il bottino della guerra, arrecheranno grande dolore sgozzandole nel tempio i discendenti di Csuto, che già avanti hanno occupato quel paese. La statua della dea chiuderà le palpebre – pur essendo inanimate – alla vista dell’orrida strage che gli Achei fanno degli Ioni sbranando quei loro parenti a guisa dei lupi della foresta, quando cadrà morto il giovinetto sacerdote, figlio della sacerdotessa, e bagnerà per il primo l’altare di nero sangue.” Licofrone, Alexandra vv. 978-992.

[cli] “Al di qua di questo golfo trovasi per prima la piccola città di Dryrunte (?) oggi detta Odrunte (Otranto); a destra di questa stanno i Calabri, i Pugliesi, i Sanniti, dopo i quali vengono i Piceni, che abitano quel paese fino alla città di Ravenna; a sinistra sta l’altra porzione della Calabria e gli Abbruzzi e la Lucania, dopo la quale viene la Campania fino a Terracina, a cui succedono i confini dell’Agro Romano. Queste popolazioni abitano la costa di ambedue i mari e tutta quanta la regione interna. E questa è qualla che già chiamossi Magna Grecia, poiché negli Abbruzzi trovansi i Locresi Epizephirii, i Crotoniati ed i Turi.” Procopio di Cesarea, De bello Gothico I, 15. Ed. Comparetti D., La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, voll. 3, Roma 1895, 1896, 1898, in Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano.

[clii] Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, c. 27. Ed. Immanuel Bekker, Bonnae 1840, p. 120.

[cliii] “Theoctistae patriciae et Andreae de triginta aurei libris gratias agit, quarum dimidiam partem ad redimendos Crotonenses, qui anno superiore, capta a Longobardis urbe, praedae ceciderunt, se contulisse scribit.” (Russo F., Regesto I, 49 nota n. 36). Jaffè P., Regesta Pontificum Romanorum, 1956, vol. 1 p. 176

[cliv] “Gregorius Arogi duci. (…) Indicamu autem, propter ecclesias beatorum Petri ac Pauli aliquantas nobis trabes necessarias esse, et ideo Savino subdiacono nostro iniunximus, de partibus Brittiorum aliquantas incidere, et ut usque ad mare in locum aptum trahere debeat.”. Paulo Diacono, Historia Langobardorum IV, 19; MGH Hannoverae 1878, p. 153.

“Ab Aroge [Arechis], Duce Beneventano, petit ut in trabibus, ecclesiae BB. Petri et Pauli necessariis, e Bruttiis ad mare trahendis, Savino, subdiacono suo, cum hominibus et bobus subveniri iubeat.”. Russo F., Regesto I, 60.

“Mauritio, Magistro militum, mandat ut supradictam epistolam celeriter ad Arogem Ducem deferat et Savinum subdiaconum ei commendat, cui trabes in ecclesiis BB. Petri et Pauli necessarias e Bruttiorum partibus ad locum unde per mare duci possunt, trahat praeceperit quique ut auxilium pracbeat se Arogi scripsisse docet.” Ibidem, 61.

“Gregorio expraefecto petit ut Savino, subdiacono suo, homines et boves de possessionibus suis, quas ipse in emphiteusim habeat, ad emoliendas viginti trabes, ecclesiis BB. Petri et Pauli destinatas.” Ibidem, 62.

“Stephano, Tempsano episcopo, et Venerio, Vibonensi episcopo, scribit de hominibus bobusque Savino, subdiaconi ad trabes ad mare trahendas mittendis.”. Ibidem, 63.

[clv] Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, pp. 28-29.

[clvi] “Ἐπαρχία Kαλαβρίας. ʽΡήγιον, Λούϰρις, Σϰυλαϰίας, Kοτρώνων,  Kωνσταντία, Τροπαίων, Ταυρίανα, Βιβώνων.”. Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 31.

[clvii] Oltre quelli controversi di Miria, Lusitania e Carina, compaiono i vescovati di Reggio, Locri, Squillace, Vibona, Cosenza, Nicotera, Crotone, Turio e Tempsa. Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi C.A.M., Napoli 1957, p. 43 n. 2.

[clviii] “… item provincia quae dicitur Calabria Brindicensis girat autem ipsa Italia id est de Adriatico mari in Gallico a provincia Pritas Rigiensis …”. Pinder M. et Parthey G., Ravvennatis Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, 1860, p. 248.

[clix] “Porro octava Lucania, quae nomen a quondam luco accepit, a Silerio fluvio inchoat, cum Brittia, quae ita a reginae quondam suae nomine appellata est, usque ad fretum Siculum per ora maris Tyrreni, sicut et duae superiores, dextrum Italiae cornu tenens pertingit; in qua Pestus et Lainus, Cassianum et Consentia Regiumque sunt positae civitates.”. Paulo Diacono, Historia Langobardorum II, 17; MGH Hannoverae 1878, p. 98.

[clx] Mansi J. D., Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio …, 1759-1798, XI, 299-303 e 773-774.)

[clxi] Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi C.A.M., Napoli 1957, p. 43.

[clxii] Sposato P., Sinodi romani e concili orientali e la partecipazione dei vescovi del Brutium bizantino, in Atti del 4° Congresso Storico Calabrese, 1969, pp. 141-185. Mansi J. D., Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio …, XII, 1096; XIII 383.

[clxiii] Sposato P., Sinodi romani e concili orientali e la partecipazione dei vescovi del Brutium bizantino, in Atti del 4° Congresso Storico Calabrese, 1969, pp. 141-185. Mansi J. D., Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio …, XIV, 194-195.

[clxiv] Risultano presenti, il vescovo Pelagio “Cosentino” o di “Consentias” ed il vescovo Anderamo di “Bisuniano” o “Bisuntiano”. Mansi J.D., Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio …, XII, col. 384c e d.

[clxv] Burgarella F., Cosenza Durante la Dominazione Bizantina (sec. VI-XI), in Miscellanea di Studi Storici VI – 1987-88, p. 48.

[clxvi] Einhardi Vita Karoli Magni, 15, Scriptores Rerum Germanicarum in Usum Scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis Separatim Editi, 1905. In relazione ai luoghi che segnavano questo confine, sembra poter trovare corrispondenza la presenza del toponimo “petram Caroli Magni” (De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 9-10, 11-13, 29-31, 88-89, 123-130, 194-196, 230-233) sul confine settentrionale del territorio silano dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, che pur riscontrandosi solo alla fine del sec. XII, potrebbe costituire un retaggio dei miti franchi legati a questo personaggio, sopravvissuto nella cultura dei dominatori svevi.

[clxvii] Russo F., Regesto I, 90.

[clxviii] Russo F., Regesto I, 97.

[clxix] Russo F., Regesto I, 112.

[clxx] Amari M., Storia dei Musulmani di Sicilia, I, Firenze 1854, pp. 253-275.

[clxxi] “I musulmani di Sicilia e di Africa si mostrano a un tempo nel Ionio e nel Tirreno. Occupano S. Severina e Amantea; presidiano Taranto; afforzansi al capo Licosa e si fan padroni di Ponza.”. Moscato G.B., Cronaca dei Musulmani in Calabria, 1902 rist. 1963, p. 15.

[clxxii] “Stefano fallisce un colpo sopra Amantea, tenuta dai musulmani; e Basilio manda in sua vece Niceforo Foca, creato stratego di Calabria; il quale ultima il riacquisto, prendendo Amantea e Santa Severina.” Moscato G.B., Cronaca dei Musulmani in Calabria, 1902, rist. 1963 p. 21.

[clxxiii] Costantino Porfirogenito, De thematibus, 10. Ed. Immanuel Bekker, Bonnae 1840, pp. 58-60.

[clxxiv] Ἰστέον ὅτι ἡ Kαλαβρίας στρατηγὶς δουϰάτον ἦν τò παλαιòν τῆς στρατηγίδος Σιϰελίας. Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, c. 50. Ed. Immanuel Bekker, Bonnae 1840, p. 225.

[clxxv] Russo F., cit., 1957, p. 44. Basilii Notitia, in Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 27.

[clxxvi] “Τῷ ʽΡηγίῳ Kαλαβρίας. ὁ Βιβώνης, ὁ Ταυριάνης, ὁ Λοϰρίδος, ὁ ʽΡoυσιανοῦ, ὁ Σϰυλαϰίου, ὁ Τροπαίου, ὁ ’Aμαντίας, ὁ Kρωτώνης, ὁ Kωνσταντίας, ὁ Nιϰοτέρων, ὁ Bισουνιάνου, ὁ Nεοϰάστρου.”. Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 77.

[clxxvii] Theophanes Continuatus, V, 71, in Migne J. P., Patrologia greca, CIX, coll. 327-330.

[clxxviii] “Saraceni tam de Gariliano quam de Agropoli comuniter collecti, Calabriam, qua residebat Graecorum exercitus super Saracenos in sancta Severina commorantes, properarunt; ubi et omnes Graiorum gladiis extincti sunt. Dehinc Amanteum castrum captum est. Deinde et dictae beatae Severinae oppidum apprehensum est.” Erchemperti, Historia Langobardorum Beneventanorum, in L. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Bologna 1976, Vol. II, p. 249.

[clxxix] “Anno 272” (18 giugno 885-7 giugno 886). “Spirata quest’anno la tregua che Sawâdah, emir di Sicilia, avea stipulato coi Rûm, ei mandò le gualdane nei paesi che i Rûm teneano ancora nell’isola; le quali predarono e ritornarono. Questo medesimo anno venne di Costantinopoli, con grande esercito, un patrizio per nome Niceforo; il quale posto il campo sotto Santa Severina assediolla e strinse i Musulmani che la tenenano; tanto ch’essi resero la città a patti, e se ne andarono in Sicilia. Quindi Niceforo mandò un esercito alla città di Amantea, la quale fu assediata e costretto il presidio a renderla a patto e (tornarsene) a Palermo in Sicilia.”. Amari M., Biblioteca Arabo-Sicula volume primo 1880, pp. 399-400.

“L’anno 272 Sawâdah, principe di Sicilia, mandò le gualdane nei paesi dei Rûm; le quali ritornarono con preda. Lo stesso anno seguirono parecchi scontri tra i Musulmani ed un patrizio per nome Niceforo. Venuto di Costantinopoli con un grande esercito, questi entrò nella città di (Santa) Severina; dalla quale il presidio musulmano uscì per accordo e [ritornò] in Sicilia.”. Amari M., Biblioteca Arabo-Sicula volume secondo 1881, pp. 17-18.

[clxxx] “MH. Tῇ Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας. ὁ Eὐρυάτων, ὁ ’Aϰερεντίας, ὁ Kαλλιπόλεως, [ὁ] τῶν ’Aησύλων.”. Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 82.

[clxxxi] Russo F., cit., 1957, p. 46.

[clxxxii] “Θρόνος τριαxοστὸς πρῶτος. Τῷ Kαλαβρίας ἤτοι τοῦ ʽΡηγίου. ὁ Βιβώνης, ὁ Ταυριανῆς, ὁ Λοϰρίδος, ὁ ʽΡωσιανοῦ, ὁ Σϰολαϰίου, ὁ Τροπαίου, ὁ ’Aμάντείας, ὁ Kρωτώνης, ὁ Kωνσταντίας, ὁ Nιϰοτέρων, ὁ Bισουνιανοῦ, ὁ Nεοϰάστρου, ὁ Kασάνου.”. “thronus trigesimus primus. Calabriae sive Regii. 1. Bibonae. 2. Tauriane. 3. Locridis. 4. Rusiani. 5. Scylacii.6. Tropaei. 7. Amanteae. 8. Crotonae. 9. Constantiae. 10. Nicoterorum. 11. Bisuniani. 12. Neocastri. 13. Casani.”. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 119; Fabre M. P., Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine, I, Parigi 1889, p. 21.

“τῷ ʽΡηγίῳ Kαλαβρίας. ὁ Βιζώνης, ὁ Ταυριανῆς, ὁ Λοϰρίδος, ὁ ʽΡωσιανοῦ, ὁ Σϰυλαϰίου, ὁ Τροπαίου, ὁ ’Aμάντας, ὁ Kροτώνης, ὁ Kωνσταντείας, ὁ Nιϰωτέρων, ὁ Mισουνιανοῦ, ὁ Nεοϰάστρου, ὁ Kασάνου. ὁμοῦ ιγˊ.”. “31. Rhegio Calabriae: Bizonae. Taurianae. Locridis. Rosiani. Scylacii. Tropaei. Amantae. Crotonae. Constantiae. Nicoterorum. Misuniani. Neocastri. Casani; sunt 13.”. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 216.

“τῷ ʽΡηγίῳ Kαλαβρίας. ὁ Βιζώνης, ὁ Ταυριανῆς, ὁ Λοϰρίδης, ὁ ʽΡωσιανοῦ, ὁ Σϰυλαϰίου, ὁ Τροπαίου, ὁ ’Aμάντας, ὁ Kροτώνης, ὁ Kωνσταντείας, ὁ Nιϰωτέρων, ὁ Mοσουνιανοῦ, ὁ Nεοϰάστρου, ὁ Kασάνου.” “30. Rhegio Calabriae: 1. Bizonae. 2. Taurianae. 3. Locridis. 4. Rhosiani. 5. Scylacii. 6. Tropaei. 7. Amantae. 8. Crotonae. 9. Constantiae. 10. Nicoterorum. 11. Mosuniani. 12. Neocastri. 13. Casani.”. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 258.

[clxxxiii] “Θρόνος τεσσαραxοστὸς ὄγδοος. Tῷ Ἁγίας Σευηρινῆς, Kαλαβρίας. ὁ Eὐρυάτων, ὁ ’Aϰεραντείας, ὁ Kαλλιπόλεως, ὁ τῶν ’Aεισύλων, ὁ τοῦ Пαλαιοϰάστρου.”. “thronus quadragesimus octavus. Sanctae Severinae Calabriae. 1. Euryatorum. 2. Acerantiae. 3. Callipolis. 4. Aësylorum. 5. Palaeocastri.”. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 126.

“τῇ Ἁγίᾳ Σευηρινῇ. ὁ Kαλαβρίας, ὁ Eὐρυάτων, ὁ ’Aϰερεντείας, ὁ Kαλλιπόλεως, ὁ τῶν ’Aησύλων, ὁ τοῦ Пαλαιοϰάστρου· ὁμοῦ ςˊ.”. “48. Sanctae Severinae: Calabriae. Euryatorum. Acerentiae. Callipolis. Aësylorum. Palaeocastri; sunt 6.”. “730-731 leg. τῇ Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας”. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 222.

[clxxxiv] Russo F., Regesto I, 100 e nota n. 52. Relativamente all’erezione della metropolia di Salerno, esiste una conferma del 12 luglio 989 fatta da papa Giovanni XV ad Amato arcivescovo di Salerno, nella quale gli si riconosce la potestà di ordinare e consacrare i vescovi nei luoghi ad esso soggetti: “Paestanen., Consan., Acerentin., simul etiam et Nolan. et Bisuninen. et Malvitanen. et Cusentiae episcopatus”, come era già stato concesso dai suoi predecessori (Kehr P. F., Italia Pontificia, VIII, p. 346).

[clxxxv] Vita et conversatio sancti et deiferi patris nostri Nili, 70, in Migne J. P., Patrologia graeca, CXX, coll. 119-122. 892: “Sympathicius imperialis Protospathatius et Strategus Macedoniae, Thraciae, Cephaloniae ac Longobardiae” (Trinchera F., Syllabus cit., pp. XXI e 575). Maggio 911: “johannacio imperiali protospathario et stratigo langobardie” (Ibidem, pp. 4 n. V e 575). Dicembre 956: “mariano anthipato patricio, et stratjgo calabrie et langobardie” (Ibidem, pp. 5 n. VI e 575). Novembre 1059: “Antiochus imperialis Protospatharius et Strategus Calabriae” (Ibidem, pp. XXIII, 57-58 n. XLIV, 576).

[clxxxvi] Vita et conversatio sancti et deiferi patris nostri Nili, 45, in Migne J. P., Patrologia graeca, CXX, coll. 85-86.

[clxxxvii] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 22-23 n. XXI e 576.

[clxxxviii] Maggio 975: “Michael Anthypatus Patricius et Catapanus Italiae” (Trinchera F., Syllabus cit., pp. 5 n. VII e 575). Novembre 999: “Gregorius imperialis Prothospatarius et Catapanus Italiae Trachaniotes” (Ibidem, pp. XXII, 9 n. X, 575). Ottobre 1011, agosto 1016, marzo 1032: “Basilius Mesardonites vel de Mesardonia Protospatharius et Catapanus Italiae” (Ibidem, pp. XXII, 14 n. XIV, 17 n. XVI, 24 n. XXIII, 575). Febbraio 1018, giugno 1019, giugno 1021, gennaio 1024: “Basilius Boianus, Bugianus vel Boius Protospatharius et Catapanus Italiae” (Ibidem, pp. 18-21 n. XVII – XVIII – XIX – XX, 576). Giugno 1019: “Tornicius Contoleo Protospatharius et Catapanus Italiae” (Ibidem, pp. 19 n. XVIII e 576). Marzo 1032: “Pothus Argyrius Protospatharius et Catapanus Italiae” (Ibidem, pp. XXIII, 24-25 n. XXIII, 27-29 n. XXV, 576). Novembre 1034: “Constantinus Opus Patricius et Catapanus Italiae” (Ibidem, pp. XXIII, 32 n. XXVIII, 576).

[clxxxix] Falkenhausen V., La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX secolo, 1978, pp. 46, 50-51, 90-92.

[cxc] Vanoli A., La Sicilia Musulmana, 2016, pp. 166-168.

[cxci] Amari M., Biblioteca Arabo-Sicula, vol. I, 1880, pp. 24-25.

[cxcii] MGH, Ottonis I diplomata, 371. Consultato attraverso il sito della Bayerische StaatsBibliothek all’indirizzo ww.dmgh.de

[cxciii] Vita Gregorii Abbatis Prior., in MGH, Scriptores, tomo XV parte II, p. 1187. Consultato attraverso il sito della Bayerische StaatsBibliothek all’indirizzo ww.dmgh.de

[cxciv] “fecit proelium Otho Rex cum Sarracenis in Calabria in Civitate Cotruna, et mortui sunt ibi 40. mil. Poenorum cum Rege eorum, nomine Bulcassimus.” Lupus Protospatarius Barensis Rerum in Regno Neapolitano Gestarum Breve Chronicon ab Anno Sal. 860 vsque ad 1102, a. 981.

[cxcv] MGH, Ottonis II et III diplomata, 276, 277, 278. Consultato attraverso il sito della Bayerische StaatsBibliothek all’indirizzo ww.dmgh.de

[cxcvi] “Nona Calabria, quae primitus ab antiquis Britania dicta est ob immensam affluentiam totius delitiae atque ubertatis.” Pinder M. et Parthey G., Ravvennatis Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, 1860, p. 503.

[cxcvii] 1048: Northmanni iverunt contra Graecos in Calabriam, et invaserunt eam, et victi sunt Graeci circa Tricaricum. Humphredus capit Trojam, et facit castrum in Bachareza. 1052: Fit proelium cum Argyro catapano Graecorum, et a Northmannis iterum fugatur exercitus eius circa Tarentum. Et item factum est proelium circa Crotonem in Calabria, et victus est Sico Protospata. Et dominium Northmannum factum est magnum in Calabria, et Apulia; et crevit potentia, et timor eorum in omni terra. Gambella A., Il Breve Chronicon Northmannicum, www.storiaonline.org.

[cxcviii] Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum, 1865, p. 53 n. XLII.

[cxcix] Russo F., Regesto I, 135, e sgg. “Iuramentum Roberti Guiscardi: «Ego Robertus Dei gratia et sancti Petri dux Apuliae et Calabriae et utroque subveniente futurus Siciliae …»”, Russo F. Regesto I, 136. “dux Apuliae et Calabriae et utroque subeveniente futurus Siciliae”, Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 3-5 e pp. 6-12. 1059: “Robertus comes Apuliae factus est dux Apuliae, Calabriae, et Siciliae a papa Nicolao in civitate Melphis; et fecit ei hominium de omni terra.” Gambella A., Il Breve Chronicon Northmannicum, www.storiaonline.org.

[cc] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 13-16.

[cci] Russo F., Regesto I, 179.

[ccii] “Questa fu un venerabile monasterio di Benedettini, il cui abate, per nome N. (così stimando esser la maggior gloria di Dio) il tramutò in cattedrale circa gli anni del Signore 1000.” Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 541.

[cciii] “Tassitano, diocesi di Gerenzia.”. Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 594.

[cciv] Oliveti L., Istruttoria Demaniale per l’accertamento, la verifica e la sistemazione del demanio civico comunale di Cotronei 1997, p. 12.

[ccv] Russo F., Regesto II, 10355.

[ccvi] Nella relazione del vescovo Maurizio Ricci (1621) si legge che: “Queste tre Terre sudette [ossia Scala, Terra vecchia e S. Maurello] et Cariati erano della Diocesia di Rossano, et nell’erettione in Vescovato fatta di Cariati furono dismembrate da detta diocesia di Rossano, et in ricompensa le furono date due Terre grosse Campana, et Bucchigliero ch’erano della Diocesia di Gerentia. Et in segno di ciò la detta Chiesa di Gerentia, tiene ancora il jus conferendi un beneficio sub titulo Sancti Joannis posto con la Chiesa nel territorio di Campana.”. Scalise G.B. (a cura di), Una relazione di Mons. Ricci, in Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, 1999, p. 437.

[ccvii] Guillou A., Le Brébion de la Métropole Byzantine de Région (vers 1050), Biblioteca Apostolica Vaticana, 1974.

[ccviii] Ibidem, p. 73.

[ccix] Ibidem, pp. 62 e 188.

[ccx] Nella conferma, tramandataci in copia, dei privilegi fatta nel 1145 dal re Ruggero II al vescovo di Isola Luca, tra i beni posseduti dalla cattedrale di Isola, troviamo: “… ecclesiam santi Joannis de Campolongo in tenimento Castellorum Maris et diocesi preditti episcopatus, cum terris et pertinentiis suis, …”. AVC, Privilegio dello Sacro Episcopato della città dell’Isula, in Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato, ff. 417.

[ccxi] Guillou A., Le Brébion cit., pp. 58-59 e 186.

[ccxii] Ibidem, p. 81 e 199.

[ccxiii] Ibidem, pp. 82-83 e 200.

[ccxiv] Ibidem, pp. 82-83 e 200.

[ccxv] Ibidem, pp. 54-55 e 183-184.

[ccxvi] Ibidem, pp. 62 e 188.

[ccxvii] Trinchera F., Syllabus cit., pp. XXIII-XXIV e 57 n. XLIV.

[ccxviii] Mor C. G., Riflessi Bizantini nella Organizzazione Calabrese Avanti la Proclamazione del Regno, in Atti del 4° Congresso Storico Calabrese a cura della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Napoli 1969, p. 372.

[ccxix] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, p. 154-157.

[ccxx] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 113-115 n. LXXXVII.

[ccxxi] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 27-30.

[ccxxii] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 207-209 n. CLVII.

[ccxxiii] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 231-232 n. CLXXVI.

[ccxxiv] “Quod cum Guiscardo renuntiatum esset, videns se Calabriam perdere et Apuliam totam turbari, fratrem per legatos accersiens, pacem cum ipso fecit, concedens ei medietatem totius Calabriae a jugo montis Nichifoli et montis Sckillacii, quod acquisitum erat, vel quousque Regium essent acquisituri.”. Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, parte I, p. 22.

[ccxxv] “Caput  Trigesimo Sextum. Guiscardo apud Regium remanente, Rogerius castra Calabriae expugnat. (…) XXXVI. (…) Dux itaque digressus, in Calabriam veniens, expeditionem solvit: Bugamenses, quos captivos adduxerat, Scriblam, quam desertaverat, restaurans, ibi hospitari fecit. XXXVII. – Anno vero Dominicae incarnationis MLXV Policastri castrum destruens, incolas omnes apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat, adducens, ibi hospitari fecit. Antequem iret versus Panormum, (…) dux et comes Rogerius prius in provincia Cusentii castrum quidem Rogel expugnaverunt et pro libitu ordinaverunt. Eodem anno castrum quoddam, quod Ayel dicitur, in provincia Cusentii, dux oppugnare vadens, per quattuor menses obsedit.”. Goffredo Malaterra, cit., p. 47.

[ccxxvi] “… et lo remena avec soi en Calabre; et de cellui temps en avant lo duc ot concorde avec son frère lo conte toute sa vie, et lui donna la moitié de Sycille et de Calabre que fust soe, et lautre moitié lui recommanda.”. Champolion-Figeac M., Lystoire de li Normant et la Cronique de Robert Viscart par Aimè Moine de du Mont-Cassin, Parigi 1835, pp. 285-286. Amato di Montecassino scrisse in latino una Storia dei Normanni, di cui c’è pervenuta una traduzione francese del sec. XIV.

[ccxxvii] Goffredo Malaterra, cit., pp. 59-60.

[ccxxviii] “Nam, fratribus Rogerio et Boamundo, utroque ducatum appetente, inter se dissidentibus, et pluribus – nunc ab isto, nunc ab illo incrementa expetendo – lucrum suum quaerentibus, multorum Apulorum fides, quanta fuerit, experimento claruit. Rogerius tandem adiutorio avunculi sui, Siculorum comitis, Rogerii, qui, vivent-e fratre, idem sibi promiserat, dux efficitur. Omnia castella Calabriae, quorum necdum nisi medietatem cuiusquam comes Rogerius habebat, a nepote ad plenum sibi concessa, consignantur.” Goffredo Malaterra, cit., p. 82.

[ccxxix] Goffredo Malaterra, cit., pp. 90-92. Ménager L. R., Roberto il Guiscardo e il suo tempo, cit., p. 273.

[ccxxx] Jamison E., Note e documenti per la storia dei conti normanni di Catanzaro, in ASCL a. I, 4, Roma 1931, pp. 453-455.

[ccxxxi] “Caput Decimo Sextum. Comes Melitam vadit.” (…) Dum ista geruntur, Mainerius de Gerentia a comite, ut sibi locutum veniat, invitatus, accedere differt, cum arrogatione, praesente adhuc legato comitis, respondens, se numquam ipsum, nisi ut damnum, si possit, inferat, visum velle. Quod – referente legato, qui missus fuerat – comes audiens, plurimum indignatus, festinus mari transmeato, a Sicilia in Calabriam venit: Petrum Mortonensem, cui vices suas plurimum commiserat exequendas, ut per Siciliam exercitum commovens post se acceleret, mittit. Qui prudenter iniuncta perficiens, infra octo dies ab omni Sicilia copioso exercitu congregato, mense maii ad comitem adduxit. Sicque comes versus Gerentiam accelerans, castrum terribili obsidione vallavit. Qua de re Mainerius territus, se stulte et fecisse et locutum fuisse cognoscens, supplex ad misericordiam comitis venit: equos, mulos, thesauros et omnia, quae habebat, veniam petens, in eius dispositione ponit. Comes super iis, quae fecerat, eum poenitere videns, ut semper pii cordis, omnia condonavit, excepto quod – quasi pro disciplina potiusquam ambitione – mille aureos solidos de suo accepit, ut eum a tali praesumptione ulterius coerceat. Sicque per ardua adiacentium montium inde digrediens, Cusentium venit.”. Goffredo Malaterra, cit., p. 94.

[ccxxxii] “Eodem anno Acherontia civitas cremata est mense augusti, in tantum enim eodem vastata est igne, ut nulla domus, nullum inveniretur edificium quod non ab igne consumptum deperierit. Homines etiam XXV eodem incendio mortui sunt.”. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, p. 199. “mense Augusti Acherontia admirandum in modum cremata est a se ipsa, et mortuus est Iordanus Princeps.”. Lupus Protospatarius Barensis Rerum in Regno Neapolitano Gestarum Breve Chronicon ab Anno Sal. 860 vsque ad 1102, a. 1090.

[ccxxxiii] Vita et conversatio sancti et deiferi patris nostri Nili, 60, in Migne J. P., Patrologia graeca, CXX, coll. 103-106.

[ccxxxiv] Vita et conversatio sancti et deiferi patris nostri Nili, 2, in Migne J. P., Patrologia graeca, CXX, coll. 17-18.

[ccxxxv] “Dux vero a Sicilia in Calabriam veniens, apud Russanum, eiusdem provinciae urbem, dolentibus incolis, castellum firmavit.” Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, parte I, p. 57.

[ccxxxvi] Trinchera F., Syllabus cit., p. 68 n. LII.

[ccxxxvii] Caietano O., Vitae Sanctorum Siculorum, Tomus Secundus, Palermo 1657, p. 87.

[ccxxxviii] “Da Rossano ad ’al wâdî ’al kabîr («il fiume grande», fiume Crati) dodici miglia. Da ’al wâdî ’al kabîr alla città di rûśît (Roseto) dodici miglia. Da Roseto a sahrat saku («il sasso del Sinno ?», Pietra di Roseto) dodici miglia. Questo sasso segnava il confine tra i Franchi e i Longobardi. Dal Sasso al wâdî saktah (fiume Sinno) sei miglia. In questo fiume entrano le navi: esso offre eccellente ancoraggio.” Amari M. e Schiapparelli C., L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero” compilato da Edrisi, in Atti della Reale Accademia dei Lincei anno CCLXXIV, 1876-77, serie II – volume VIII, Roma 1883, pp. 73-74. “Da Rossano ad ’al wâdî ’al kabîr («il fiume grande», fiume Crati) dodici miglia. Da ’al wâdî ’al kabîr alla città di rûśît (Roseto) dodici miglia. Roseto è città di antica fondazione; [giace] in luogo ameno [ed è ben] popolata, benchè le case non siano molte. La cingono solide mura. Da questa a sahrat saku («il sasso del Sinno ?», Pietra di Roseto) che è il confine tra i Franchi e i Longobardi, dodici miglia. Da questa al wâdî s.knah (fiume Sinno) che offre sicuro ancoraggio, sei miglia.”. Ibidem, p. 133.

[ccxxxix] “Hic fratrem suum Umfredum Abagelardum comitem, apud castrum quod Lavel dicitur, virum prudentissimum, consilio Apuliensium et Normannorum ordinavit, Robertum vero Guiscardum in Calabria posuit, firmans ei castrum in valle Cratensi, in loco qui Scribla dicitur, ad debellandos Cusentinos et eos qui adhuc in Calabria rebelles erant.” Goffredo Malaterra, cit., p. 14.

[ccxl] “Dux itaque, videns castrum, quod melius in ipsa provincia habebat, sibi ablatum, sciens totam Calabriam per illud facile posse turbari, in valle Cratensi cum fratre sibi conventionem executus, Calabriam partivit. Sicque in Apuliam vadit, comes vero in Calabriam portionem suam recepturus redit.” Goffredo Malaterra, cit., p. 39.

[ccxli] “Dux ab omni Apulia equitum peditumque copiis, fratre Boamundo sibi in auxilium cum Ydrontinis et Tarentinis et reliquis, qui sui iuris erant, assumptis, Vallem Gratensem, versus Castri-villam occupat.” “Dux autem in valle Gratensi comitem, dum veniat, sustinet; castrum, quod Sancti Marci dicitur, usque properans, deditione civium tali pactione firmata, suscipit, ut in perpetuum – dum in vita comes fuerit illud – Guillelmo non reddant.” Goffredo Malaterra, cit., p. 100.

[ccxlii] Goffredo Malaterra, cit., p. 47.

[ccxliii] “apud Cusentium, Calabriae urbem”. Goffredo Malaterra, cit., p. 46.

[ccxliv] “Exercitu itaque commoto et his quae ad expeditionem necessaria erant [paratis], versus partes Calabriae aciem dirigit: pertransiensque Cusentinos fines et Marturanenses, juxta calidas aquas super flumine, quod Lamita dicitur, …”. Goffredo Malaterra, cit., p. 18.

[ccxlv] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 141-144.

[ccxlvi] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 138-141 n. CVI.

[ccxlvii] Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 82.

[ccxlviii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 9-10, 11-13, 29-31, 88-89, 99-101, 102-103, 123-130.

[ccxlix] Dietro la richiesta dell’abate Nicola, i privilegi furono tradotti dal greco in latino a Crotone, dai due giudici Nicola à Iudice e Michele de S. Mauro, come si rileva nell’atto redatto il 2 dicembre 1253, per mano del pubblico notaio Giovanni di Pietra Paula. Ughelli F., Italia Sacra, t. IX, coll. 475-478.

[ccl] Pesavento A., Antichi Casali della Vallata del Neto: Calabrò, Caria ed Altilia, www.archiviostoricocrotone.it

[ccli] Pesavento A., Il Capitolo di Santa Anastasia, www.archiviostoricocrotone.it.

[cclii] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 317-321.

[ccliii] AVC, “Privilegio dello Sacro Episcopato della città dell’Isula, in Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato”, ff. 417 e sgg.

[ccliv] Ruggero Borsa compare in qualità di duca d’Italia, di Calabria e di Sicilia (δουϰός ἰταλίας ϰαλαβριας ϰαὶ σικελίας) in un atto del 1091. Trinchera F., Syllabus cit., p. 68 n. LII.

[cclv] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 141-144.

[cclvi] “Praeterea, libertates, et inmunitates a bonae memoriae duce Rogerio, et Riccardo Senescalco, et aliis principibus eccl(esi)ae tuae cl(er)icis ratio(nabilite)r concessas, et hactenus observatas, videlicet ut ipsi cl(er)ici ab omni laicali exactione liberi sint penitus, et absoluti, ratas habemus, et eas futuris temporibus illibatas permanere sanceimus.” AASS, pergamena 001. AASS, 22A. “Nell’aver dunque il Pontefice nominati insieme il Duca Rogerio con Riccardo Senescalco devesi ragionevolmente alcche i Donatori siano stati Rogerio Duca di Puglia figlio di Roberto Guiscardo e Riccardo suo Senescalco figlio di Dragone Conte di Venosa …” AASS, 84A.

[cclvii] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 27-30.

[cclviii] “Da Pietrapaola a ’.b.shrû (Ipscrò, oggi Cirò) trentare miglia. Tra Cirò a rûsyânû (Rossano) la marittima quindici miglia. Da Rossano a śant mawrû (San Mauro) cinque miglia. Tra San Mauro ed il mare sei miglia.”. (…) E da San Mauro a b.snîân (Bisignano) nove miglia.” Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 112. Il luogo risulta menzionato “in Calabriam”, anche nella cronaca di Romualdo Salernitano (Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I, p. 5) mentre, sappiamo che al tempo di re Guglielmo I, in occasione della conferma di tutti i privilegi e di tutte le donazioni fatte alla Chiesa di S. Maria di Valle Giosafat dal re Ruggiero suo padre, e da parecchi baroni, tanto nella Puglia che in Calabria e Sicilia, figura: “in calabria in rossanensi parrochia iuxta castrum s(anc)ti mauri eccl(esi)am b(e)ate marie”. Archivio di Stato di Palermo, Diplomatico, Tabulario dei monasteri di Santa Maria Maddalena di Valle Giosafat e di San Placido di Calonerò, TSMG 0047, consultato attraverso www.archivi-sias.it. Sull’incerta identificazione del castello di San Mauro, Maone P., San Mauro Marchesato e le sue vicende attraverso i secoli, Catanzaro 1975, pp. 45 e sgg.

[cclix] Delaville Le Roulx J., Cartulaire Général de l’Ordre des Hospitaliers de S. Jean de Jérusalem (1110-1310), Parigi 1897, tome second (1201-1260), pp. 900-901.

[cclx] Crocenti G., Mabilia contessa di Oriolo in Calabria Letteraria 7/9, 1985, pp. 122-124. Nel cognome di Guglielmo, corrotto nei documenti che, in diversi casi, furono tradotti dal greco al latino, rimane, probabilmente, quello della sua importante consorte.

[cclxi] Pontieri E., Tra i Normanni nell’Italia meridionale, Napoli 1964, p. 169.

[cclxii] Goffredo Malaterra, cit., pp. 99-101.

[cclxiii] Ménager L. R., Inventaire des Familles Normandes et Franques Emigrées en Italie Méridionale et en Sicilie XI – XII siecles, in “Roberto il Guiscardo e il suo Tempo, Relazioni e comunicazioni nelle Prime Giornate normanno-sveve”, Bari maggio 1973, pubblicato a cura del Centro di Studi Normanno-Svevi, Università degli Studi di Bari, in Fonti e Studi del Corpus mambranarum italicarum XI, Roma 1975, p. 317.

[cclxiv] Nel maggio del 1097, il duca Ruggero confermava alla SS. Trinità di Venosa, le donazioni e le concessioni fatte da “Guilielmus Grandemanillus”, della chiesa di “sancte marie de Roccecta que est super fluvium cochili in tenimento Castrovillari”, assieme agli uomini, i possessi ed i diritti. (Del Giudice G., Codice Diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò, Napoli 1863, app. I n. X, pp. xxiv-xxvii.

[cclxv] Nel gennaio del 1114 (a.m. 6622), Filippo figlio del visconte e cavaliere del dominus Guglielmo Grantemani (ϰυρ γουδελμου γραντεμανι), donava al monastero di S. Pietro di Altomonte, obbedienza della SS. Trinità di Cava, delle terre a Oriolo. Trinchera F., Syllabus cit., pp. 99-100 n. LXXVI. Nel settembre 1117 (a.m. 6626), la contessa Mabilia, domina di Oriolo e moglie del defunto protosebasto Guglielmo Grantemanil  (γουλλιἔμου γραντεμανὴλ), assieme a suo figlio Guglielmo iuniore (γουλιἔμου γραντεμανὴλ), donavano alla SS. Trinità di Cava, la chiesa di S. Petro di Altomonte, con il casale e le pertinenze. Trinchera F., Syllabus cit., pp. 108-110 n. LXXXIII.

[cclxvi] Nell’agosto del 1122 (a.m. 6630), “Mabilia, et Guillelmus Granti Maniliae filius”, donavano al dominus Bartholomeo, abbate del “Sancti Monasterii venerandae Dominae nostrae Dei genitricis de Neanova odigytrea”, le “nostras culturas praediorum, quae habemus in medio duorum fluviorum Cratis, et Conchili”. Ughelli F., Italia Sacra, t. IX, 292.

[cclxvii] Nel gennaio del 1130, la contessa Mabilia “uxoris quondam Guillelmi protoplasto de Gratamanilla”, donava delle terre all’abbazia di Santa Maria della Matina, poste “in tenimento Sagicte”. Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 34-35.

[cclxviii] Pesavento A., La chiesa di San Costantino in territorio di Isola, www.archiviostoricocrotone.it.

[cclxix] Trinchera F., Syllabus cit., pp. 138-141 n. CVI. Il documento è riportato anche da Martire D., Calabria Sacra e Profana Vol. I, Cosenza 1876, pp. 212-214.

[cclxx] Ughelli F., Italia Sacra, t. IX, 481-482. “Al medesimo monasterio Manilia stessa, l’anno 1131 (sic) conferma la donazione fattagli da Giovanni, vescovo dell’Isola, della chiesa di S. Costantino, e ’l privilegio concedutogli da Roberto suo padre, che pasca liberamente i suoi animali di qualunque maniera ne’ territori di Cotrone e dell’Isola.” Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 585-588.

[cclxxi] “Egli morì l’anno quattrocento novantaquattro (nov. 1100 ad ott. 1101) in provincia di Calabria, nella rocca di Mileto e quivi fu sepolto.” (Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 24.

[cclxxii] “Comes vero Roggerius, audita morte W[illelmi] ducis, qui eum heredem instituerat …”. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori L.A., Rerum Italicarum Scriptores, vol. VII parte I, p. 214.

[cclxxiii] “Medietatem suam Palermitanae civitatis, et Messanae, et totius Calabriae Dux ille eidem Comiti concessit, ut ei super his omnibus auxilium largiretur. Continuo sexcentos milites, et quingentas uncias auri ei largitus est.” Falconis Beneventani Chronicon, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I, p. 186.

[cclxxiv] Falconis Beneventani Chronicon, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I, pp. 193 e sgg.

[cclxxv] “Mense iunii eodem indictione dum castellum Obmanum, iussione Rogerii comitis Siciliensis a comitibus Calabrie, id est Alexandro Senesii et a Robberto Grandi-Maruli et aliis multis …”. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, pp. 215, 391. “Ruggiero colla moglie Giuditta nel 1127 si chiude nel castello di Omignano, assediato dai conti di Calabria per ordine di Ruggero II di Sicilia, ma è vinto”. Ibidem,  p. 397.

[cclxxvi] “Robertus de Grantimania licentiam ad sua redeundi rogat, qua negata a Rogerio recedit” (Alexandri Telesini Coenobii Abbatis de Rebus Gestis Rogerii Siciliae Regis Libri Quatuor, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I p. 97. “Dux Lacupesulum vadit, Robertum de Grantimania qui a militia recesserat, arguit, et ad propria redire permittit.”. Ibidem, p. 99.

[cclxxvii] Ibidem, p. 100.

[cclxxviii] La notizia riportata dal Pontieri, risulta tratta dal libro del Minieri Riccio, Saggio di Codice diplomatico, Napoli 1878. Mor C. G., Riflessi Bizantini nella Organizzazione Calabrese Avanti la Proclamazione del Regno, in Atti del 4° Congresso Storico Calabrese a cura della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Napoli 1969, p. 388, nota n. 17.

[cclxxix] Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, p. 226. Relativamente all’anno 1140, Falcone Beneventano riferisce che, riunita la curia presso la città di Ariano, Ruggero II, emanò alcune norme: “… Arianum civitatem advenit, ibique de innumeris suis actibus Curia Procerum, et Episcoporum ordinata tractavit.”. Falconis Beneventani Chronicon, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I, p. 251.

[cclxxx] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 48-51.

[cclxxxi] Pratesi A., Carte Latine cit., p. 53-55.

[cclxxxii] Jamison E., Note e documenti per la storia dei conti normanni di Catanzaro, in ASCL a. I, 4, Roma 1931, pp. 465-470.

[cclxxxiii] De Leo P., Documenti cit., pp. XXIX e 7-8.

[cclxxxiv] “Nono Kalen. Junii Terremotus adeo magnus, et terribilis fuit per totam Calabriam in Valle de Grati, et vallem de Sinu. Ecclesiae omnes, et omnia aedificia murorum corruerunt, et Rufus Cusentinus Archiepiscopus, et multi alii sub murorum praecipitio suffocati sunt.” (Anonymi Monachi Cassinensis Breve Chronicon, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I p. 470.

[cclxxxv] De Leo P., Dalla Tarda Antichità all’Età Moderna, in Crotone Storia Cultura Economia, 1992, p. 138.

[cclxxxvi] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatari delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, Napoli 1868,, pp. 321-322 e nota 1.

[cclxxxvii] Secondo le valutazioni del Capasso, la compilazione del documento sarebbe da circoscrivere al periodo 1154-1169. Esso sarebbe infatti “il complesso di vari quaderni”, “compilati prima del 1161, ed indi rifatti non più tardi del 1168”. Capasso B., Sul Catalogo cit., pp. 319 e 328 e sgg.

[cclxxxviii] “Mancano poi interamente, né per verità dovevano starci, le Calabrie, le quali allora ed anche per parecchi anni dopo facevano amministrativamente parte della Sicilia, e non del ducato di Puglia; conseguenza della prima divisione fatta dopo la conquista Normanna tra Roberto Guiscardo, ed il gran Conte Ruggiero, indi verso i primi anni Angioini distrutta.” Capasso B., Sul Catalogo cit., p. 309.

[cclxxxix] Ibidem.

[ccxc] “… il ridottato re Ruggiero, esaltato da Dio, potente per divina grazia, re di Sicilia, Italia, Longobardia e Calabria, sostegno del pontefice di Roma e difensor della religione cristiana; [ben così detto] poiché egli avanza il re dei rûm (il sovrano bizantino) per [estensione] di territorio e nerbo [d’imperio] …”. Amari M. e Schiapparelli C., L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero” compilato da Edrisi, in Atti della Reale Accademia dei Lincei anno CCLXXIV, 1876-77, serie II – volume VIII, Roma 1883, p. 2.

[ccxci] “Questo terzo compartimento del Clima quinto abbraccia quel tratto [di paese] nel quale giacciono le terre di Calabria e di Longobardia (Principati longobardi) e la maggior parte del golfo dei Veneziani (Adriatico) …”. Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 99.

[ccxcii] “Le città che abbiam [testè] ricordate e le castella famose [delle quali abbiam fatta menzione] son tutte a un dipresso valide fortezze e grosse terre alle quali fa capo ogni genere di commercio. Ferace oltremodo è il loro suolo e su la loro difesa può farsi assegnamento. Il maggior numero di esse, e diciam pur tutte, fan parte della qillawrîah (Calabria) e della bûlîah (Puglia), come s’addimandano [due] territorii o provincie [che dir si vogliano ciascuna] delle quali comprende molti paesi.” Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 111.

[ccxciii] Ibidem, p. 103.

[ccxciv] Ibidem, p. 100.

[ccxcv] Ibidem, p. 12.

[ccxcvi] Ibidem, p. 101.

[ccxcvii] Ibidem, p. 16.

[ccxcviii] Ibidem, p. 79. In un altro passo, Edrisi afferma anche che la penisola di Sorrento, fa parte della Calabria. Ibidem, p. 19.

[ccxcix] “Metropolis Regium hos habet suffraganeos episcopos: Cassanensem, Neocastrensem, Catacensem, Crotoniensem, Tropiensem, Opiensem, Bovensem, Geratinum. Metropolis Cosentia hos habet suffraganeos episcopos: Marturanensem. Metropolis Rossanun nullum suffraganeum episcopum habet. Metropolis Sancte Severine hos habet suffraganeos episcopos: Hembriacensem, Stroniensem, Genecocastrensem, Cotroniensem, Gerentinum.”. “Hii sunt Collaterales et Consecratores Romani Pontificis. (…) In Calabria. Bisignanensis, episcopus Sancti Marci, Squillacensis, Miletensis.” Fabre M. P., Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine V, Parigi 1889, pp. 104-105.

[ccc] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 44-45, 123-130, 143-145. Reg. Ang. IV, p. 159.

[ccci] Reg. Ang. XIII, p. 267; Reg. Ang. XVII, pp. 57-58. Campanile F., L’armi Ovvero Insegne Dè Nobili, 1610, p. 280. ASV, Reg. Vat. Vol. 355, ff. 287-288.

[cccii] Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, pp. 293-303.

[ccciii] Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 128.

[ccciv] “Ebriacensem, Giropolensem, Geretinensem, [Geneoc]as[tr]ensem et Lesim[anensem.]”. AASS, pergamena 001. “Ebriacensem, Giropolensem, Gerentiensem, Gereocastrensem et Lesimanensem.” AASS, 22 A.

[cccv] Guillou André, Le Brébion cit., pp. 62 e 188.

[cccvi] “Ultimus pullus aquile casurus erat sub petra roseti : et hac de causa rex ipse pertimebat de petra roseti, quod est locus calabriae, et propterea nunquam abinde transitum volvit habere : locus enim ille conterminat ab appulis calabros, et e contra.” Bartolommeo di Neocastro, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1868, vol II, p. 421.

[cccvii] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, p. 649, 667, 670, 724.

[cccviii] “prelatis ecclesiarum, justiciariis, magistris camerariis, camerariis, bajulis, castellanis et universis officialibus a porta Roseti usque ad fines regni constitutis”. “Andree de Cicala fidelis nostri, constituimus eum capitaneum et magistrum justitiarium a porta Roseti usque ad fines regni”. “Roggerio de Amicis a porta Roseti usque Farum et per totam Siciliam [capitaneo et magistro justitiario statuto.]”. Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, pp. 950-951.

[cccix] “videlicet praedictus Archipresbyter per introitum Morani, et Oddo Marchio de Honebruch, cui Comitatus Catanzarii per Papam concessum erat, per introitum Pontis (sici) Roseti, Vallisgratae fines intrasset. … Item quod duodecim galeae Brundusinorum venissent ad maritimam Cutroni ad partes Terrae Jordani”. Jamsilla N., in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1868, vol II p. 181. “Fu l’ultimo del 1294 cogli altri presentato ad Ameraco de Possiaco milite, padrone di Strongolo, regio capitano e giustiziero della Calabria ‹‹et Terrae Joardanae usque ad flumen Gratis, nec non secreto» maestro portulano e procuratore e maestro del sale di tutta la Calabria.”. De Leo P., Documenti cit., p. XXVI e nota n. 152.

[cccx] Reg. Ang. XXIII, pp. 269-270.

[cccxi] “Lambertus regiae Curiae praepositus et principalis magister camerarius ac magnus Iudex totius Calabriae, Sinni, Laini et regionis Iordani”, Trinchera F., Syllabus cit., p. 322 n. CCXXXIX. “… in una carta del 1195 di Enrico VI peraltro Imperatore Svevo, sistente nel grande Archivio della Zecca, la quale contiene la confinazione della Grangia di S. Fantino fatta per ordine di Lamberto si legge: Lambertus imperialis aule princeps et Capitaneus Magister Camerarius adque Iusticiarius tocius Calabrie sinni et Layni et terre Iordanis.” Giustiniani L., Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli, Napoli 1797, vol. I, p. CXXIII, nota 4.

[cccxii] Nel 1195, Enrico IV su richiesta di “Bartholomei de Lucy, Comitis Paternionis, magistri iustitiarii tocius Calabrie, Fidelis Nostri”, conferma al monastero di Tremestieri di Messina alcuni beni siti in Sicilia. Böhmer J. F., Regesta Imperii IV, 3.1 ed. Baaken 1972, p. 164 n. 402. Sito www.regesta-imperii.de.

[cccxiii] De Leo P., Documenti cit., pp. 221-225; Ughelli IX, coll. 198-200.

[cccxiv] De Leo P., Documenti cit., p. XXXI.

[cccxv] “illustri viri Simonis de Mamistra regii Calabriae magistri iustitiarii”. De Leo P., Documenti cit., pp. 16-17.

[cccxvi] “Stephanus Marchisortus Dei et regia gratia comes Cotroni, capitaneus et magister iusticiarius Calabriae”, De Leo P., Documenti cit., pp. XXXII e 54-55. “Stephanus Marchisortus Dei et regia gratia comes Cotroni, capitaneus et magister iustitiarius Calabriae”, Ibidem, pp. 61-62. “Stephanus Dei et regia gratia comes Cotroni, capitaneus et magister iustitiarius Calabriae”, Ibidem, pp. XX e 65-66.

[cccxvii] In un atto del 1215, risulta che Gaytigrima, figlia di Guilielmi Criti de Bisiniano, abitava “in Calabria in civitate Genicocastri”. Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 256-257.

[cccxviii] Russo F., Regesto I, 446.

[cccxix] Russo F., Regesto I, 448.

[cccxx] De Leo P., Documenti cit., pp. 47-49.

[cccxxi] “molte … vecchie mitre piccole di tela, che da quelle si prende testimonianza che in tempo antico li canonici di quella chiesa siano stati mitrati”. ASV, Rel. Lim. S. Severina, 1603.

[cccxxii] Pratesi A., Carte Latine cit., pp.170, 283.

[cccxxiii] Il 14 agosto 1386, in Policastro, in occasione della stesura del proprio testamento, il nobile Simeone de Bondelmonti di Firenze, istituiva alcuni legati, tra cui quello in favore del clero latino e di quello greco di Catanzaro: “item clero Latinorum Catacensium uncias duas et clero Grecorum unciam unam”. www.archiviodistato.firenze.it.

[cccxxiv] Per un approfondimento su questo diritto, Carnì M., Il Diritto Metropolitico di Spoglio sui Vescovi Suffraganei, Torino 2015.

[cccxxv] De Leo P., Documenti cit., pp. 99-101, 102-103, 123-130.

[cccxxvi] De Leo P., Documenti cit., pp. 226-227; Ughelli IX, coll. 197.

[cccxxvii] De Leo P., Documenti cit., pp. 18-19.

[cccxxviii] De Leo P., Documenti cit., pp. 9-10, 11-13, 29-31, 88-89, 99-101 e 102-103, 123-130.

[cccxxix] “Privilegium Federici [II] regis Siciliae quod monasterium libere possit cavare et percipere meneras ferri, per omnes meneras Calabriae et in suo tenimento nova invenire perpetuo possidenda et molendinum edificare in tenimento Acherentiae, anno 1210.” De Leo P., Documenti cit., p. XXXV.

Nel maggio del 1210, in Messina, Federico II, concedeva a “Matheae venerabilis abbas et conventus Floris”, di poter “cavare et percipere meneram ferri per omnes meneras Calabriae. Si vero infra tenimenta eiusdem monasterii Floris menera ferri poterit inveniri, ipsam meneram ferri” concedeva e donava liberamente in perpetuo senza alcuna esazione. De Leo P., Documenti cit., pp. 42-43.

“Privileg. eiusdem Rom. Imp. super confirmatione omnium granciar. et concessione cavandi mineras etiam in tenimento Abbatiae, ac aedificandi molendinem in tenimento Acherentiae. In Anno 1219.” Siberene, p. 219.

“Privilegium Federici Romanorum regis super confirmatione omnium granciarum et concessione cavandi mineras etiam in tenimento abbatiae ac aedificandum molendinum in tenimento Acherentiae et loco de Bordò, anno 1219.” De Leo P., Documenti cit., p. XXVIII.

Nell’aprile del 1219, in Basilea, Federico II confermava i possedimenti del monastero, con la possibilità di “cavare et percipere meneram ferri per omnes meneras Calabriae” e di possedere in perpetuo le miniere che fossero state rinvenute nei suoi tenimenti. De Leo P., Documenti cit., pp. 80-82.

[cccxxx] De Leo P., Documenti cit., pp. 221-225; Ughelli IX, coll. 198-200.

[cccxxxi] In questo periodo, la distinzione tra Calabria e Valle Crati, continua a ricorrere sia implicitamente (“per totam Calabriam”, De Leo P., Documenti cit., p. 86), che in maniera esplicita (“Universis Calabriae et Vallis Gratis archiepiscopis, episcopis, comitibus”, Ibidem, p. 87.).

[cccxxxii] De Leo P., Documenti cit., pp. 92-93.

[cccxxxiii] De Leo P., Documenti cit., pp. 104-105.

[cccxxxiv] De Leo P., Documenti cit., pp. 109-112.

[cccxxxv] Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 256-257.

[cccxxxvi] “Alexander comitatus prefati iusticiarius”. Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 309-312.

[cccxxxvii] “Alexander de Policastro, imperialis Calabrie et terre Jordane justitiarius”, Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo II pars I, pp. 519-522. “… e fu a suo tempo e proprio nel gennaio del 1226 che trovandosi in Mileto Alessandro di Policastro Giustiziere imperiale della Calabria, e della Terra Giordana …”, Capialbi V., Memorie per servire alla Storia della Santa Chiesa Militense compilate da …, p. 20. “Judicatum Alexandri de Policastri Imperialis Justitiarii Calabrie et Terre Joardani …”, Capialbi V., Opuscoli Vari, p. 189.

[cccxxxviii] “domine Alexander de Policastro imperialis iusticiarie Calabrie et Vallis Gratis”. Pratesi A., Carte Latine cit., pp. 364-366.

[cccxxxix] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, pp. 689-691, 789-790, 794. Costitutiones Regum Regni Utriusque Siciliae Mandante Friderico II Imperatore … et Fragmentum Quod Superest Regesti Eiusdem Imperatoris Ann. 1239 et 1240, Neapoli ex Regia Typographia 1786, p. 404. Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II p. 929.

[cccxl] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1854, Tomo IV pars I.

[cccxli] “… per loca Apulie, Calabrie et Principatus, …”, Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1854, Tomo IV pars I, p. 310. “… in cathedralis ecclesiis Sicilie et Calabrie …”, Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1855, Tomo IV pars II, p. 907. “… partes Calabrie et Sicilie …”, Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, p. 691. “Item in Sicilia, Calabria, Apulia et Principatu …”, Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, p. 1223.

[cccxlii] “statutum provisorem castrorum Sicilie citra flumen Salsum et totius Calabrie usque ad portam Roseti.” Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II, p. 413.

[cccxliii] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1854, Tomo IV pars I, pp. 460-462.

[cccxliv] “ad justitiarios, secretos, magistros camerarios, portulanos et universos officiales per totatm Siciliam, Calabriam, terram Jordanem, valle Gratis, Principatus et Terram Loboris statutos.”. Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1857, Tomo V pars I, p. 637.

[cccxlv] Winkelman E., Acta Imperii Inedita Seculi XIII, Innsbruck 1880 pp. 629 n. 810.

[cccxlvi] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1857, Tomo V pars I, pp. 606-623.

[cccxlvii] Costitutiones Regum Regni Utriusque Siciliae Mandante Friderico II Imperatore … et Fragmentum Quod Superest Regesti Eiusdem Imperatoris Ann. 1239 et 1240, Neapoli ex Regia Typographia 1786, p. 404. Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II p. 929.

[cccxlviii] Ughelli F., Italia Sacra, t. IX, coll. 476-478.

[cccxlix] Il documento conservato all’Archivio Arcivescovile di Santa Severina, ma non archiviato, risulta attualmente tra quelli in attesa di restauro.

[cccl] De Leo P., Documenti cit., pp. XX, XXIV, XXXIII, 146-147, 152-154, 155-157, 158-160.

[cccli] De Leo P., Documenti cit., pp. 138-140.

[ccclii] Reg. Ang. XX, p. 249.

[cccliii] Per l’elenco delle terre appartenenti ai due giustizierati fino a questo periodo: Reg. Ang. XIII, p. 267; XVII, pp. 57-58. Minieri Riccio C., Notizie Storiche tratte da 62 Registri Angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, 1877.

[cccliv] “Catensarium, Taberna, Scilla, Symerus, Barbarum, Genico castrum, Mausurica cum casalibus ipsarum terrarum, Policastrum, Tracina, Castella, Rocca Bernarda, Sancta Severina cum casalibus suis, Sanctus Iohannes de Monacho, Cotronum cum casalibus suis.” Reg. Ang., XXII, p. 89 e XXXVI, p. 81.

[ccclv] Reg. Ang. XXIII, pp. 269-270.

[ccclvi] De Leo P., Documenti cit., p. XXVI e nota n. 152.

[ccclvii] In un atto del 25 settembre 1346 stipulato in San Giovanni in Fiore, troviamo “Petromarius iudicis Guiscardi de Petrafitta, publicus per totam provinciam Vallisgratis et Terrae Iordaniae (sic) authoritate regia notarius”. De Leo P., Documenti cit., pp. 180-182.

[ccclviii] “Instrumentum super possessione tenimenti 1319, de Fiuca 1315”. “Pel territorio denominato Fluce sito tra i fiumi Neto e Vitrabo già conceduto al munistero di Fiore dall’imperatore Federigo II, ebbe il munistero suddetto una controversia con Andrea de Mesuraca de Strongolo, la quale dedotta dinanzi al giustiziero della Valle di Grate e della Terra Giordana Nicola di Plumbarola milite, fu dal medesimo e dai suoi giudici nel dì primo febbraio 1315 nella terra di Ypsigrò, dopo veduti ed osservati i privileggi del munistero ed altre scritture delle parti, ed intese le medesime, decisa in pro del munistero ed imposto ad Andrea perpetuo silenzio, presenti Guglielmo vescovo di Umbrjatico e moltissimi testimoni. Della qual decisione e di quanto occorse per la medesima se ne rogò pubblico instromento da notar Simeone de Spetiano della Terra di Ypsigro”. De Leo P., Documenti cit., p. XVI.

[ccclix] De Leo P., Documenti cit., pp. 166-169.

[ccclx] De Leo P., Documenti cit., pp. 174-176.

[ccclxi] De Leo P., Documenti cit., pp. 183-184, 185-189, 254-256, 257-262.

[ccclxii] De Leo P., Documenti cit., pp. 177-179.

[ccclxiii] De Leo P., Documenti cit., pp. 170-172.

[ccclxiv] “Magnifico Nicolao Ruffo Comiti Catanzarii Consiliario privilegium concessionis tituli Marchionis super eius civitate Cutroni attenta eius claritate generis et servitiis prestitis Regi Carolo tertio patri nostro et nobis, qui debeat investiri per vexillum ut moris est per Magnificos Henricum de Sancto Severino militem Bellicastri et Carolum Ruffum Montis Alti et Coriliani Comites consanguineos, Iordanum de Arenis baronie Arenarum utiliter dominum et Benedictum de Aczarolis militem Consiliarios, seu duos vel unum ex ipsis prout eis aptitudo dabit. Sub datum Gayete die 18 octobris 14 Indict. An. 1390. Reg. 1390 B. n. 362 fol. 21t.”. Minieri Riccio C., Notizie storiche tratte da 62 registri angioini dell’archivio di stato di Napoli, Napoli 1877, p. 99.

[ccclxv]  “… Cotroni cum marchionatus ac Catanzarii civitatis, cum comitatus dignitate / titulo et honore huiusmodi quae marchionatus et comitatus dignitatis titulos et honores, necnon Cotroni marchionatum et catanzarii comitatum / intregros ipsiusque et cotroni Civitatem predictarum Casalia districtus jura / jurisditiones et pertinentias universa ac ypsigro cum pertinentiis Aligii melixe / feudi s(an)cti stephani et policastri Rochebernardi mesurace castellorum / maris Tacine et s(an)cti mauri de Caraba Roche s(an)cti Juliani Gimiliani / Tirioli et Rosauni terras (cum Cutri s(an)cti Johannis de monacho papanichifori Cromiti Apriliani mabrocoli misicelli lachani Crepa / coris massanove et turisinsula Casalibus) necnon castri maynardi / Barbari cum Cropano ac sancti niceti Baronias cum pertinentiis / et fortellitiis earumdem. Item quoque Castrivetus cum membro / tenimento placanice Et cultura s(an)cti fili ac favato et pellacano Ad / terram roccelle s(an)cti victoris de provincia calabria citra et ultra nec / non Cabellam sete predicte civitatis Catanzarii et aliorum locorum / eidem marchioni iam dudum per Carolum iij Bonamemorie concessas et / Concessa Ac ladizlaum eiusdem regine germanum sucessive Jherusalem et / sicilie dive memorie reges confirmatas et confirmata, … necnon / eadem marchioni terram que dicitur taberna Catacen(sis) dioc(esis) …”. ASV, Reg. Vat. Vol. 355, ff. 287-288.

[ccclxvi] “Polissena, nel 1417, otteneva dalla Regina Giovanna il «mero e misto imperio» su numerosissime terre di Calabria, tra cui Cariati, Scala, Verzino, Rocca di Neto, Campana, Bocchigliero, Cerenzia, Caccuri. Esse formavano già o formarono in seguito, unitamente ad Umbriatico, «lo Stato» di Cariati.” Maone P., La contea di Cariati, in ASCL. 1963, fasc. III-IV, p. 318.

[ccclxvii] Pesavento A., Metamorfosi in un territorio, in La Provincia di Crotone, 1999, p. 18.

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Santa Elena e Santo Pantaleone, due grange nella bassa valle del Neto

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Ruderi di Santa Maria di Corazzo

Ruderi di Santa Maria di Corazzo.

Una platea cinquecentesca della grancia di Santo Pantaleone dell’abbazia cistercense di Santa Maria di Corazzo in territorio di Santa Severina

In un inventario di scritture appartenenti alla chiesa e alla mensa arcivescovile di Santa Severina vi è un “Libretto in 8 foglio dove sono notate le robe dell’Abadia di S. M.a di Corazo”.

Il manoscritto conservato nell’archivio arcivescovile di Santa Severina nel fondo arcivescovile 002A ff. 83a-83f è intitolato “S.ta M.a de Corazo. 1588. Nota seu Inventario delle robbe tiene in questo t(er)ritorio l’abatia di S.ta Maria di Corazo fatta per D. D.nico Paparuggero procuratore à 25 di 7bre 1588”.[i] In esso sono descritti i terreni ed i censi che l’abbazia possedeva nel territorio della città di Santa Severina e la trascrizione in copia del privilegio, concesso all’abbazia dall’imperatore Federico II nel settembre 1225, riguardante il tenimento di Santo Pantaleone, all’interno del quale erano situate le proprietà dell’abbazia.

La grancia della abbazia di Corazzo, detta di Santo Pantaleone, si estendeva tra la riva destra del fiume Neto e i territori di Crotone e di Santa Severina ed era attraversata dalla via pubblica che, guadato il fiume Neto, si dirigeva verso Crotone. Essa alla fine del Cinquecento era composta da undici tra terre e gabelle, una in territorio di Crotone e le rimanenti in territorio di Santa Severina, e da dieci censi.

 

La Platea

La compilazione della platea per mano del canonico Domenico Paparuggero di Santa Severina fu fatta in occasione di una delle tanti liti, che videro contrapposti coloro che avevano in fitto i beni dell’abbazia ed i proprietari delle terre vicine, che si vedevano violati nei loro diritti dalla presentazione di privilegi spesso manomessi ed alterati dell’abbazia. Nel caso in oggetto si trattava di una parte di terreno della gabella di Cafiri. Il canonico possedendo alcuni vignali in questa località cercò di allargare le sue proprietà usurpando le terre dei vicini, facendole passare come terre appartenenti all’abbazia, di cui egli era procuratore.

libretto s. maria di corazzo 1588

Il libretto.

“Nota seu inventario della grancia di S.ta Maria di Corazzo di tutti li terreni censi et entrate poste nel territorio di S.ta S.na rendenti à detta grancia di abatia fatta per me Donno Minico Paparuggero. Adi 25 di sette 1588.

Im p.s La gabella di Caramallo posta nel territorio di Cotroni confine brasimati confine S.ta Marina di Cabria maria et la gabella di maldotto la via publica che se va a cotroni et altri confini.

La gabella di Filatto posta nel territorio di S.ta Sev.a loco ditto Corazzo confine la foresta del S.r Carlo Susanna la gabella del S.r fabio longo la via pub.ca et altri confini Un altro pezzo di t.ra separata di detta gabella confine la gabella di S.to Gioe.tt.a (battista) et altri confini.

La Gabella chiamata la Volta di Corazzo posta in detto territorio loco detto Corazzo confine la volta del S.r Carlo Susanna et confine la fiumara di Neto et gabella di Corazzello et altri confini et detta gabella è prato statuito.

Casino di Corazzello

Il casino di Corazzello.

La gabella del Gramaro posta nel p.tto territorio confine la valle della vecchia di detta abatia confine da una parte le t.re di gioe cosentino et altri confini.

La gabella di Mutro confine la detta gabella di gramaro et la gabella di cipodero et la gabella della cu(tu)ra del Ill. Sr Conte

La gabella della valle della vecchia confine la gabella del gramaro e la gabella del pirito di detta abatia et confine la cu(tu)ra seu cuturolla.

Gabella della Cutura seu Cuturella confine la gabella della Valle della Vecchia et la gabella del cantone et altri confini.

La gabella del cantone cammara chiusa confine la gabello dello pirito et la foresta di gio. pietro di setteporte et la gabella di fota.

La gabelluzza qualva con la gabella del cantone et confina col vallone di fota con altri confini.

La gabella del pirito confine la valle della vecchia confine la gabella del cantone et lo cugno della terra di zoiara et confine la chiusa delli cosentini et detta gabella del pirito è prato statuito.

Una costa di tt.e dece incirca con terreno boscuso confine le grutti acqua fundente abascio di gioe cosentino et confine le chiuse di detto gioe et confina con la gabella del gramaro et altri confini.

Torre di Corazzo

La torre di Corazzo sul fiume Neto

Censi rendono a detta grancia

Le molina del S.r Carlo Susanna poste a corazzo rendono carlini vinti grana dui l’anno D. 2 – 2

Uno vignale fu delli sacchi à turrutio lo possede lospitale di detta città di S.ta Sev.a et confine li terri delli detti sachi et altri confini rende ut s.a D. 0. 1 carlini dui.

Le grutte di tornu confine la valle della vecchia le possede marcello lherede del qo bernardo vaccaro rendono anno quolibet carlini dui D. 0.1.0

Le grutti di tornu le possedono gioe cosentino rendono ut s.a carlini cinqui D. 0.2.10

Una chiusa fu del q.o Donno anselmo posta a torrotio confine la chiusa di gioe cosentino et lo pirito lo possede gioe cosentino rende ut s.a gr. sei D. 0.0.6

Le vigne di donno b.ta tramonte poste a cafiri confine li terre di gio. fran.co lepira la via publica et altri confini rendono ut s.a carlini quattro D. 0.2.0

Uno vignale posto a cafiri lo possede gio. fran.co lepira confine le vigne di donno b.ta tramonte et altri confini rendono carlini dui D. 0.1.0

Uno loco fu dela fusara posto a cafiri confine l’oliveto del herede del q.o dieno infos.o lo possede la detta herede rende ut s.a grana cinqui D. 0.0.5

Uno pezzo di terra seu scinetto lo aperse mastro meriano confina con lo loco della detta fusara et la costa delli monaci con lo vallone di cafiri la via pp.ca lo possede l’herede del q.o dieno infos.o rende grana dui et mezo D. 0.0.2 ½

Uno loco sotto le timpe di portanova confine la chiusa delli monaci di S.to domenico et confine l’oliveto del q.o dieno infos.o fu de l’arcidiacono donno Petruzzo del sin.co lo possede lo monasterio di s.to Dom.co rende anno quolibet ut s.a gr. dece D. 0.0.10”.

firma Paparugerio

Firma autografa di D. Dominico Paparogerio.

Il privilegio dell’imperatore Federico II

Nell’occasione della lite il canonico Paparuggero, oltre a descrivere i beni e le rendite dell’abbazia in territorio di Santa Severina e di Crotone, presentò anche una copia del privilegio concesso dall’imperatore Federico II riguardante la grancia di Santo Pantaleone.[ii] Dalla comparazione tra la copia del canonico con l’originale si nota una discordanza nella descrizione dei confini. Infatti nella copia presentata dal canonico il confine è allargato fino a comprendere anche il colle di Cafiri (“serram et ferit ad collem quae dicitur de capheri et inde descendit”).

la località corazzo

La località Corazzo.

Dalla copia del canonico: “… tenimento de S.to pantaleone … Ab oriente est vallis, quae dicitur de filatto, et inde tendit, et ferit ad rivum, quod dicitur de mutrò, et vadit per terras, quae dicuntur de curvolino, et per terras nostrae Curiae, et inde ascendit et ferit ad serram quae dicitur caramallum, inde vero ferit ad terram monasterii calabromariae, et inde transit ad Terram Comitis, et inde ascendit per serram serram et ferit ad collem quae dicitur de capheri et inde descendit et ferit ad vallonem qui dicitur de Fota, et inde ascendit dictum vallonem et ferit à parte meridiana ad vallonem qui dicitur de arcurio, et inde ascendit et ferit ad serras quae dicuntur de Gaberrini, ab Occidente, et inde descendendo ferit ad rivum Ferrati, et inde descendendo per torrentem Ferrati, et transit per subtum ecclesiam S.tae Venneris, et inde descendendo per torrentem S.tae Venneris ab Aquilone ferit subtus ecclesiam S.ti Blasii, et inde ad viam publicam et inde ascendendo per viam publicam ferit ad timpas quae dicuntur de Rau, et inde ferit ad terram S.tae Mariae de Arbore, et inde ascendit ad serram quae dicitur de Macri et inde descendit ad vallem de filatto unde incepimus …”.

Dal “Liber continens multa Imperatorum et Regum Privilegia … ad favorem Abbatiae S. Mariae de Coratio …”: “… quod tenimentum dictum de Sancto Pantaleone … ab Oriente est vallis, quae dicitur de Filatto, et inde tendit, et ferit ad rivum, quod dicitur de Mutro, et vadit per terras, quae dicuntur de Cirulino, et per terras nostrae Curiae, et inde ascendit, et ferit ad serram, quae dicitur Caramallum, inde vero ferit ad terram Monasterii Calabromariae, et inde transit ad Terram Comitis, et inde ascendit per seram super, et ferit ad vallonem, qui dicitur de Fota, et inde ascendit dictum vallonem, et ferit à parte meridiana ad vallonem, qui dicitur de Actuiris, et inde ascendit, et ferit ad serras, quae dicuntur de Gambairini, ab Occidente, et inde descendendo ferit ad rivum Ferrati, et inde descendendo per torrentem Ferrati, et transit per subtum Ecclesiam Sanctae Venneris, et inde descendendo per torrentem Sanctae Venneris ab Aquilone ferit subtus ecclesiam Sancti Blasii, et inde ad viam publicam ferit ad timpas, quae dicuntur de Rau, et inde ferit ad terram Sanctae Mariae de Arbore, et inde ascendit ad serram, quae dicitur de Macri, et inde ferit ad vallem de filacto, unde incepimus …”.[iii]

 

Un canonico intraprendente

Dalla visita fatta nel maggio 1559 alla cattedrale di Santa Severina dal vicario Giovanni Tommaso Cerasia sappiamo che Donno Domenico Paparuggero era cappellano dell’altare di Sant’Agazio della famiglia Paparuggero, rettore dell’altare o oratorio di San Benedetto della famiglia Modio e cappellano dell’oratorio di San Jacobo della famiglia Palermo. Egli inoltre era cappellano della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista,[iv] carica che conserverà ancora nel 1601(R.o da D. Dominico Paparogiero per Santo evangelista per X.a).

Egli abitava in parrocchia di San Giovanni Evangelista e possedeva una vigna e parte di costa in località “Cafiri”per le quali pagava ogni anno un censo di grana quattro alla mensa arcivescovile (Donno Minico Paparuceri per una vigna e parte di costa paga lo anno grana quattro).[v]

Il primo giugno 1564 va a far parte della confraternita del SS.mo Sacramento, della quale sarà anche procuratore negli anni 1568/1569 e 1577/78.[vi]

In seguito lo troviamo come procuratore del cardinale di Santa Severina Giulio Antonio Santoro in alcuni atti riguardanti il pagamento della decima alla mensa arcivescovile.[vii]

Il 18 dicembre 1574 Il Paparugerio dichiara che nei mesi passati si era aggiudicato all’asta pubblica la gabella Fisa di Volo per ducati 400, venduta ad istanza dell’Ill.mo Francesco Carrafa per i diritti, che aveva sopra la gabella con il mag.co fu Joanne de Martino.[viii]

L’acquisto è però ostacolato dal ricorso di Silvestro de Martino, il quale dichiara di essere il vero padrone della gabella e quindi chiede che sia revocata la vendita. Il De Martino si obbliga a pagare i 400 ducati che aveva sborsato il Paparugerio, il quale tuttavia rifiuta l’offerta e vuole prendere pieno possesso della gabella.[ix]

Sempre in questi anni, il 23 ottobre 1576, Donno Dom.co Paparugerio acquista per ducati 10 da Antona de Aminò un casaleno con grotta accanto al casaleno e alla sua abitazione in parrocchia di San Giovanni Evangelista.[x] Un atto notarile dell’undici dicembre 1576 ci informa che il canonico è ormai entrato nel mondo degli affari e del commercio del grano gestito dall’abate commendatario dell’abbazia di Corazzo e di coloro che prendono in fitto i beni dell’abbazia. L’atto che ha per protagonisti i fratelli Benedetto e Iacobo Alberti di Firenze ed il canonico Domenico Paparugerio, solleva di ogni responsabilità il canonico a riguardo di un pagamento. Nel marzo 1576 il mag.co Gio. Battista Berlognetti de Bononia alias lo cavaleri, sia come esattore che procuratore e percettore delle entrate e frutti dell’abbazia di Santa Maria di Corazzo, doveva dare ducati 250 a Petro Francesco Alberti, padre di detti De Alberti. La consegna del denaro era stata fatta dal canonico e riguardava l’acquisto di una certa quantità di frumento.[xi] Il primo luglio 1578 il reverendo Domenico Paparugerio acquista per ducati 300 da Alessandro Infosino e dalla madre Antonella Trombatore la metà di una casa con tre mulini con gli acquedotti ed i prati dei mulini contigui in località “la Nuce jux.a vallonem dela ghane et flumen Nethi gabellam dela Nuce Archiepal. Ecc.e et alios fines”.[xii] Il 23 dicembre dello stesso anno in Santa Severina interviene nei capitoli matrimoniali tra Innocentia Piccichino, figlia di Geronimo, e Cola Zurlo, figlio di Antonio. Come zio di Cola Zurlo promette ai futuri sposi “uno paro di yenchi deli doi anni”.[xiii]

 

Il canonico e le terre dell’abbazia

La grancia di Santo Pantaleone originariamente corpo organico, costituito da una fattoria con magazzini, chiesa, abitazioni dei conversi, mulini ecc., con il passaggio della amministrazione dell’abazia dall’abbate agli abbati commendatari, quasi sempre cardinali lontani dall’abbazia, cominciò ben presto a decadere. Nel Cinquecento essa era solo formata da un insieme di gabelle, mentre degli edifici non c’era più traccia. A ricordo della fattoria rimanevano i mulini sul fiume Neto, ma non appartenevano più all’abbazia ma a Carlo Susanna che per questi pagava un censo annui. Anche alcune parti di gabelle erano state cedute a particolari previo il pagamento di un censo annuale. La grancia, ormai formata da solo gabelle e censi, era messa all’asta pubblica dal procuratore dell’abbate commendatario ed era affittata con alcuni patti e condizioni al miglior offerente di solito per tre anni e con il pagamento annuo parte in ducati e parte in grano. Di solito colui che si era aggiudicato la grancia subaffittava le singole gabelle a coloni con pagamento in grano ed ai mandriani con pagamento in denaro.

Il 29 settembre 1577 nella terra di Cutro, con atto del notaio Marcello Santoro,[xiv] il mag.co Mario Caputo di Cosenza procuratore dell’Ill.mo e R.mo D. Lorenzo Campeggio, arcidiacono di Bologna, commendatario e amministratore dell’abbazia di Santa Maria di Corazzo, locava ed affittava per tre anni, “candela extinta ut ultimo licitatori et plus offerenti”, a donno Domenico Paparugerio di Santa Severina le entrate e le gabelle dell’abbazia di Santa Maria di Corazzo situate in territorio della città di Santa Severina per tomoli 400 di grano e ducati 60 annui. Nel documento sono descritte le gabelle e le condizioni stipulate tra i due contraenti. Le gabelle erano: “La gabella de la valle de la vecchia/ la gabella de mutrò/ la gabella di filatto/ la gabella delo gramaro/ la gabella dela cuculla/ la gabella delo cantore/ la gabelluccia in fronte delo cantore et fota/ la gabella delo perito seu prato statuito/ la gabella de corazo chiamata la volta de corazo che similmente è prato statoito quali tutte dicte gabelle sono n.o nove nel ter.o di s.ta sev.na suis locis et finibus limitate et de più la gabella de caramalla sita nel ter.o di cotrone che è cam.ra chiusa jux.a la consuet.ne che è in detta città et di più tutti li censuali che s’hanno soluto et soleno percipere in quella città di s.ta sev.na quali sup.te gabelle ut supra notate esso mag.co procuratore l’affitta ad esso donno domenico paparuggero per prezo di ducati sessanta l’anno per tre anni continui settima ottava nona indizione et per tumuli di grano quattro cento alla misura napolitana per ciaschiduno anno et promite ditto donno dominico pagare ditti ducati 60 annui anno per anno et fare la prima paga alla fera di molera anno 1579 la seconda paga allaltro molerà sep.e ind.s 1580 et lultima paga dele p.ti d.ti 60 allaltro molerà 1581 et li preditti tumuli quattro cento di grano pagarlo et fare la prima pagha nel mese di augusto sep.me ind.s 1579 la sec.da allaltro augusto 1580 et lultima pagha delli pred.ti tta 400 annui ad augusto dela nona ind.e 1581. Il grano che dovrà essere “boni netti et non bagnati ne spontati” dovranno essere conservati nel magazzino in Santa Severina, “risico et periculo et fortuna” tanto per la conservazione quanto per il magazzino a spese dell’affittuario. “Vero volendo esso m.co proc.re conservare di una annata in unaltra allora detto donno d.nico sia obligato come è detto di sopra, sia esso m.co proc.re sia tenuto pagharli la spesa di uno maghazeno per la conservatione deli grani vecchi solamente … con pacto che volendo lo grano esso mag.co proc.re nella città di Cotrone che pagando esso m.co proc.re il maghazeno esso donno d.nico sia tenuto portarcilo in tempo di consignatione di aug.sto et volendo esso donno d.nico tramotare li dicti prati di una gabella in unaltra et quelle in gabellare in modo suo sia ad libero arbitrio di esso dono d.nico et de più dona et concede et promette esso m.co pro.re la defensione per detto triennio ad esso donno d.nico et libera potestate et facultà di tener dette gabelle tanto per se come per intermedia persona et inognaltro medio modo che li parera con potesta de di possirli sublocare ad altri ad sua libilo con potesta ancora di possire hamobrare il prato secondo il solito et come ne sta in possessione l’abbatia con questo però che à natale de l’ultima annata esso donno d.nico debba lasciare il terzo di tutte le gabelle de santa severina vacante acciò li novi massari ci possano fare mayisi jux.a il solito di s.ta s.na preter in la gabella del cantore et gabelluzza et caramallo quali sono camere chiuse si donano di aug.sto ad augusto senza lasciare il tempo solo il solito de le camere chiuse de cotrone et s.ta s.na promettendo de piu esso proc.re pagare la rata contigente al seminario de s.ta s.na et altri denari de dicta abbatia ma paghandoli esso donno d.nico vole esso proc.re et promecte farcili boni alli suoi paghamenti anno per anno”. Furono garanti Alfonsus Novellisius, Horatius Marayenus e Antonius de Petruza.

Il legame del Paparuggero con l’abbazia di Corazzo continuerà anche negli anni seguenti, infatti nel settembre 1588 come procuratore dell’abbazia di Santa Maria di Corazzo compilerà la platea dei beni della grancia di Santa Severina. Sempre occupato nel commercio e nel contrabbando del grano nel febbraio 1585 il canonico protesta contro Scipione Rotella, luogotenente del tesoriere di Calabria Ultra, che lo accusa di non aver presentato la nota del proprio grano e quindi di avere imboscato il grano. Egli “se offere pagare quello che per quella pretensa pena si pretende con protestatione pero de recuperarli dalla regia corte et con expressa protestatione dello agravio che li si fa. Egli fa presente di essere “clerico et della jurisditione ecclesiastica”.[xv]

 

La grangia di Santa Elena in territorio di Rocca di Neto

La chiesa di Santa Helena con i suoi possedimenti risulta tra le prime donazioni che l’abbazia greca di Santa Maria del Patir, situata in territorio di Rossano, ebbe al tempo dei Normanni. Ne furono benefattori il cavaliere Guglielmo de Grandsmenil e la madre Mabilia, contessa di Crotone e figlia di Roberto il Guiscardo e della principessa longobarda Sikelgaita. Infatti nel maggio 1130 in Messina il re Ruggero confermava a Luca, abbate del monastero di Santa Maria de Patirio, tutti i possedimenti e tra questi figurano anche “rebus donatis a Guglielmo Grantdtemanel: homines, quos habebat de Rocca S. Severinae cum omnibus eius possessionibus”.[xvi] “Le terre di Rocca di Santa Severina con i suoi villani, donate da Guillaume de Grantmenil, le troveremo citate anche in seguito tra i possedimenti dell’abbazia greca.[xvii]

rocca di neto

Rocca di Neto (KR).

La chiesa con i suoi possedimenti (grancia), pur essendo nel territorio della diocesi di Santa Severina, era situata a sinistra del fiume Neto, sotto l’abitato di Rocca San Pietro de Cremasto, l’attuale Rocca di Neto (“iuxta flumen Neti subtus Roccam S. Petri de Cremasto”).[xviii]

Il 25 agosto 1198 il papa Innocenzo III confermava a Nicodemo, archimandrita del monastero di Santa Maria de Patirio, e ai suoi frati che seguivano la regola del beato Basilio, ogni possesso, bene, privilegio, diritto ecc. Nella bolla che elenca le chiese dipendenti dal monastero troviamo che il monastero del Patire possedeva tre chiese nel territorio della arcidiocesi di Santa Severina e precisamente la chiesa di Sant’Elena di Neto in diocesi di Santa Severina, la chiesa di San Costantino de Asila in diocesi di Isola e la chiesa di San Dionisio de Casobono in diocesi di Umbriatico: “… eccl.am Sanctae Helenae de Neto cum omnibus pertinentiis suis … eccl.am Sancti Constantini de Asila cum omnibus pertinentiis suis … Eccl.am sancti Dyonisii de Casobono cum omnibus pertinentiis suis …”.[xix]

santa elena120 - Copia

Il documento che menziona le chiese di Santa Helena di Neto, San Dionisio de Casobono e San Costantino de Asila.

Durante il periodo svevo la chiesa di Sant’Elena con le sue pertinenze ci appare come una unità produttiva situata nella parte bassa della vallata del Neto lungo l’asse viario, sul quale sono situate altre realtà religiose – economiche dell’abbazia. Sull’asse che va verso il Tacina troviamo partendo da Rossano la chiesa di San Dionisio di Casubono, Santa Helena di Neto e San Costantino de Asila.

Il 27 agosto 1216 in Spoleto il papa Onorio III confermava all’archimandrita Nicodemo i possedimenti del monastero tra i quali le chiese di Santa Elena, di San Costantino e di San Dionisio.[xx]

La chiesa situata presso il guado del Neto ed in una zona particolarmente adatta al pascolo e alla semina, ha nelle sue vicinanze i possedimenti della chiesa di Santo Nicola dell’abbazia di San Pietro di Ninffi, dell’abbazia di Corazzo e della sua chiesa di Santo Mauro ed i possedimenti dei Florensi. Questa vicinanza con i beni di altre potenti abbazie determinerà spesso dei contrasti.

Ritroviamo infatti richiamata la grancia di Sant’Elena in una lite tra il monastero florense e l’abbazia del Patire. Nel 1246 il vescovo di Strongoli Guillelmus fu giudice ed arbitro di una lite che opponeva l’abate Mattheus del monastero di San Giovanni e l’archimandrita Nymphus del cenobio del Patire di Rossano. La questione oggetto di contesa era il diritto di presa d’acqua e di passaggio di un acquedotto, che attraverso le proprietà dei florensi alimentava il mulino della fattoria della grancia di Santa Helena del monastero di Santa Maria del Patire. Il vescovo riconobbe il diritto del monastero del Patire alla presa e al passaggio dell’acqua per alimentare il mulino e allo stesso tempo ai florensi concesse il diritto di potervi macinare.

 

Verso la decadenza

La decadenza dell’abbazia del Patire durante gli ultimi secoli del Medioevo con l’amministrazione da parte degli abbati commendatari, determinò anche la fine della grancia di Sant’Elena, che divenne solo un insieme di gabelle, che erano date in affitto ai feudatari ed ai nobili del luogo. Anche la chiesa di Santa Elena con i suoi edifici decadde.

Una copia della platea del 1533 del monastero di S. Giovanne in Fiore ci indica dove erano situati i possedimenti, che l’abbazia del Patire possedeva ancora in territorio di Rocca di Neto.[xxi]

Descrivendo i beni reintegrati al monastero dall’abbate commendatario Salvatore Rota, per grazia ottenuta dall’imperatore Carlo V, troviamo che “in la Rocca di Neto”, “secondo lo Instrumento, et accordio fatto tra la Un(iversi)tà, et Vuomini de dicta Rocca, et lo prefato Sig.r Abbate” vi erano alcune vigne in località “Machiole” che confinavano con le vigne di “Santa Maria de lo patere” vicino alla “Fiomara vechia de Neto” e alla località “volta de gollina”.

Maggiori informazioni la platea ci fornisce sui beni dell’abbazia del Patire nella descrizione dei confini del “tenimento de Iuga” (fluca, suca, iuca). Il documento compilato su vecchie carte è ricco di informazioni su quella parte del territorio vicino alla confluenza del Vitravo con il Neto, dove oltre alle terre del monastero florense ci sono quelle di Santa Maria del Patire e quelle di San Pietro de Niffi con chiesa di “San Nicola de fuca”.

“Et in primis semo stati in lo loco dove si dice la volta de gavello dove nce sonno Terre de dicta Abbatia, seu Monasterio in magna quantitati, consistenti con tali confini V(idelicet) da uno termino grande, che destende da capo la serra de la Valle de la mortella, et de la valle de la bruca, quali Terreno verso ponenti sono le Terri de Santa Maria de lo pater, et va lo termino ad pendino, et passa una via publica, che vene da la Terra, et va ad Suca verso la volta de lo dattilo, et lo Termino ad pendino, et fere de dericto allo Fiume de Neto, et neto ad pendino, et fere ad uno altro termine con fine alli Terre de S. Petro de Niffi, nelle quali Terre de S. Petro nce una Cappella chiamata S. Nicola de fuca, et lo termino adirto per mezo de uno pede de piro grande, et fere per deritto ad uno publico vallone di acqua adirto, q.ali passa una via, che vene da un magazeno, et la galicata adirto et reversa ad uno timpone pizuto affachianti lo magazeno, et passa lo termino, che vene de S. Petro, q.ale pezzo de Terreno adirto, et fere ad un altro timpone pizuto, et destendi lo termino ad pendino, et piglia per la trazera, che vene de lo piano de fuca, et lo termino termino, verso orienti, puro Terre di S. Petro Camastro, et confineno alli Terre de S. Maria de lo pater, verso Tramontana piglia uno altro termino adirto de dereto alla Serra, che affachia alla valle de la bruca, et la Serra ad pendino verso vitravo, verso levante so le Terre de S. Maria, et verso ponente le T(er)re de S. Ioan(ne) et passa la via, che vene da la difesa, et de la Rocca, et va allo magazeno, et la Serra ad pendino verso vitravo, et destende allo vallone de l’aire de Curgulino, confine le Terre de li Capisacchi, et lo vallone adirto (a margine: Volta di Gavello) et esce alla via, che vene da la difesa, et piglia li termini de in pede la valle de lo lino, et li termini termini, et uno galise adirto, et fere alla difesa de la Terra, et per la Serra Serra de la difesa, et esce ad una Serra chiamata le Serre Serre, et fine fra la Valle de la mortilla, et la Valle de la bruca affacchianti allo piano de lo Thesauro verso Neto, quale sonno da circa quaranta, o cinquanta salmati de Terre fertili, et infertili tt:e 50”. “In lo piano de Suca tene d.o Monast:rio de S. Ioanne verso lo magazeno uno altro Territorio confinato in questo modo V(idelicet) Da lo Vallone de Vitrano, et piglia uno termino verso Santo Georgio, et lo termino termino, et fere alle Terre de S. Maria de lo pater termino mediante, verso ponente, et lo Serrone, Serrone, et fere verso le aire de Iuca m(o)lto peraini medianti, et fere dicto Serrone allo Crittone de la Calca de la lupara, et le Serre Serre affachianti ad Neto, confinando alle Serre de S. Petro Camast.o alla via che vene da la Motta allo magazeno, et lo termino ad pendino, et fere ad Neto, et Neto ad pendino de li cerze grande de la volta de lo dattilo, et lo termino termino, et circunda per la volta de lo dattilo, et fere ad Vitrano, et Vitrano adirto, et conclude alli fini di S. Giorgio affronte le Terre de li Capisacchi, qualli Terre cossi circumdate, et confinati so lavoratorie, et so da circa salmati cento tt:e 100. (a margine: Piano di Suca”)

 

Un pezzo di terra detto Santa Elena

La platea del monastero florense del 1533, anche se richiama molti toponimi, non fa cenno al luogo dove era situata la chiesa di Santa Elena. Un riferimento lo troviamo in una successiva platea del monastero florense. Dalla platea di tutti i beni, diritti e rendite, spettanti all’abbazia di San Giovanni in Fiore, compilata durante il periodo 1652-1654[xxii] estrapoliamo che “Il Sig.r Gio Vito Pignatti possiede le Terre d.e il piro russo, dove Si fanno le mandre Sottane, e le Terre, che furono di Bartolo Picallo, che confina insieme, e pagano lo mezzo terraggio à Santa Maria dello Patire, e confina ancora colla Valle della martella verso Tramontana, e verso ponente con Valle torta, e la via, che è Sopra marinetta. L’istesso Gio Vito possiede le Terre poste alla Valle della martella e Cesauro, che rendono alla detta Abb.a del patire, e confinano verso Tramontana con la Valle della Ducca, e d’altro colla difesa, e da basso con la via, che Si và al dattilo. Item lo detto Gio Vito possiede un pezzo di Terra d.o S. Elena reddititio alla detta Abb.a del Patire, e parte con il patrimonio di esso sig.r Gio Vito, e con il fiumarello, e Sopra con il marinetto. Item lo detto possiede il patrimonio, che è Suo libero, e confina col piano di lavello, e colle volte della pira. Item lo detto Gio Vito possiede un pezo di terra d.o di S. Elena reddititio alla detta Abb.a del patire, et un vignale poco distante dal d.o patrimonio, che è parimente libero del d.o Sig.r Gio Vito.Item lo detto possiede un pezzo di terra in loco d.o la Valle del Para sino, che fù delli Caponzachi, che confina con la gabella di Covarlino verso ponente, e Vitravo verso tramontana, e colle Terre di Pietro Paolo de Vito dall’altra parte, e con lo Vallone del piano delli fraili”.

 

La platea dell’abbazia di Santa Maria del Patire

La platea dei beni del Patire del 1661, redatta dal notaio Giovanni Battista Laurea di Castrovillari nel luglio 1661 su commissione del commendatario del Patire Cardinale Carlo Barberini, documenta una situazione ormai mutata e disgregata. Pur possedendo ancora un vasto patrimonio terriero valutato in circa 240 tomolate, dai diversi pezzi di terra, l’abbazia percepiva solo diritti di terraggio. L’abbazia aveva ancora un fondo di 20 tomolate nella contrada Bucca; un altro fondo di 12 tomolate, detto il Piano del Frasso; un fondo di 6 tomolate nella contrada Ferrate, presso cui possedeva un altro pezzo di terra di 12 tomolate; un predio di 20 tomolate nella località Cuscinetto; un altro di 12 tomolate e mezzo in contrada Valletorto; altro di 7 tomolate nella località detta Volte di Canello; altro di 12 tomolate in contrada Pino Russo; altro ancora di 30 tomolate nel luogo detto le Serre di Bartolo Pancari, altro di 20 tomolate nella località Tesauro, altro di 20 tomolate presso la Valle della Bucca, altro di 10 tomolate presso la Volta di Canello, altro di 20 tomolate presso la Valle della Serra, un predio di 9 tomolate in contrada Colla della Difesa, una vigna di 20 tomolate e terreni per 10 tomolate in contrada Ponticelli e in più diversi piccoli censi in denaro.[xxiii]

la gabella Sant'Elena

Il fondo Santa Elena quotizzato in territorio di Rocca di Neto.

L’abbazia manterrà ancora nel Settecento vasti beni a Rocca di Neto ed a ricordo della grancia rimarranno i toponimi “La valle di S. Lena” e “Volta di S. Lena”.

Dalla lettura del catasto onciario di Rocca di Neto del 1742 sappiamo che l’abbazia possedeva ancora terreni e diritti, anche se ormai si era persa la memoria dell’antica grancia con la sua chiesa, mulini, magazzini ecc.. All’inizio del Settecento dell’unità della grancia non rimaneva che un insieme di terreni senza alcun rapporto organico e culturale. Essi erano: La Valle della Bruca Sottana, La colla delle Mandre, La Colla della Lupara, Le Due Vie, La Serra di Bartolo Pancari, Li Serrati, Li Serratelli, Tesauro, Li Vignali di Polissena, Valle Sorta, La Valle della Mirtilla, Il Vignale di Salice, La Difesa della Trazza, Ponticelli.[xxiv]

santa elena124

In evidenza la via che attraversava il fiume presso la Rocca di Neto (Carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis 1889).

Ancora alla metà dell’Ottocento vi era il Bosco di Santa Elena nei pressi del quale si guadava il fiume Neto nei pressi della località “Passo del Carro” e per il “Varco di Santa Elena” si passava dalla sponda destra a quella sinistra del fiume Neto nelle vicinanza della contrada Corazzo.

 

Note

[i] AASS, 002A.

[ii]  “Una copia di privileggio pertinente à detta abatia qual confina tutte le sopradette gabelle et dette confine di privileggio è in carta bambace perche l’originale lo tiene il pro.re g.le di detta abatia et detto privileggio è in questo n. 27”.

[iii] “Privilegium Regis Friderici impetratum per Milonem Abbatem Curatii concedens et confirmans eius Abbatiae Tenimentum in territorio Maydae cum omnibus Iustitijs et rationibus et libertatem pascuorum pro animalibus d. Monasterii per d. tenimentum, nec non et alias terras, specialiter autem donans tenimentum Pantaleonis de anno 1225 mense 7bri. fol. 27.” BAV, 7572 Vat., ff. 27-29.

[iv] Visitationes 1559, AASS. 016B.

[v] Libro deli censi di S.ta Anastasia, 1555/1558, AASS. 004A.

[vi] Confrati novi descripti hoggie primo di di jugno 7.a Ind.s 1564, AASS. 001D, fasc. 3.

[vii] Patto, et cautela facta à Do. Dominico Paparogeri p.re de Mons.or Ill.mo Card.le di S.ta Sev.na et Cola de Alessio et pet.o barberi affictatori di la mandra deli Cotronei per la decima che compete à Mons.or Ill.mo Card.le per nova X.ma 5 ap.lis 1571.

[viii] AASS, Not. Marcello Santoro, V, ff. 38v-39r.

[ix] “In cospetto ex.tis D.ni Alfonsii Puyerii U.J.D. gub.re civ.tis S.ae Sev.ae et ad infrascrittam causam com.o deputato per sacrum Regium Consilium Reverenter comparet Nob.s Silvester de Martino et dicit q.d ex provisione fatta ad istanciam Presbiteri dom.ci pape rugeri per dominationem v.ram fuit sibi in iuntum et mandatum quod intra certum tempum cautelare et partem configere habeat eidem presbitero Dominico tamquam colonus gabelle ditte de fisa devolu esse comparens et dicit mandatum fuisse et esse nullum cum reverentia ex quo ipse prefatus Silvester fuit et est verus dominus ditte gabelle et non consentit nec consentere intendit a provisione et decreto fatto per R.m S.m Consilium super alienatione ditte gabelle, et in tendit ad dittum S.m R.m Consilium reclamare et ab … dittum decretum revocari facere quia non auditeis in juribus suis ac etiam intendit facere depositum ducatorum quatro centorum pro quibus fuit vendita ditta gabella ditto presbitero dominico pro causis proponendi in ditto S.o R.o Consilio et in omni alio iudice supremo et propterea petit ipsum non inquitari nec inquietare facere et de contrario …”. Protesta presentata il 26 marzo 1575 al governatore. AASS. 025D.

[x] AASS, Not. M. Santoro, VI, ff. 37v-38r.

[xi] AASS, Not. M. Santoro,VII, ff. 114-115. Il 19 ottobre 1574 i fiorentini Iacobo e Benedetto Alberti prendono in fitto da Hieronimo Maurina, procuratore dell’abbate commendatario dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, la grangia di Sant’Angelo de Frigillo di Mesoraca per annui ducati 800 e tomoli 24 di frumento. Il 26 febbraio 1577 subaffittano la grangia a Iacobo e Manilio Leone. AASS, AASS, Not. M. Santoro, VI, ff. 180v-181.

[xii] AASS, Not. M. Santoro, VII, ff.72v-73.

[xiii] AASS, Not. M. Santoro, VIII, f. 33.

[xiv] Nello stesso giorno e con le stesse modalità il procuratore affitta al mag.co Andrea Paghano le gabelle dell’abbazia situate nel territorio di Le Castella per tomoli 415 di grano annui con la condizione che “ad natale dell’ultima annata habia di lassare il terzo di dette gabelle per maisare li futuri coloni secondo il solito”. In territorio di Le Castella le gabelle dell’abbazia ad uso massaria erano: “La gabella dela fontana dela petra confine l’umbro cervino in fronte lo mare / la gabella dela valle de scazurro item la gabella delo frasso de santoro jux.a la gabella dele valle jux.a la gabella de luca scazurro la via p.ca et la gabella dela serra grande dela abbatia confina juux.a la gabella del passo de santoro sup.ro circum circa la gabella de lo pirayinetto item la gabella delo rigano confine la gabella dele valle di s.to joanne la gabella dela valle del ulmo et lo priayinetto p.ro item la gabella di cucuriace jux.a la gabella delo bosco de lo soverito de lo ill.mo duca di nocera et jux.a la gabella dela mortilla et lo vallone de tripani item la gabella delo merolo confine la gabella de s.to nicola e la gabella di ritani piccolo et l’umbro corrente item la gabella di ritani piccolo confine la gabella di ritano grande jux.a la gabella de la valle de l’ulmo et la gabella di s.to nicola et la gabella de corazo item la gabella de ritano grande confine la gabella de le cesine jux.a la gabella de l’ulmo jux.a la gabella de lo pirayinetto item la gabella de la lensata confine la via p.ca”. AASS, Not. M. Santoro, VII, ff. 5v-10r.

[xv] ASCz. Not. Jo.es Laurentius Guercius, B. 43, f. 1.

[xvi] Trinchera F., Syllabus, 139.

[xvii] Batiffol P., L’Abbaye de Rossano, Paris 1891, p. 18.

[xviii] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 517-520.

[xix] ASV. Arm. XXIX, f. 237.

[xx] Batiffol P., cit., p. 20.

[xxi] ASN, Real Militare Ordine Costantiniano, Libri maggiori e platee, busta 78I, ff. 118-120.

[xxii] ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, ff. 44-45.

[xxiii] Gradilone A., Storia di Rossano, Cosenza 2009, p. 206.

[xxiv] Spizzirri M., Rocca di Neto nel catasto del 1742, Rossano1995, pp. 224-225, 236.

 

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Dal mito della città di Pandosia al vescovato di Cerenzìa

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La timpa

Cerenzìa (KR) panorama di località Cerenzìa Vecchia.

“Sono in questa Provincia dieci città (…), e tra terre e castella 160, che in tutto sono 170, oltre la famosa, et antica Pandosia distrutta”.[i]

 

Nel mito e nella storia

Le fonti letterarie qualificano Pandosia come un’antica realtà urbana. Riferendo quanto aveva potuto apprendere dalla tradizione che era giunta sino a lui, Strabone (sec. I a.C. – I d.C.) afferma infatti che, “un tempo”, Pandosia sarebbe stata la “residenza regale dei re degli Enotri”[ii]. Tale antichità trova riscontro nel Chronicon di Eusebio, dove la sua fondazione risulta coeva a quella di Metaponto, essendo registrata al tempo della seconda olimpiade (773/2 a.C.), quando “In Italia Pandosia et Metapontius conditae”.[iii]

Secondo altre fonti, invece, la città sarebbe stata una fondazione greca. Πανδοσία risulta tra le città greche elencate nel Periplo dello Pseudo Scilace,[iv] opera ritenuta del sec. IV a.C. mentre, assieme a Crotone e Thurii, lo Pseudo Scimno (sec. II a.C.) la ricorda quale fondazione degli Achei del Peloponneso.[v] Ad un’antica civilizzazione greca allude anche lo Pseudo Aristotele che, nell’ambito delle cose meravigliose raccolte in questo scritto, riferisce che, in molti luoghi dell’Italia, esistevano le testimonianze lasciate da Ercole lungo il suo percorso. Presso Pandosia, in Iapigia, erano mostrate le sue impronte, alle quali a nessuno era consentito accostarsi.[vi]

Alcune testimonianze materiali più verosimili riferibili alla città, sono fatte risalire alla fine del sec. VI a.C., epoca alla quale sono attribuite alcune monete d’argento unanimemente interpretate. Queste, evidentemente coniate nell’ambito della circolazione monetaria egemonizzata dalla polis di Crotone, recano il tripode e la leggenda in caratteri arcaici “KRO” sul diritto mentre, sul rovescio, compaiono un toro retrospiciente riconducibile ad una divinità fluviale, simile al tipo sibarita in uso in questo periodo, e la leggenda “PANDO” con gli stessi caratteri.[vii]

moneta Crotone pandosia

Moneta Crotone-Pandosia (da www.instoria.it).

Pandosia risulta ancora menzionata da Plutarco verso la fine del sec. I d.C., in relazione alla venuta in Italia di Pirro (280 a.C.), il quale afferma che, prima della battaglia di Eraclea, questi “andò a por campo tra Pandosia, ed Eraclea, intantochè solo il fiume Siri partiva l’uno esercito dall’altro”[viii] mentre, in relazione ai fatti della seconda guerra punica, Tito Livio (sec. I a.C. – I d.C.), riferisce della spontanea sottomissione di Cosentia e Pandosia ai Romani (204-203 a.C.). [ix] Successivamente non abbiamo altre testimonianze. La città non compare nella descrizione della costa ionica contenuta nella “Chorographia” di Pomponio Mela, vissuto nella prima metà del sec. I d.C.,[x] e neppure nella Geografia di Tolomeo (sec. II d.C.).[xi] L’Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (sec. III-IV d.C.) ed altri itinerari antichi, non ne fanno alcuna menzione.[xii]

 

La città perduta

A dispetto dell’importanza ribadita dalle fonti letterarie in relazione alle sue antiche e nobili origini, Pandosia non sopravvisse alla romanizzazione dell’Italia e scomparve, sorprendentemente, senza lasciare traccie materiali che potessero consentire di risalire al luogo del suo antico insediamento urbano.

Gli storici che se ne occuparono in epoca moderna, infatti, essendosi ormai persa ogni memoria dei luoghi in cui Pandosia era esistita, accolsero più o meno acriticamente, la tesi sostenuta da Gabriele Barrio attorno alla metà del Cinquecento che, sulla base delle indicazioni contenute nelle fonti classiche, la individuò per primo, quale antica fondazione enotria corrispontente a Castelfranco nelle vicinanze di Cosenza: “Dein est castrifrancum oppidum aedito loco Pandosia olim dicta, quam Oenotrii condiderunt”.[xiii]

Sulla scia delle affermazioni del Barrio, agli inizi del Seicento troviamo quelle del Marafioti: “Quindi partendoci n’incontra l’antica città Pandosia, hoggi volgarmente chiamata Castellofranco, bench’altri falsamente giudicano Pandosia essere stata dove hoggi è Mendicino”,[xiv] e pur con qualche riserva, verso la fine del secolo, quelle del Fiore che, a proposito degli Enotri, affermava: “ordinando per lor reggia, e metropoli la già di poi famosissima Pandosia, oggidì, avvegna non così chiaro Castel Franco.”[xv].

Pandosia Musei Vaticani

Le rovine della città di Pandosia presso Castelfranco, in un affresco cinquecentesco della Galleria delle carte geografiche ai Musei Vaticani. Foto tratta da Alberto Anelli, la Città di Pandosia in Val di Crati, http://digilander.libero.it/castrolibero/pandosiapag8.html

Le difficoltà di pervenire ad una localizzazione di Pandosia suffragata da prove certe, evidentemente giustificate dal suo remoto abbandono, si registreranno anche in seguito. Specie dopo il ritrovamento delle c.d. “Tavole di Eraclea”, dal luogo del loro ritrovamento avvenuto nel 1732. Queste epigrafi che si fanno risalire alla fine del sec. IV a.C., riguardanti la concessione di terre appartenenti ai santuari di Dionisio ed Athena Polias, menzionano infatti “Pandosia”[xvi]. Tale testimonianza, interpretata come prova di una vicinanza tra questi due centri, costituisce però, in questo senso, una prova incerta. Per quanto sappiamo, infatti, circa i possedimenti fondiari appartenenti ad un antico luogo sacro, questi potevano risultare anche molto distanti tra loro e dallo stesso santuario.

Maggiori e più probabanti indicazioni ci provengono, invece, dalle fonti letterarie che ci forniscono alcuni elementi più utili a circoscrivere la localizzazione di Pandosia ed a comprenderne la realtà. Attraverso tali testimonianze è possibile ricostruire che, precedentemente al dominio romano, il suo territorio era appartenuto a quello dei Brettii (Bρέττιοι), popolazione che Strabone riteneva discendente dai Lucani (a loro volta discendenti dai Sanniti)[xvii] che, attorno alla metà del sec. IV a.C., ci appare costituita in una nuova entità politica di tipo confederale (ϰοινὴν πολιτείαν).[xviii]

In merito all’epoca della comparsa dei Brettii ed alla loro origine, Strabone, utilizzando come sua fonte l’antica opera “Sull’Italia” di Antioco di Siracusa (sec. V a.C.), al quale rimproverava però di esporre “queste cose in modo eccessivamente semplificato e secondo una concezione arcaica, non facendo nessuna distinzione fra Lucani e Brettî”, affermava che i Brettii avevano ricevuto questo nome dai Lucani, dai quali si erano affrancati al tempo in cui Dione aveva mosso guerra a Dionisio di Siracusa (357 a.C.): “infatti questi ultimi chiamano «Brettî» i ribelli. Questi Brettî dunque, che prima erano dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani, essendo poi divenuti liberi per l’indulgenza dei loro padroni, si ribellarono, a quanto dicono, quando Dione fece guerra a Dionisio e sollevò tutti questi popoli gli uni contro gli altri.”.[xix]

 

Pandosia ed Acheronte

Molta della fama che Pandosia ebbe in antico, è riconducibile ad un episodio storico ricordato da diverse fonti letterarie, relativo alla spedizione compiuta in Italia dal re d’Epiro Alessandro Neottolemo detto il Molosso che, durante questa campagna, trovò la morte presso la città nel 331 a.C.. Spedizione che, avendo lo scopo di soccorrere le città greche minacciate dai Brettii, dai Lucani e da altri barbari, coinvolse Crotone che limitava con alcune di queste realtà.

Una vicinanza che, in relazione a questo episodio, risulta testimoniata dal ritrovamento a Crotone, luogo evidentemente dove furono coniate, di un numeroso quantitativo di monete di bronzo (circa 4000), rinvenute tutte contestualmente assieme ai punzoni utilizzati per il conio, sulle quali risulta raffigurata un’aquila stante con ramo d’olivo e tripode sul dritto, ed un fulmine in corona di lauro sul rovescio, con la scritta: Alessandro Neottolemo.[xx]

Secondo la tradizione che descrive i fatti,[xxi] prima di sbarcare in Italia, volendo conoscere la propria sorte, Alessandro si recò a Dodona per consultare l’oracolo di Zeus, che ammonì il re di guardarsi da alcuni luoghi, dove il fato aveva stabilito che dovesse compiersi il suo destino. Luoghi dell’Italia che egli credette di riconoscere, invece, in quelli della sua patria.

Strabone riferisce, infatti che, in quella occasione, l’oracolo “gli aveva ordinato di guardarsi da Acheronte (Ἀχέροντα) e da Pandosia”, ma “essendoci di fatto in Tesprozia nomi uguali a questi, nel tentativo di fuggirli, egli venne qui a perdere la vita.”. Ad ingannare Alessandro si aggiunse anche un altro oracolo: “O Pandosia dai tre colli (Пανδοσία τρικόλωνε), un giorno rovinerai molta gente!”, “Egli pensò infatti che l’oracolo predicesse la rovina dei nemici e non già dei suoi.”.[xxii]

Nel solco di una tradizione evidentemente ormai consolidata, più tardi anche Stefano Bizantino (sec. VI d.C.), usando gli stessi termini di Strabone, ma attribuendo l’appartenenza della città ai Brettii, riferisce l’episodio della morte del re ed il famoso oracolo che la definiva Пανδοσίη τριϰόλωνε, identificandola come una fortezza naturale caratterizzata da tre sommità: Пανδοσία, φρούριον Βρεττίων ἐρυμνόν τρικόρυφον.[xxiii]

La circostanza del fraintendimento relativo alla predizione che menzionava i luoghi dell’Italia risultati fatali al re, tragicamente omonimi a quelli dell’Epiro, è riferita anche da Tito Livio e da Trogo-Giustino, che imbastiscono un racconto dei fatti più circostanziato, adeguato alla caratura del personaggio.

Secondo Tito Livio, Alessandro re dell’Epiro, che era stato chiamato in Italia dai Tarantini, recatosi dall’oracolo di Zeus, aveva ricevuto il responso di diffidare dalle acque dell’Acheros e dalla città di Pandosia (“caveret Acherusiam aquam Pandosiamque urbem ”).

Il re si era quindi affrettato a giungere in Italia, in maniera da allontanarsi dai luoghi menzionati nella predizione che, erroneamente, credeva fossero quelli dell’Epiro. Avvenne così, come succede in genere che, nel tentativo di sfuggirlo, egli andò incontro al suo tragico destino. Dopo aver vinto più volte le schiere dei Brettii e dei Lucani, conquistando ai primi Cosenza e Terina, ed ai secondi Siponto, nonché Eraclea colonia dei Tarantini ed altre città dei Messapi e dei Lucani, egli aveva mandato in Epiro come ostaggi, trecento famiglie illustri degli sconfitti, occupando tre alture (“tres tumulos”) nelle vicinanze della città di Pandosia (“Pandosia urbe”), presso il confine tra il territorio dei Lucani e quello dei Brettii. Luogo dal quale poteva effettuare agevolmente le sue incursioni per ogni parte del territorio nemico (“agri hostilis”).

Questa situazione ben presto però, si sarebbe rivelata un vantaggio per i suoi nemici. Essi infatti, sfruttando la distanza che separava i presidi epiroti e l’allagamento delle campagne per le pioggie che impedivano i collegamenti, assalirono e distrussero i primi due, ponendo l’assedio al terzo dove si trovava il re. Qui, a questo punto, gl’insuccessi maturati avrebbero determinato la defezione degli esuli Lucani che combattevano nelle fila di Alessandro, i quali, attraverso dei messaggeri, negoziarono con i compatrioti il loro ritorno, in cambio della consegna del re vivo o morto.

Considerata questa situazione sfavorevole ed abbandonati gl’indugi, Alessandro si portò così all’attacco dei nemici, riuscendo ad uccidere il comandante dei Lucani ma, in questo modo, andò incontro al suo destino. Egli, infatti, accingendosi ad un difficile attraversamento in prossimità di un ponte, recentemente distrutto dalla furia delle acque, sentì uno dei suoi soldati che, impegnato nelle difficoltà del guado, malediceva il nome di cattivo augurio del fiume, esclamando che, a ragione, lo chiamavano “Acheros”. Ascoltate queste parole e compresa finalmente la predizione dell’oracolo, il re cercò di guadagnare l’altra sponda, ma fu trafitto da un giavelloto, scagliatogli contro da uno degli esuli lucani, che avevano precedentemente combattuto al suo servizio.

Impossessatisi del suo corpo, trasportato dalla loro parte dalle acque del fiume, i Lucani lo dilaniarono indegnamente. Una metà la inviarono a Cosenza e l’altra la lasciarono sul campo di battaglia, dove rimase a fare da bersaglio ai colpi dei soldati. Tale nefandezza fu fatta cessare da una donna che, volendoli scambiare con la vita del marito e dei figli prigionieri in Epiro, ottene i resti del re che furono sepolti a Cosenza. Successivamente, le sue ossa furono rimesse ai nemici a Metaponto, e da qui inviate in Epiro alla moglie Cleopatra ed alla sorella Olimpiade[xxiv].

Analogo risulta il racconto di Giustino, il quale ricorda che Alessandro, re dell’Epiro, prima di giungere in Italia per prestare il suo aiuto ai Tarantini contro i Brettii, aveva ricevuto a Dodona il responso dell’oracolo di Zeus, il quale gli aveva predetto la sorte che lo attendeva presso “urbem Pandosiam amnemque Acherusium”, luoghi che il re riteneva fossero quelli dell’Epiro, mentre era ignaro del fatto che si trovassero anche in Italia. Dopo aver combattuto con gli Apuli, con i Brettii ed i Lucani, ai quali prese diverse città, stabilì patti con i Metapontini, i Peucezi ed i Romani. Ma i Brettii ed i Lucani, con l’aiuto dei vicini, ritornarono in guerra contro di lui. Ucciso “iuxta urbem Pandosiam et flumen Acheronta”, il suo corpo fu riscattato e sepolto da quelli di Thurii.[xxv]

 

Brettii e Lucani

Il dettagliato racconto offertoci da queste fonti, riguardante la morte del re d’Epiro che, a prima vista, proprio per la sua descrizione minuziosa, dovrebbe poter fornirci elementi utili a identificare i luoghi in cui si svolse questa vicenda, in realtà ci aiuta poco in questo senso, rimanendo vagamente ambientato vicino alla “città” di Pandosia e presso il fiume Acheronte.

Esso non menziona nessun luogo vicino altrimenti noto, né ci fornisce alcun riferimento a posti conosciuti, ma risulta tutto incentrato sulla omonimia che avrebbe contraddistinto il luoghi patrii del re e quelli della sua morte: un artificio che appare funzionale all’epica del racconto, ma che doveva comunque poter fornire anche dei riferimenti reali, chiaramente riconoscibili dai suoi fruitori, affinchè la morale di cui era portatore fosse conservata nel tempo.

Anche l’indicazione riguardante la vicinanza del confine Bruzio-Lucano rimane di per sé abbastanza vaga, considerata la descrizione dell’area ionica relativa allo stanziamento di queste popolazioni che ci fornisce Strabone in età augustea.

Secondo la sua descrizione, a quel tempo, tale confine era rappresentato dal territorio di Thurii, e correva lungo l’istmo che, da questa città, permetteva di raggiungere Cirella, presso la città di Lao sull’altra costa.[xxvi]

Circa l’area interessata dal popolamento dei Brettii ai suoi tempi, Strabone afferma che essi abitavano “una penisola nella quale è inclusa un’altra penisola, quella, cioè, il cui istmo va da Scylletium fino al golfo di Hipponion” e che il loro territorio raggiungeva lo stretto. In origine però, e sulla base dell’opera di Antioco, Strabone riferisce che la regione abitata dai Brettii era stata chiamata “Enotria” e, successivamente, “Italia” e che i suoi confini erano stati: il fiume Laos dalla parte del Mar Tirreno e Metaponto sull’altra costa. Successivamente, al tempo in cui i Greci avevano occupato “ambedue i litorali”, i Sanniti avevano scacciato gli Enotri ed insediato in questi territori alcuni Lucani. [xxvii]

Al tempo di Strabone, di tali antiche realtà rimaneva comunque ben poco, e nell’area che aveva visto prosperare le antiche città greche, molti luoghi erano stati occupati parte dai Lucani e dai Brettii, parte dai Campani, “per quanto costoro li occupino solo a parole, perché in realtà li controllano i Romani: e infatti questi popoli sono divenuti Romani.”.

Soffermandosi sulla presenza dei Lucani che occupavano l’entroterra nella zona situata all’interno del golfo di Taranto, Strabone metteva in evidenza la scomparsa dei loro caratteri distintivi e la scarsa importanza dei loro insediamenti, sottolinenado che “costoro come i Brettî ei Sanniti loro progenitori, soggiacquero a tante sventure che è oggi difficile persino distinguere i loro insediamenti. Infatti di ciasuno di questi popoli non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune e i loro usi particolari, per quel che concerne la lingua, il modo di armarsi, e di vestirsi e altre cose di questo genere, sono completamente scomparsi; d’altra parte considerati separatamente e in dettaglio, i loro insediamenti sono privi di ogni importanza.”.[xxviii]

 

Una realtà pre-urbana

Sulla base di queste notizie e di queste valutazioni di Strabone, risulta ora possibile contestualizzare meglio le informazioni circa la localizzazione di Pandosia, provenienti dalle altre fonti antiche, che pongono in evidenza la sua appartenenza o vicinanza, al territorio dei Lucani.

A tale riguardo possiamo dire che, alcune di queste fonti, sembrano riferire genericamente tale appartenenza, solo sulla base di quella che era ritenuta al tempo l’antica origine delle popolazioni che abitavano lungo l’arco ionico, essendo ormai svaniti, come riferisce Strabone all’epoca di Augusto, i loro diversi caratteri distintivi, mentre altre giungono a tale attribuzione, sulla scorta del famoso episodio in cui Alessandro Neottolemo era stato ucciso per mano dei Lucani, come dimostra, ad esempio, l’assenza di un riferimento specifico da parte di Plinio il Vecchio (sec. I d.C.), che non menziona Pandosia nella sua accurata descrizione del territorio lucano e brettio[xxix] ma, rifacendosi alla testimonianza di Theopompo, afferma solo che questa, nel passato, era stata una città dei Lucani, presso la quale il re aveva perso la vita: “et Pandosiam Lucanorum urbem fuisse Theopompus, in qua Alexander Epirotes occubuerit”.[xxx]

Πανδοσία figura tra le città greche appartenenti alla “Lucaniae penisula”,[xxxi] anche nel Periplo dello Pseudo Scilace, mentre Tito Livio la individua in prossimità del confine bruzio-lucano: “Pandosia urbe, imminente Lucanis ac Bruttis finibus”,[xxxii] che Strabone stabilisce lungo quelli della città di Thurii.[xxxiii] In questa direzione, nell’Orbis Descriptio dello Pseudo Scimno, Pandosia risulta indicata tra Crotone e Thurii, attraverso la menzione degli abitati principali posti lungo il versante ionico della regione: “Post Crotonem Pandosia et Thurii; finitimum his est Metapontium”[xxxiv], mentre Strabone, sempre ricorrendo a quanto riferiva in merito l’episodio relativo alla morte di Alessandro Neottolemo, indica Pandosia nell’interno, “Poco al di sopra” di Consentia “metropoli dei Brettî”, vicino al fiume Acheronte (ποταμòς Ἀχέρον).

Nella sua descrizione del territorio in cui si trovavano le città dei Bretti, Strabone fa queste affermazioni relative a Pandosia, dopo aver menzionato tutti i centri principali del versante tirrenico: Temesa, Terina e Cosenza, facendole seguire da quelle relative a Hipponio.[xxxv]

Lo stesso schema descrittivo, che ci appare come una digressione verso l’interno della descrizione di questo versante, permettendoci quindi di escludere quest’area dalla nostra ricerca, risulta adottato successivamente anche da Plinio, di poco posteriore al precedente che, dopo aver elencato Temesa, Terina e Cosenza, e prima di citare Hipponio, menziona una “paeninsula” dove si trovava il fiume “Acheron”, dal quale avrebbero assunto il proprio nome gli abitanti del luogo (“Aceruntini”).[xxxvi]

Appare quindi come le informazioni di cui disponiamo, consentano di circoscrivere la realtà di Pandosia tra quella di Consentia, “metropoli dei Brettî”, segnata dal limite coltivabile lungo il confine silano, il fiume Neto, che distingueva i limiti della città di Crotone, come riferiscono espressamente i suoi miti di fondazione,[xxxvii] e quelli della città di Sibari/Thurii, delimitando così un ampio territorio interno posto lungo il versante ionico che, secondo Strabone, era stato anticamente interessato dalla penetrazione dei Sanniti/Lucani ma che, successivamente, era stato ristrutturato politicamente al tempo della costituzione federale dei Brettii (metà del sec. IV a.C.). Un’ampiezza ed una successione che giustificano la sua posizione di confine e le attribuzioni generiche riferite dalle diverse fonti.

In questo senso, considerando l’antica espansione dei Sanniti e dei loro coloni Lucani lungo la costa ionica, Strabone ricorda, in primo luogo, “Petelia” (Πετηλία), l’odierna Strongoli, città “considerata metropoli dei Lucani”,[xxxviii] a differenza di Tito Livio che, descrivendo una situazione più recente, evidenzia più volte l’appartenenza di questa città al territorio dei Brettii,[xxxix] e di Appiano (sec. II d.C.) che, riferendo dei fatti avvenuti al tempo della seconda guerra punica, dice che “Petelia”, non era ormai più occupata dai “Petilini”, espulsi da Annibale, ma dai Brettii.[xl]

Alla luce delle notizie esposte e delle considerazioni espresse, possiamo quindi dire che non esistono elementi tali da poterci consentire d’identificare Pandosia come una città, mentre quelli in nostro possesso la riconducono ad una delle diverse realtà pre-urbane appartenenti alla confederazione dei Brettii, territorio caratterizzato da insediamenti sparsi, dove possiamo escludere l’esistenza di città, come riferisce molto chiaramente Strabone. Un territorio prevalentementemente montano, che giustifica il particolare assetto pre-urbano che caratterizzava il territorio brettio, strutturato attraverso insediamenti diffusi nell’interno, ancora legati ad una economia pastorale.

In considerazione di tale attività preminente e delle esigenze legate alla transumanza, si comprende poi la ragione della notevole estensione di questo territorio – nel racconto di Trogo-Giustino rappresentata attraverso la notevole distanza esistente tra i tre presidi epiroti – che si frapponeva tra l’altipiano silano e le marine adiacenti, luoghi necessari allo svernamento delle mandrie. Qui si segnala, infatti, la presenza di “Pandina”, divinità femminile raffigurata su alcune monete di Terina e di Ipponio che sono state collegate alla presenza brettia in questi luoghi,[xli] ed il cui nome trova corrispondenza con l’etnico “Pandosino” o “Pandosiano”, derivato da “Pandosia” (Πανδοσία),[xlii] in relazione alla quale, l’appellativo di “città” deve essere inteso solo come una forma narrativa adottata dalle fonti.

Alla luce delle informazioni viste forniteci da Strabone che, ancora ai suoi tempi, giudicava indistinguibili i loro insediamenti, sia nel caso di Pandosia, come delle altre realtà politiche formatesi nell’ambito del territorio dei Brettii, dobbiamo quindi intendendere tali realtà, come forme delocalizzate ormai limitrofe alle antiche polis greche e nei loro confronti, concorrenti, in ragione della loro evoluzione verso la dimensione urbana, come ben rappresentano i fatti relativi alla sconfitta ed alla morte di Alessandro Neottolemo e quelli che seguirono a questo evento.

Questi condurranno i Brettii all’asservimento nei confronti dei Romani, come testimonia la crisi che interessa gli antichi abitati dell’Età del Ferro durante questo periodo, quando, come illustra Strabone, la loro identità era ormai divenuta del tutto indistinguibile ed omologata a quella romana. Una situazione che offre riferimenti con quella dell’abitato di “Timp.ne del Castello”, nelle vicinanze della località detta “Scuzza” o “Scotia” (“Scutia”)[xliii]: luogo “delle tenebre”[xliv] esistente presso la città vescovile di Cerenzìa dove, ancora oggi, compaiono i segni di un antico insediamento,[xlv] mentre tutta l’area ha restituito numerosi ritrovamenti che, agli inizi degli anni Sessanta, il Maone cataloga attraverso le notizie che aveva potuto ancora apprendere ai suoi tempi.[xlvi]

Cerenzia

Cerenzia (KR), panoramica di Cerenzia Vecchia (A) e Timpone del Castello (B).

 

Un nuovo vescovato

La particolare importanza del territorio di Cerenzìa, nel panorama dei centri antichi del versante ionico della Calabria, oltre ad evidenziarsi in epoca classica, si pone in risalto anche durante il periodo altomedievale, quando il nuovo vescovato di Acerentìa (ὁ ’Aϰερεντίας), risulta tra quelli suffraganei della nuova metropolia di Santa Severina di Calabria (Tῇ Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας) che troviamo nella “Néa tacticà” o “Diatyposis”, compilata al tempo di Leone VI il Filosofo (886-911), dove sono elencate le metropoli e le diocesi soggette al patriarcato di Costantinopoli.

In un rimaneggiamento successivo della Diatiposi che si ritiene anteriore al Mille, ma la cui redazione è del tempo dell’imperatore Alessio Comneno (posteriore al 1084), nella “Notit. 3”, tra i cinque vescovati suffraganei di Santa Severina di Calabria (Tῷ Ἁγίας Σευηρινῆς, Kαλαβρίας), risulta confermato quello di Acerentìa (ὁ ’Aϰεραντείας – ὁ ’Aϰερεντείας).[xlvii]

L’esistenza del vescovato che, con la sua presenza, qualifica l’importanza del luogo, continua ad essere documentata anche in seguito.

Nella restituzione latina delle notitiae episcopatuum, scritte in greco da Nilo Doxapatris al tempo di Rugero II re di Sicilia (1130-1154), rileviamo che la metropoli di Santa Severina, aveva tra i propri vescovati suffraganei quello di “Acerontiam” (’Aϰεροντίαν),[xlviii] periodo in cui il geografo musulmano Edrisi, segnala l’esistenza della città di “ǵ.runtîah, che dicesi pur ǵ.ransîah” a nove miglia dalla salina che si trovava preso la confluenza dei fiumi Neto e Lese.[xlix]

Verso la fine del secolo XII, il vescovo “Gerentinum” compare tra quelli suffraganei della metropoli di Santa Severina nel “Provinciale Vetus” di Albino,[l] e nella bolla del 1183 (“Geretinensem”), conservata presso l’Archivio Arcivescovile di Santa Severina.[li]

Altri documenti di questo periodo, datati tra la seconda metà del secolo XII e gl’inizi del XIII, confermano il permanere dell’antico toponimo greco della città di Acerentìa o Cerentìa,[lii] come continua ad essere chiamata attualmente dai locali[liii] che, attraverso il richiamo al mitico fiume sotterraneo del regno dei morti: l’Acheronte, dimostra di avere un probabile riferimento alla natura carsica del suo comprensorio, posto tra i fiumi Vitravo e Lese, dove il sottosuolo risulta caratterizzato da numerose grotte ed anfratti scavati dalle acque sotterranee. Un legame tra la città ed il suo sottosuolo che, comunque, risulta comprovato, soprattutto, dall’importante attività mineraria condotta già in antico in diverse parti del suo territorio ed in quelli della sua diocesi, una realtà economico-produttiva, ma anche sociale che, ancora durante il Medioevo, accomunava il territorio di Cerenzìa, unitamente a quelli vicini di tutta l’area del Crotonese posta “citra” il fiume Neto, alle altre realtà che si estendevano verso quello Rossanese.[liv]

 

I tre castelli

L’estensione di questa realtà e la sua importanza, sono evidenziate agli inizi dell’età feudale, quando gli antichi miti che rendono conto della primitiva strutturazione del territorio in chiave urbana, attraverso il suo passaggio dalla civiltà pastorale a quella agricola e cittadina, riemergono nelle fonti medievali, in occasione di una importante cesura, identificabile durante le prime fasi conseguenti alla conquista normanna, quando i resoconti delle lotte che si conducevano per stabilire il dominio di questi luoghi, ci segnalano che, alle falde della Sila, il dominio della città vescovile di Acerentìa, si stava riorganizzando secondo i nuovi principi del feudalesimo.

Tale riorganizzazione che, parimenti, coinvolgeva tutti gli altri territori vicini, ci rimane descritta dal monaco Goffredo Malaterra, autore di una cronaca che ripercorre i principali avvenimenti di questo periodo.

In uno degli episodi di questa cronaca che, seguendo lo schema culturale del suo tempo, ricostruisce gli avvenimenti attraverso il racconto della ribellione, più o meno legittima, del vassallo al suo signore, le trasformazioni realizzate nell’ambito dell’arcidiocesi di Santa Severina, sono narrate attraverso le vicende di Abagelardo ribelle allo zio Roberto il Guiscardo, assediato dal conte Ruggero “apud Sanctam Severinam, Calabriae urbem” (1073/74). In questa occasione, giunto all’assedio anche il duca Roberto e tenuto consiglio con i suoi, fu deciso di erigere “tria castella” in modo da perseguire la città, che dovette infine cedere all’azione congiunta dei due fratelli.[lv] Un riferimento che ci rimanda all’epopea del re d’Epiro Alessandro Neottolemo, alludendo al famoso vaticinio ricevuto dal sovrano a Dodona dall’oracolo di Zeus.

In questo senso, costituendo il riferimento mitico all’antica ed originaria identità del territorio tramandato dalla tradizione classica, tale riferimento rimarrà conservato nel simbolismo rappresentativo adottato dalle comunità locali.

Ritroviamo così i tre colli sull’antico sigillo dell’abbazia di Calabromaria mentre, attualmente, appaiono rappresentati sul gonfalone della città di Catanzaro e su quelli di diversi comuni delle provincie di Catanzaro, Crotone e Cosenza. I tre castelli, anch’essi ampiamenti rappresentati negli attuali gonfaloni di diversi comuni di queste tre provincie, compaiono anticamente, sul sigillo del capitolo di Santa Severina e su quelli di altre università del Crotonese.

Altilia sigillo

Sigillo dell’abbazia di Santa Maria di Altilia detta di Calabromaria.

L’importanza dei simboli riferiti alle antiche vicende legate ai miti che descrivono la strutturazione del territorio, risulta avvalorata da una seconda testimonianza, che continua a permanere nel patrimonio mitico locale, questa volta attraverso la tradizione orale. Si tratta della leggenda che, attraverso il racconto della sconfitta e della uccisione del “Re Pagano”, ovvero del re greco, rende conto della costituzione del nuovo abitato di Roccabernarda, al tempo del passaggio del territorio dal dominio greco degli imperatori bizantini, a quello dei nuovi dominatori normanni giunti dal nord della Francia.

Secondo questo racconto, anch’esso costruito sullo schema della ribellione del vassallo al suo signore, anticamente, il paese sarebbe stato dominato dal “Re Pagano” che opprimeva gli abitanti, imponendo loro lo jus primae noctis. A tale imposizione si sarebbe però ribellato il cavaliere franco Rinaldo di Montalbano che, desiderando prendere moglie, non voleva però sottostare al diritto del re. Impugnate le armi ed ucciso il sovrano in duello, Rinaldo sarebbe così riuscito a liberare il paese dalla sua tirannia.[lvi] Con l’avvento della dominazione spagnola, all’eroe franco sarà fatto subentrare lo spagnolo Bernardo del Carpio.

S. Anastasia sigillo capitolo

Sigillo del capitolo di Santa Severina che raffigura Santa Anastasia reggere in mano un simulacro della città con tre castelli.

 

Il feudo di Cerenzìa

Nella scia di questi racconti, ricalca ancora lo schema narrativo della ribellione del vassallo nei confronti del proprio signore feudale, il racconto dei fatti che condussero alla formazione del feudo di Cerenzìa.

Secondo le cronache, che riconducono i fatti al 1090, al tempo in cui il conte Ruggero si accingeva alla spedizione contro Malta, il suo scontro con “Mainerius de Gerentia”, sarebbe nato dal rifiuto di questi di partecipare all’impresa. Constatata tale insolenza, il conte avrebbe quindi differito la sua partenza per Malta, spostandosi dalla Sicilia “in Calabriam”, per ricondurre al proprio volere il feudatario ribelle.

Secondo il Malaterra, atterrito dall’assedio di Ruggero e giunto a più miti consigli, Manerio si sarebbe sottomesso al conte pagandogli la somma di mille solidos d’oro. Ottenuta così la sua obbedienza, Ruggero si diresse a Cosenza, valicando le alture dei monti adiacenti: “Sicque per ardua adiacentium montium inde digrediens, Cusentium venit”.[lvii]

Rispetto a questo sviluppo dei fatti fornitoci dal Malaterra, diversa appare la conclusione della vicenda secondo le cronache di Lupo Prothospatario e di Romualdo Salernitano che, concordemente, riferiscono la devastazione e l’incendio della città di “Acherontia” nel 1090.[lviii]

In questo caso, come possiamo ravvisare in altri episodi analoghi contenuti nelle cronache medievali, tali devastazioni, prodotte ricorrendo all’incendio dei luoghi, vanno interpretate alla luce del processo di ricomposizione del territorio, assumendo un significato rigenerativo/rifondativo.

sigilli 3 Castelli

I tre castelli rappresentati sui sigilli dell’università di Isola (1), Mesoraca (2), San Mauro (3) e Belcastro (4).

 

La diocesi vescovile

Le vicende poste in evidenza da queste fonti, che possiamo porre in relazione alla costituzione del feudo di Cerenzìa, sono accompagnate, parallelamente, da quelle relative al suo vescovato che, in questo stesso periodo, assume un nuovo assetto nell’ambito di una diocesi vescovile strutturata in un territorio definito, abbandonando così la sua originaria dimensione di monastero che caratterizzava ancora le chiese cattedrali a quel tempo, come ben documenta il “brébion” della cattedrale di Reggio risalente a verso la metà del sec. XI.[lix]

Tracce di questo precedente assetto della cattedrale di Cerenzìa, riferibile alla sua antica origine, emergono, ad esempio, attraverso la notizia riferita dal Fiore, circa l’appartenenza alla “diocesi di Gerenzia” del monastero Tassitano posto nella Sila[lx] mentre, ancora al tempo del c.d. Decennio francese, sempre sull’altipiano silano, la Mensa vescovile di Cerenzìa possedeva la difesa di Trepidò Sottano.[lxi]

In relazione al suo antico assetto ecclesiastico, sorto nell’ambito di un vasto territorio che aveva visto la presenza d’importanti realtà dell’evo antico, sul finire dell’Undicesimo secolo troviamo il vescovo di Cerenzìa Polycronio intervenire ben oltre quelli che risulteranno i confini della sua diocesi medievale, quando, col consenso dell’arcivescovo di Santa Severina Costantino, riedificò e ripristinò l’abbazia greca di Calabromaria ad Altilia, reintroducendovi i monaci e dotandola di molti beni.[lxii]

La particolare antichità della chiesa di Cerenzìa e la vastità del territorio interessato dal suo dominio in epoca precedente a quella feudale, si evidenziano anche attraverso alcune notizie che risalgono al tempo della erezione della cattedrale di Cariati (1437).

Al quel tempo, infatti, quest’ultima non fu unita alla più vicina Umbriatico, ma alla più distante sede vescovile di Cerenzìa,[lxiii] andando a costituire la nuova diocesi, con i territori di Cariati, Scala, Terra vecchia e S. Maurello che, invece, secondo le affermazione del vescovo di Cerenzìa Maurizio Ricci (1621), avrebbero precedentemente fatto parte della diocesi di Rossano, alla quale, per ricompensarne la perdita, sarebbero andate quelle di Campana e Bocchigliero, prima appartenute alla diocesi di Cerenzìa.[lxiv]

Attraverso i pagamenti relativi alle decime dovute alla Santa Sede, sappiamo invece che, agli inizi del Trecento, la diocesi di “Gerencie”, suffraganea della metropolia di Santa Severina, e confinante con quelle di Santa Severina, Umbriatico, Rossano e Cosenza, oltre alla città di Cerenzìa, comprendeva solamente i casali di Verzino e di Lucrò ed il castrum di Caccuri,[lxv] mentre la terra di Campana e quella di “Bucchigleri”, come anche “Cariati, S. Maureli, Scale et Terra Vecchia”, appartenevano tutte alla diocesi di Rossano.[lxvi]

Da tutto ciò possiamo argomentare, che le notizie relative i diritti vantati dal vescovo di Cerenzìa sopra un beneficio esistente fuori dai confini diocesani, al pari di quelle che ci riferiscono dei possedimenti o degli interessi che la Mensa vescovile aveva avuto, o ancora manteneva in epoca moderna oltre tali confini, ci rimandano ad un periodo precedente alla strutturazione feudale dei territori, quando i possessi delle chiese cattedrali non ricadevano ancora all’interno di una diocesi definita da un confine continuo ma, al pari di quelli appartenenti agli altri monasteri, erano riuniti secondo criteri funzionali alla loro economia abbaziale.

 

Note

[i] Sofia P. A., Il Regno di Napoli Diviso in dodici Provincie, 1611, p. 50.

[ii] Strabone VI, 1, 5.

[iii] P. Jo: Baptistae Aucher Ancyrani, Eusebii Pamphili Chronicon Bipartitum, Pars II, Venezia 1818, p. 173.

[iv] “Est autem Lucaniae peninsula. In ea sunt hae urbes Graecae: Posidonia, et Elaa Thuriorum colonia, Pandosia, Platacenses, Terina, Hipponium, Mesa, Rhegium promontorium et urbs.” Scylacis Caryandensis Periplus, ed. Rud. Henr. Klausen Dr., 1831 p. 167.

“12. Lucani. Samnites sequuntur Lucani usque ad Thuriam. Praeternavigatio Lucaniae est dierum sex (et noctium sex). Est autem Lucania peninsula. In ea Graecae urbes hae sunt : Posidonia, Elea, Laus Thuriorum colonia, Pandosia (Πανδοσία), Plateenses (leg. Clampetia), Terina, Hipponium, Mesma, Rhegium promontorium et urbs.” Scylacis Caryandensis Periplus, 12; in Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855, I, pp. 19-20.

[v] “Post Crotonem Pandosia et Thurii; finitimum his est Metapontium. Has omnes urbes Achaeos e Peloponneso advenas condidisse perhibent.”. Anonymi (vulgo Scymni Chii), Orbis Descriptio vv. 326-329, in Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855, I, p. 209.

[vi] Pseudo Aristotele, De Mirabilibus Auscultationibus, 97.

[vii] Attianese P., Kroton Ex Nummis Historia, 1992, pp. 55-57.

[viii] Compendio delle Vite di Plutarco, tomo I, Firenze 1816, p. 284.

[ix] “38. Eadem aestate in Bruttiis Clampetia a consule ui capta, Consentia et Pandosia et ignobiles aliae ciuitates uoluntate in dicionem uenerunt. et cum comitiorum iam appeteret tempus, Cornelium potius ex Etruria ubi nihil belli erat Romam acciri placuit. is consules Cn. Seruilium Caepionem et C. Seruilium Geminum creauit. inde praetoria comitia habita. creati P. Cornelius Lentulus P. Quinctilius Uarus P. Aelius Paetus P. Uillius Tappulus; hi duo cum aediles plebis essent, praetores creati sunt. consul comitiis perfectis ad exercitum in Etruriam redit.” Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXIX, 38.

[x] Pomponio Mela, Chorographia, Ed. Muratori G. F., 1855.

[xi] Tolomeo, Geografia, ed. Nobbe C.F.A., Tom. 1 Lipsia 1843.

[xii] L’itinerario Antonino, descrivendo il percorso per Reggio della via proveniente da Capua (“ab Equo tutico per Roscianum Regio”), evidenzia l’esistenza di un tracciato che da “Heraclia” per “Ad Vicensimum” e “Turios”, si dirigeva a “Roscianum” e continuando nell’interno, per “Paternum” e “Meto”, ritornava sulla costa a “Tacina” (“Heraclia” mpn XXVIII, “Ad Vicensimum” mpn XXIIII, “Turios” mpm XX, “Roscianum” mpm XII, “Paternum” mpm XXVII, “Meto” mpm XXXII, “Tacina” mpm XXIIII; Pinder M. et Parthey G., Itinerarium Antonini Augusti et Hierosolymitanum, 1848, p. 52).

La Tabula Peutingeriana, la Cosmografia dell’Anonimo di Ravenna e la Geografia di Guidone, documentano concordemente un percorso costiero. La Tabula Peutingeriana (segm. VII), riporta: “Heraclea . IIII . Senasum . Turis . XXXVIII . Petelia . Crontona”, mentre la Cosmografia dell’Anonimo di Ravenna e la Geografia di Guidone, rispettivamente, menzionano in successione: “Heraclea”, “Scinasium”, “Turris”, “Pelia” e “Crotona”, la prima, “Heraclea”, “Senasum”, “Turris”, “Pellia” e “Crotona”, la seconda. Pinder M. et Parthey G., Ravvennatis Anonymi Cosmographia et Guidonis Geographica, 1860, pp. 262-263 e p. 470.

[xiii] Barrio G., De Antiquitate et Situ Calabriae, Liber Secundus, Roma 1571, p. 106.

[xiv] Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Libro Terzo, Padova 1601, pp. 267-268.

[xv] Fiore G., Della Calabria Illustrata, 1691, Ed. Rubettino Tomo I, p. 183 e p. 250.

[xvi] Come si legge in alcuni passi riportati dal Mazochi: “In antomo qui ad Pandosiam est” (“versu sexto”), “in via quae ducit ex Urbe et ex Pandosia per sacros agros” (“versu 16” ripetuto al “versu 22”), “primum agrum … qui est iuxta illum antonum, qui est supra Pandosiam” (“v. 65”), “Commensi vero fuimus facto initio ab antomo qui supra Pandosiam ducit, dirimens sacros agros a privatorum praediis.” (nel “fragmento Britannico” delle stesse tavole “apud Clariss. Mattaire versu 12.”). Alexii Symmachi Mazochii, Commentariorum Aeneas Tabulas Heracleenses, Pars I, Napoli 1754, p. 104.

[xvii] Strabone, V, 3, 1; “I Lucani sono di stirpe sannitica” Strabone, VI, 1, 3.

[xviii] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XVI, 15, 1-2.

[xix] Strabone VI, 1, 4.

[xx] Attianese P., op. cit., pp. 186-187. N. Sculco, Ricordi sugli Avanzi di Cotrone, ed. Pirozzi 1905, pp. 34-36.

[xxi] Strabone VI, 1, 5; Livio VIII, 24;  Giustino XII, 2.

[xxii] Strabone VI, 1, 5.

[xxiii] Ethinicorum quae supersunt, ed. Meneike (Berolini, 1849) p. 499.

[xxiv] “Eodem anno Alexandream in Aegypto proditum conditam Alexandrumque Epiri regem ab exsule Lucano interfectum sortes Dodonaei Iouis euentu adfirmasse. accito ab Tarentinis in Italiam data dictio erat, caueret Acherusiam aquam Pandosiamque urbem: ibi fatis eius terminum dari. eoque ocius transmisit in Italiam ut quam maxime procul abesset urbe Pandosia in Epiro et Acheronte amni, quem ex Molosside fluentem in Stagna Inferna accipit Thesprotius sinus. ceterum ut ferme fugiendo in media fata ruitur, cum saepe Bruttias Lucanasque legiones fudisset, Heracleam, Tarentinorum coloniam, ex Lucanis Sipontumque, Bruttiorum Consentiam ac Terinam, alias inde Messapiorum ac Lucanorum cepisset urbes et trecentas familias illustres in Epirum quas obsidum numero haberet misisset, haud procul Pandosia urbe, imminente Lucanis ac Bruttiis finibus, tres tumulos aliquantum inter se distantes insedit, ex quibus incursiones in omnem partem agri hostilis faceret; et ducentos ferme Lucanorum exsules circa se pro fidis habebat, ut pleraque eius generis ingenia sunt, cum fortuna mutabilem gerentes fidem. imbres continui campis omnibus inundatis cum interclusissent trifariam exercitum a mutuo inter se auxilio, duo praesidia quae sine rege erant improuiso hostium aduentu opprimuntur; deletisque eis ad ipsius obsidionem omnes conuersi. inde ab Lucanis exsulibus ad suos nuntii missi sunt pactoque reditu promissum est regem aut uiuum aut mortuum in potestatem daturos. ceterum cum delectis ipse egregium facinus ausus per medios erumpit hostes et ducem Lucanorum comminus congressum obtruncat; contrahensque suos ex fuga palatos peruenit ad amnem ruinis recentibus pontis, quem uis aequae abstulerat, indicantem iter. quem cum incerto uado transiret agmen, fessus metu ac labore miles, increpans nomen abominandum fluminis, ‘iure Acheros uocaris’ inquit. quod ubi ad aures accidit regis, adiecit extemplo animum fatis suis substititque dubius an transiret. tum Sotimus, minister ex regiis pueris, quid in tanto discrimine periculi cunctaretur interrogans indicat Lucanos insidiis quaerere locum. quos ubi respexit rex procul grege facto uenientes, stringit gladium et per medium amnem transmittit equum; iamque in uadum egressum eminus ueruto Lucanus exsul transfigit. lapsum inde cum inhaerente telo corpus exanime detulit amnis in hostium praesidia. ibi foeda laceratio corporis facta. namque praeciso medio partem Consentiam misere, pars ipsis retenta ad ludibrium; quae cum iaculis saxisque procul incesseretur, mulier una ultra humanarum irarum fidem saeuienti turbae immixta, ut parumper sustinerent precata, flens ait uirum sibi liberosque captos apud hostes esse; sperare corpore regio utcumque mulcato se suos redempturam. is finis laceratione fuit, sepultumque Consentiae quod membrorum reliquum fuit cura mulieris unius, ossaque Metapontum ad hostes remissa, inde Epirum deuecta ad Cleopatram uxorem sororemque Olympiadem, quarum mater magni Alexandri altera, soror altera fuit. haec de Alexandri Epirensis tristi euentu, quamquam Romano bello fortuna eum abstinuit, tamen, quia in Italia bella gessit, paucis dixisse satis sit.” (Livio, Ab Urbe Condita, VIII, 24).

[xxv] “II. Porro Alexander, rex Epiri, in Italiam auxilia Tarentinis adversus Bruttios deprecantibus sollicitatus, ita cupide profectus fuerat, velut in divisione orbis terrarum Alexandro, Olympiadis, sororis suae, filio, Oriens, sibi Occidens sorte contigisset, 2 non minorem rerum materiam in Italia, Africa Siciliaque, quam ille in Asia et in Persis habiturus. 3 Huc accedebat, quod, sicut Alexandro Magno Delphica oracula insidias in Macedonia, ita huic responsum Dodonaei Iovis urbem Pandosiam amnemque Acherusium praedixerat. Quae utraque cum in Epiro essent, 4 ignarus eadem et in Italia esse, ad declinanda fatorum pericula peregrinam militiam cupidius elegerat. 5 Igitur cum in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit, 6 quorum cognito urbis fato brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. 7 Erat namque tunc temporis urbs Apulis Brundisium, quam Aetoli secuti fama rerum in Troia gestarum clarissimum et nobilissimum ducem Diomeden condiderant; 8 sed pulsi ab Apulis consulentes oracula responsum acceperant, locum qui repetissent perpetuo possessuros. 9 Hac igitur ex causa per legatos cum belli comminatione restitui sibi ab Apulis urbem postulaverant; 10 sed ubi Apulis oraculum innotuit, interfectos legatos in urbe sepelierant, perpetuam ibi sedem habituros. Atque ita defuncti responso diu urbem possederunt. 11 Quod factum cum cognovisset Alexander, antiquitatis fata veneratus bello Apulorum abstinuit. 12 Gessit et cum Bruttiis Lucanisque bellum multasque urbes cepit; cum Metapontinis et Poediculis et Romanis foedus amicitiamque fecit. 13 Sed Bruttii Lucanique cum auxilia a finitimis contraxissent, acrius bellum repetivere. 14 Ibi rex iuxta urbem Pandosiam et flumen Acheronta, non prius fatalis loci cognito nomine quam occideret, interficitur moriensque non in patria fuisse sibi periculosam mortem, propter quam patriam fugerat, intellexit. 15 Corpus eius Thurini publice redemptum sepulturae tradiderunt. 16 Dum haec in Italia aguntur, Zopyrion quoque, praefectus Ponti ab Alexandro Magno relictus, otiosum se ratus, si nihil et ipse gessisset, adunato XXX milium exercitu Scythis bellum 17 intulit caesusque cum omnibus copiis poenas temere inlati belli genti innoxiae luit.” (Marco Giuniano Giustino, Epitome historiarum Trogi Pompeii, XII, 2).

[xxvi] “La Lucania, dunque, è situata fra la costa del mar Tirreno e quella del mar di Sicilia: sulla prima si estende dal Silaris al Laos, sulla seconda da Metaponto a Turi; sul continente essa si estende dalla terra dei Sanniti fino all’istmo che va da Turi a Cerilli, vicino a Laos: l’istmo misura 300 stadî.” Strabone, Geografia VI, 1, 4.

[xxvii] Strabone VI, 1, 4.

[xxviii] Strabone, VI, 1, 2.

[xxix] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 71-74 e 97-98, Ed. Domenichi M.L., 1844, pp. 359-361 e 369-371.

[xxx] “mediterranei Bruttiorum Aprustani tantum; Lucanorum autem Atinates, Bantini, Eburini, Grumentini, Potentini, Sontini, Sirini, Tergilani, Ursentini, Volcentani, quibus Numestrani iunguntur. praeterea interisse Thebas Lucanas Cato auctor est, et Pandosiam Lucanorum urbem fuisse Theopompus, in qua Alexander Epirotes occubuerit.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 98.

[xxxi] Scylacis Caryandensis Periplus, 12, ed. Rud. Henr. Klausen Dr., 1831 p. 167; Scylacis Caryandensis Periplus, 12, in Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855, I, pp. 19-20.

[xxxii] Livio, Ab Urbe Condita, VIII, 24, 5.

[xxxiii] Strabone, Geografia VI, 1, 4.

[xxxiv] Anonymi (vulgo Scymni Chii), Orbis Descriptio vv. 326-327, in Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855, I, p. 209.

[xxxv] Strabone, VI, I, 5.

[xxxvi] “proximum autem flumen Melpes, oppidum Buxentum, Graeciae Pyxus, Laus amnis. fuit et oppidum eodem nomine. ab eo Bruttium litus, oppidum Blanda, flumen Baletum, portus Parthenius Phocensium et sinus Vibonensis, locus Clampetiae, oppidum Tempsa, a Graecis Temese citum, et Crotoniensium Terina sinusque ingens Terinaeus. oppidum Consentia intus. in paeninsula fluvius Acheron, a quo oppidani Aceruntini. Hippo, quod nunc Vibonem Valentiam appellamus, portus Herculis, Metaurus amnis, Tauroentum oppidum, portus Orestis et Medma. oppidum Scyllaeum, Crataeis fluvius, mater, ut dixere, Scyllae. dein Columnia Regia, Siculum retum ac duo adversa promunturia, ex Italia Caenus, e Sicilia Pelorum, XII stadiorum intervallo, unde Regium XCIV.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 72-73.

[xxxvii] Strabone VI, 1, 12.

[xxxviii] Strabone, Geografia VI, 1, 3.

[xxxix] “Praeter Petelinos Brutti omnes”, Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXII, 61. “Eodem tempore Petelinos, qui uni ex Bruttiis manserant in amicitia Romana”, Ibidem, XXIII, 20. “Petelia in Bruttis”, Ibidem XXIII, 30.

[xl] Appiano, Annibalica, 57.

[xli] Pugliese Carratelli G., I Brettii, in Magna Grecia, 1987, p. 285.

[xlii] Stefano Bizantino, Ethnica, s.v. Πανδοσία.

[xliii] Attraverso l’indicazione del Martire, l’Aceti ricorda “Scutia pagus Cerenthiae ubi nunc est aex vetusta.” Gabrielis Barrii Francicani, De Antiquitate et Situ Calabriae …, Roma 1737, p. 421.

[xliv] Maone P., Indagini sul Passato di Cerenzia Vecchia alla ricerca dell’origine del “Locus Scalzaporri”, in Historica n. 2-3, 1961, pp. 66-67.

[xlv] “Al centro della «Scuzza» vi è una specie di amba, sopraelevata di un centinaio di metri sul piano circostante ed estesa circa un chilometro quadrato. Viene chiamata «Timpone del Castello» e vi sono visibilissimi innumerevoli briciole di tegoli e di mattoni; mura non ne affiorano più, perché tutto è stato rimosso e coltivato.” Maone P., cit., p. 58.

[xlvi] Maone P., cit., pp. 64-66.

[xlvii] Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 82. Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 126. Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi C.A.M., Napoli 1957.

[xlviii] Parthey G., cit., pp. 293-294.

[xlix] “Il nahr nîṭû (fiume Neto) scende da ’aṣṣîlâ (la Sila) a destra di ǵ.runtîah (Cerenzia) e si dirige verso levante. A sinistra di questa città esce un altro fiume (fiume Lese) che si unisce col precedente nel luogo chiamato ’al mallâḥah (“la Salina” in oggi Salina di Altilia), distante da ǵ.runtîah, che dicesi pur ǵ.ransîah (Cerenzia), nove miglia. Il Neto quindi continua il suo corso fino a che passa sotto śant samîrî (Santa Severina) lontano un miglio e mezzo, e proseguendo tra quṭrûnî (Cotrone) e ’.str.nǵ.lî (Strongoli) mette in mare.” Amari M. e Schiapparelli C., L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero”compilato da Edrisi, in Atti della Reale Accademia dei Lincei anno CCLXXIV, 1876-77, serie II – volume VIII, Roma 1883, p. 128.

[l] Fabre M. P., Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine, V, Parigi 1889, p. 104. Russo F., Regesto I, 404.

[li] “Ebriacensem, Giropolensem, Geretinensem, [Geneoc]as[tr]ensem et Lesim[anensem.]”. AASS, pergamena 001. “Ebriacensem, Giropolensem, Gerentiensem, Gereocastrensem et Lesimanensem.” AASS, 22 A.

[lii] Nei documenti scritti in greco editi dal Trinchera, il toponimo Acerentia ricorre durante il periodo compreso tra il 1170 ed il 1223, quando troviamo: Andrea tabulario di Acerentia (αϰερέτιας, 1170), Nicola catapano di Acerentia (ἀϰερετιας, 1170), il castrum di Acerentia (ϰάστρoν ἀϰερεντείας, 1196; ϰάστρoυ ἀϰερεντίας, 1211), Teodoro notaro e tabulario di Acerentia (ἀϰερεντίας, 1196) e Petro cavaliere di Acerentia (ἀϰερεντίας, 1223). Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865, pp. 231-232, 326-327, 357-359, 373-374. Anche in alcuni privilegi latini dei primi anni del secolo XIII riguardanti l’abbazia Florense, la città compare con questo nome: “viam que venit a Cherentea” (1204), “in tenimento Acherentiae” (1208), “viam que venit a civitate Acherentee” (1208), “Gerentiae” (1209), “Epum. Geruntinen.” (1209), “in tenimento Acherentiae” (1210), “in tenimento Acherenteae” (1210), “in tenimento civitatis nostrae Gerentee” e “viam, quae venit a Gerentea” (1214), “in tenimento Gerentiae” (1215), “in tenimento Cerentiae” (1215), “in civitate Gerentiae” (1216), “terra ipsa Cerentiae” (1216), “in tenimento Acherentiae” (1219), “in tenimento Cherentiae” (1219), “in tenimento Cerentie” (1220), “civitate Acheronteae” (1221). De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. XXXV, 029-031, 042-043, 054-055, 055-056, 058-059, 063-064, 080-082, 088-089, 239-241, 244-245; Scalise G. B. (a cura di), Siberene, pp. 212, 219.

[liii] “Alcuni, poiché il popolo continuava, e continua tuttora, a chiamare il paese «Cerentìa», con l’accento greco, lo ritennero l’abbreviazione di Acherontìa, nome indiscusso della Cerenzia bizantina, ereditato, forse, dall’antichità classica;”. Maone P., cit., p. 59.

[liv] Rende P., Risorse minerarie ed attività estrattiva in alcune aree del Crotonese e della Sila in età antica, www.archiviostoricocrotone.it

[lv] Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, parte I, pp. 59-60.

[lvi] De Rito A., Il Re Pagano, in Roccabernarda Storia e Istituzioni, 2016, p. 63 e sgg.

[lvii] “Caput Decimo Sextum. Comes Melitam vadit.” (…) Dum ista geruntur, Mainerius de Gerentia a comite, ut sibi locutum veniat, invitatus, accedere differt, cum arrogatione, praesente adhuc legato comitis, respondens, se numquam ipsum, nisi ut damnum, si possit, inferat, visum velle. Quod – referente legato, qui missus fuerat – comes audiens, plurimum indignatus, festinus mari transmeato, a Sicilia in Calabriam venit: Petrum Mortonensem, cui vices suas plurimum commiserat exequendas, ut per Siciliam exercitum commovens post se acceleret, mittit. Qui prudenter iniuncta perficiens, infra octo dies ab omni Sicilia copioso exercitu congregato, mense maii ad comitem adduxit. Sicque comes versus Gerentiam accelerans, castrum terribili obsidione vallavit. Qua de re Mainerius territus, se stulte et fecisse et locutum fuisse cognoscens, supplex ad misericordiam comitis venit: equos, mulos, thesauros et omnia, quae habebat, veniam petens, in eius dispositione ponit. Comes super iis, quae fecerat, eum poenitere videns, ut semper pii cordis, omnia condonavit, excepto quod – quasi pro disciplina potiusquam ambitione – mille aureos solidos de suo accepit, ut eum a tali praesumptione ulterius coerceat. Sicque per ardua adiacentium montium inde digrediens, Cusentium venit.”. Goffredo Malaterra, cit., p. 94.

[lviii] “Eodem anno Acherontia civitas cremata est mense augusti, in tantum enim eodem vastata est igne, ut nulla domus, nullum inveniretur edificium quod non ab igne consumptum deperierit. Homines etiam XXV eodem incendio mortui sunt.”. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, p. 199. “mense Augusti Acherontia admirandum in modum cremata est a se ipsa, et mortuus est Iordanus Princeps.”. Lupus Protospatarius Barensis Rerum in Regno Neapolitano Gestarum Breve Chronicon ab Anno Sal. 860 vsque ad 1102, a. 1090.

[lix] Guillou A., Le Brébion de la Métropole Byzantine de Région (vers 1050), Biblioteca Apostolica Vaticana, 1974.

[lx] “Tassitano, diocesi di Gerenzia.”. Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 594.

[lxi] Oliveti L., Istruttoria Demaniale per l’accertamento, la verifica e la sistemazione del demanio civico comunale di Cotronei 1997, p. 12.

[lxii] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 476 sgg.

[lxiii] Russo F., Regesto II, 10355.

[lxiv] “Queste tre Terre sudette [ossia Scala, Terra vecchia e S. Maurello] et Cariati erano della Diocesia di Rossano, et nell’erettione in Vescovato fatta di Cariati furono dismembrate da detta diocesia di Rossano, et in ricompensa le furono date due Terre grosse Campana, et Bucchigliero ch’erano della Diocesia di Gerentia. Et in segno di ciò la detta Chiesa di Gerentia, tiene ancora il jus conferendi un beneficio sub titulo Sancti Joannis posto con la Chiesa nel territorio di Campana.”. Scalise G.B. (a cura di), Una relazione di Mons. Ricci, in Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, 1999, p. 437.

[lxv] Vendola D., Rationes Decimarum Italiae nei sec. XIII e XIV, 1939, pp. 200-201. Russo F., Regesto I, 3949-3985.

[lxvi] Vendola D., cit., p. 197.

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Una platea cinquecentesca dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo

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Particolare di uno dei fogli della platea (AASS, 124B).

La presente copia costituita da “cartarum scriptarum n.o decem” fu estratta il 18 marzo 1711 “à suo prop.o authentico Transumpto”, conservato nell’archivio arcivescovile di Santa Severina, da D. Joannes Dom.co Nicotera, “ord.s Archivista, et publicus ap.ca auth.e Not.s”, come sottoscrissero lo stesso archivista ed Ant.o de Gratia, U.J.D. nonché “Proth.s Apostolicus” e vicario generale dell’Ill.mo e Rev.mo D. Carlo Berlingeri, arcivescovo di Santa Severina.

Questo documento conservato nell’archivio arcivescovile, era una copia estratta dal notaro Carlo Fiorino dal suo originale, esistente nel protocollo del quondam notaro Gio: Fran.co Terranova di Cutro, che lo aveva rogato il 6 maggio 1603 nella terra di Cutro.

Quel giorno, davanti al notaro, si era costituito da una parte, Horatio Fusco della terra di Altomonte, procuratore del R.mo Octavio Belmusto “Ep(iscop)i Aleriae et perpetui Commendatarii, et Amministratoris Abbatialis E(c)cl(esi)ae Sanctae Mariae de la Matina Civit.s Sancti Marci, Sanctae Mariae de’ Sambucina de’ Terra Luzzi, et Sancti Angeli à Frigillo de Policastro” (sic), come sostituto di Augustino Belmusto “Camerarium Sanctissimi D(omi)ni n(ost)ri Papae”, fratello e procuratore generale del detto commendatario.

Dall’altra parte si erano costituiti alcuni “particulares homines” della terra di Cutro e di altri luoghi.

Le parti asserivano che, negli anni passati, e proprio nel mese di ottobre 1597, il detto Oratio era venuto nella terra di Cutro per rinnovare la presente platea dei beni della commenda. A tal fine, sotto la pena della scomunica, erano stati emanati i soliti bandi, affinchè le persone che detenevano a censo, i beni della detta commenda di S.ta Maria della Matina, Sambucina e Sant’Angelo in Fringillo “grancia d’essa Comenda”, e che detenevano in affitto gabelle della detta “Commenda, e grancia”, tanto nel tenimento di Cutro, come in quello della Roccabernarda, nella “Baronia di Tacina” ed in altri luoghi, o di cui avessero notizia, dovessero comparire davanti al detto procuratore affichè questi potesse “implateare, annotare, et descriver” tutto quello che era pertinente alla commenda, a futura cautela del detto commendatario.

Emanati detti bandi, durante i mesi di novembre e dicembre del 1597 e nel corso del 1603, erano state raccolte le informazioni necessarie, attraverso la testimonianza degli “homines et particulares” che detenevano a censo beni della commenda, loro concessi dai commendatari e dai loro procuratori, ma di cui “de Concessione, et datione dictorum Censuum nulla appareat scriptura, et Cautela valida, neque assensus S.ae Sedis Ap(osto)licae”.

Il detto Orazio era stato quindi costretto “de novo concedere, cedere, et relaxare” a detti particolari “ad Censum perpetuum et in Emphiteusim iuxta naturam Census emphiteutici” i detti beni, e per evitare controversie, che avrebbero potuto generare liti dispendiose per entrambe le parti, aveva provveduto a trattare con tutti, giungendo a stabilire amichevolmente l’entità dei censi, fatto salvo comunque, il fatto di doversi impetrare l’assenso da parte della Santa Sede. Con patto e condizione però, che qualora il R.mo abbate commendatario, o qualcuno dei suoi successori, avesse trovato nell’abbazia “aliqua publica Instrumenta, seu antiquam Plateam”, attraverso cui fosse stato possibile dimostrare che i detti particolari erano tenuti al pagamento di un censo maggiore, sarebbe stato lecito al detto commendatario di poterlo ottenere.

(AASS, 124B, ff. 001-010)

(f. 001)

“In nomine D(omi)ni n(ost)ri Iesu x.pi amen. Anno à Nativitate ipsius 1603. Regnante / Seren.mo, ac potentissimo D(omi)no n(ost)ro Philippo Tertio de Austria Dei gr(ati)a Inclyto Rege / Castellae Regnorum vero eius anno quinto feliciter amen: Die vero 6.o Men.s May primae / Indict.s. In Terra Cutri Provinciae Calabriae Ultra.

Nos fatemur, quod eodem suprad.o die ibidem in n(ost)ram p(raese)ntiam personal.r constitutus Horatius / Fuscus de Terra Altimontis Provinciae Calabriae Citra Procu.r R(everendissi)mi Octavii Belmusti Ep(iscop)i / Aleriae, et perpetui Commendatarii et Administratoris Abbatialis Ecl(si)ae Sanctae Mariae dela / Matina Civit.s Sancti Marci, Sanctae Mariae de’ Sambucina de’ Terra Luzzi, et Sancti Angeli / à frigillo de Policastro substitutus d.s Oratius per Augustinum Belmustum Camerarium / Sanctissimi D(omi)ni n(ost)ri Papae fratrem, et Procurat.m generalem d.i R(everendissi)mi Ep(iscop)i cum potestate / substituendi eidem Augustino tradita per d.m R(everendissi)m Ep(iscop)um mediante procuratione rogata / die XII Iulii 4.ae Ind.s 1591 Neapoli per Ambrosium Giorgium publicum, et ap(osto)l(i)ca autho.te / notarium, et per aliam procurationem rogatam in villa Corlioni Campo de auro Die 5. / Ianuarii 1593 extractam ex Protocollo Tiberii Cimini publici notarii in Insula Corsicae / ad nonnullas potestates, et signanter ad exigendum omnes, et quoscumq. Census, et affictus, / introitus, redditus, et proventus à quibuscumq censuariis, et affictatoribus decimaturis in quibus vis d.ae Abbatiae, seu Commendae S.ae Mariae de la Matina de Sambucina, et Sancti / Angeli à Frigillo, necnon ad recognoscendum omnia, et singula bona dictae commendae in / quibuscumq. Mundi partibus bona occupata reintegrandum, ipsiq implateandum, describendum, / et adnotandum in affictum dandum per triennium, et etiam in emphiteusim perpetuam / vel ad tertiam generationem concedendum, et super praemissis, obligationes, et instrumenta / conficiendum, et fieri rogandum cum omnibus clausulis necessariis, et opportunis, prò ut de / dictis, et aliis potestatibus nobis constare fecit per publicum mandatum procuratorium / dictae suae substitutionis nobis exhibitum per d.m Oratium, per nos lectum, et benè visum, / et in nulla sui parte cassum, neq. Suspectum extractum in carta banbacina ab actis / notarii Marini Ancusa in Curia notarii Scipionis Castardi de Neapoli rogatum sub die / XI men.s Iulii, novae Ind.s 1596 Etin actis n(ost)rae Curiae, seu schedae pro cautela quor. interest / et poterit interesse remanet copia authentica, et fidem faciens. Substitutus idem Oratius / per d.m Augustinum Belmustum eisdemet potestatibus sibi concessis per d.m Ep(iscop)um, ac / loco sui, ut ex ipsa substitut.e est videre si opus fuerit. Agens d.s Oratius ad infr(ascritt)a omnia / d.o procu.rio nom.e, et prò parte sui principalis, et d.i R(everendissi)mi Ep(iscop)i, Abbatis, et Commendatarii / ut supra, et eius successorum In perpetuum ex una parte, et infr(ascritt)i particulares homines d.ae / Terrae Cutri, et aliorum locorum, ut inferius particulariter sunt notati agente ad infr(ascritt)a omnia / prò seipsis, eorumq. heredibus, et successoribus in perpetuum, ex parte altera. Praefatae quidem / partes sponte asseruerunt pariter coram nobis qualiter annis praeteritis, et proprie in anno 1597 / de Mense Octobris XIae Ind.s ipse Oratius se contulit in hanc p(raedi)ttam Terram Cutri prò effectu / renovationis praesentis Plateae et cum fuerit ad sui instantiam notificata exummunicat.o / Papalis, et emanata publica banna per servientem Curiae in Locis solitis dictae Terrae / continentia in vulgari, che tutte quelle Persone, che tenessero a censo robbe, stabili / della pre.tta Comenda di S.ta Maria de la Matina, Sambocina, e S.to Angelo in Frigillo, / grancia d’essa Comenda, o tenessero in affitto Gabelle della p.tta Commenda, e grancia / tanto in lo tenimento di Cutro, come della Rocca Bernarda, Baronia di Tacina, / et altri luoghi, ò sapessero ch’alcuno tenesse occupati, censi, ò robbe stabili / di detta Chiesa dovessero comparire nanti il d.o Procu.re a darline notizia, e cognitione per / poter quelli implateare, annotare e descrivere per futura cautela di d.o R.mo Comm.rio. / Quibus bannis sic emanatis, et excom.ne notificata tam in d.o anno 1597 de mense Novembris / et Decembris, ut inferius patebit, quam in hoc p(raese)nti anno coram d.o Procu.re, et Nobis, / Iudice, Notario, et testibus infr.is comparuerunt infr(ascritt)i homines et particulares infra / scriptorum Locorum, et assuerunt habere, et habere in emphiteusim ad censum

 

(f. 001v)

perpetuum subscripta bona stabilia in subscriptis locis d.ae Commendae concessae, et / donata per R(everendissi)mos Commendatarios et eorum Procuratores ipsis subscriptis censua / riis et particularibus ut inferius sunt notati, et licet de concessione, et datione dictorum / Censuum nulla appareat scriptura, et cautela valida, neq. assensus S.ae Sedis Ap(osto)licae / rogaverunt eumdem Oratium procuratorem velit bona ipsa de novo concedere, ce / dere et relaxare ipsis subscriptis particularibus ad censum perpetuum et in emphiteu / sim iuxtà naturam census emphiteutici, et cum pactis in similibus censibus apponi / solitis, et volens ipse Procurator cum ipsis subscritis censuariis, et particularibus / urbanius vivere, et amicabil.r tractare pro evitandis expensis litibus et dissentionibus / agens nomine, et prò parte d.i R(everendissi)mi Ep(iscop)i Abbatis et Commendatariis d.o procurat.e nomine / et virtute suae potestatis, et substitutionis sibi in d.o procur.rio mandato concessae cum ipsis sub / scriptis censuariis et particularibus p(raese)ntibus, recipientibus, et stipulantibus prò se ipsis, / eorum heredibus, et successoribus in perpetuum, et unoquoque ipsorum dictus Procurator ad infra(scri)ttam / concordiam, conventionem, transactionem, et pacta ad invicem devenit V.t. Quod d.s / Oratius Fuscus Procu.r ut supra d.i nomine et virtute suae potestatis concedit, donat, et relaxat / infra(scritt)a bona dictae Commendae S.ti Angeli de Frigillo in infr(ascritt)is locis, et finibus posita infr(ascritt)is / censuariis, et particularibus V.l. Cuiq. ipsor., ut inferius sunt adnotati ad annuum cano / nem redditum, sive censum emphiteoticum perpetuum pro subscripta quantitate / census, ut inferius denotabitur, salvo tamen assensu impetrando à Santa Sede Ap(osto)lica. / Sumptibus ipsorum Censuariorum super concessione dictorum censuum, quia sic inter eos fuit / actum promittentes ipsis infr(ascritt)i Censuarii, ut quisq. ipsorum promittens prò se ipso, / et haeredibus et successoribus eius censum ipsorum bonorum Sibi concessum solvere et pa / gare anno quolibet in perpetuum ipsi R(everendissi)mo Commend.rio, et Commendae p(raedi)ttae sub natura, / et pactis emphiteoticis in medietate mensis Augusti cuiuslibet anni incipiendo facere / solutiones, ut inferius patebit: Ità quod ex nunc in anteà, et in perpetuum sub p(raedi)tta / bona, ut supra locata, et concessa cum juribus/ ex p(raese)ntis concessionis causa / transeant, et sint in utili dominio ipsorum censuariorum et eorum haere / dum, et possessionem capiendum dominandum, et quicquid // tamquam de / re in emphiteusim concessa, requisita tamen prius d.i R(everendissi)mi Commend.i, et eius / successoribus, cedens ipse Procurator eisdem subscriptis censuariis p(raese)ntibus // omne / ius // directo dominio ipsorum bonorum dictisq. annuis censibus sub honeribus, et / emphiteoticis pactis in p(raese)nti instrum.to contractis eidem R(everendissi)mo Abbati, et eius successo / ribus in perpetuum semper salvis et reservatis Pro.nis/ constituens/ et promisit, / et convenit d.s Procurator solemni stipulationi // eisdem subscriptis censuariis / praesentibus / locationes, et concessiones praedictas, ac omnia infra(scritt)a // semper / ha / bere ratas // ac rata // et contra confacere // aliqua ratione // dictosq. Censua / rios à d.a locatione et concessione non amovere / aliqua ratione / et promisit / d.s Procurator p(raedi)tta omnia observari facere à d.o D. R(everendissi)mo Com.rio, et promisit quo / supra nom.e eisdem censuariis p(raese)ntibus // eorumq. haeredibus // infra.a bona sibi ipsis / concessa semper in perpetuum in judicio, et contra defendere, et ante stare, et de / evictione teneri generaliter / omnemq. litem // quia sic // et vice versa ipsi / infr(ascritt)i censuarii promiserunt pastinare vineas, terras colere, arbores expurgare, / ut potius bona infrascripta sibi ipsis concessa videantur augmentari, quam deteri / orari, dictosq. annuos redditus, sive census emphiteoticos perpetuos integrè solvere / d.o Commendatario, et eius successoribus in tempore suprad.o, et à d.a solutione / non deficere aliqua ratione // in pace // et non obstante quacumq. Exceptione // ac beneficio patientiam praestandi, quibus omnibus expressè cum juramento re / nunciaverunt. Ita quod liberè liceat d.o R(everendissi)mo Abbati, et eius successoribus

 

(f. 002)

dictos annuos census emphiteoticos perpetuos adveniente tempore, singulis annis / in medietate mensis Augusti exigere, et habere tam ab ipsis subscriptis censuariis, / eorumq. Haeredibus // quam à quicuscumq conductoribus, seù incolinis terrarum infra / scriptarum et fieri facere promptam, paratam et expeditam exceutionem r(ea)liter / et personaliter etiam juris forma non servata solum pr(raese)ntis instrum.ti, et pacti vigore / ac si esset pensio Domus iuxtà usum pensionum Domorum Civit.s Neapoli quae prò / consecutione dictorum censuum, p(raese)ns instrum(ent)o possit singulis vicibus, et toties quoties opus erit / praesentari, accusari et liquidari per procuratores dictae Commendae in perpetuum contra in / frascriptos Censuarios, et unicuiq. ipsorum eorumq. et cuiuslibet ipsorum heredes, secundum formam / ritus M.C.V. in omni loco, foro // quia sic // pacto adiecto inter ipsas partes, quod sic / infr(ascritt)i censuarii, aut eorum haeredes, et successores defecerint à solutione dictorum annuorum censuum / per triennium continuum, et si vendiderint, aut alienaverint inquisito d.o R(everendissi)mo Abbate / et non expectato iuris termino, quod est de iure emphiteotico, vel promissa per eos ad unguem / non adimpleverint in casibus p(raedi)ttis uno quoq. ipsorum infr.a bona, ut supra concessa cum om / nibus augmentis in eis tunc factis ipso facto incidant incommissum, et pleno iure devolvant.r / ad ipsam Commendam dictiq. Censuarii cadant à tenuta et possess.e dictorum bonorum, hoc etiam / pacto, quod ipsi censuarii ullo unquam tempore possint census suscriptos inter se eorumq. haere / des, et successores dividere, aut aliquam partem relinquere, sed teneantur census p(raedi)ttos / solvere, prout sibi conceduntur, quia sic // Hoc etiam pacto, et condit.e, quod suprad.s / R(everendissi)mus D(omi)nus Abbas Commendatarius, aut eius successores in d.a Abbatia repererint aliqua / publica instrumenta, seù antiquam plateam, per quae, et quam aliquis p(raedi)ttorum emphie / totarum teneretur ad maiorem quantitatem census prò dictis infr.is Bonis, tunc, et eo / casu nullum inferatur praeiudicium d.o R(everendissi)mo D(omi)no Abbati, et Commendat.rio p(raedi)tto, et possint / illud plus, et illam consequi, repetere, et intabulare, et annotari facere, et ipsi censuarii / teneantur illam solvere, quia sic // et ad p(raedi)ttam d.s Procurator et censuarii infr(rascritt)i re / manserunt affirmantes cum iuramento p(raedi)tta omnia, et infr(ascritt)a ferine, et esse vera, / prout ad unam quamq. ipsorum spectat // spontè coram nobis, nobisq. subscriptis obligave / runt seipsos, et unumquemq. ipsorum eorumq. haeredes // et bona omnia mobilia, et sta / bilia // una pars V.t. alter, et altera alteri p(rase)ntibus // sub poena, et ad poenam unciarum / auri quinquaginta medietate // quae poena toties commitatur // qua poena // cum / potestate capiendi // Const.e praecarii // et renunciaverunt ambae partes ipsae super promissis // exceptione doli, mali, vis, metus // et omnibus legibus // et iuraverunt, et quisq. ipsorum / ad Sancta Dei Evangelia, tactis corporal.r scripturis, iuravit // Unde // = Censuarii habentes census veteres, et censuarii novi promittentes solvere sunt infr(ascritt)i V.t

Cutro, In Gabella delle Chianette

Die 16 mensis xbris xi Indict.s 1597

Joannes Ferdinandus Mendolara de Terra Cutri conduxit ad annuum Censum / Emphiteuticum perpetuum quodam Petium Terrae Aratoriae cum domibus, et vineis / situm in Tenimento dictae Terrae in Gabella d.a le Chianetta dictae Commendae Sancti An / geli Confinatum, et Circuitum, ut infra V.t Dal Casalino di Laudonia Grandello / confine l’orto di Galiotte Ganguzza, trapassa la via, e Confina alle Terre di d.a Abbatia, / che tiene Gio: Vincenzo, e Gio: Fran.co de Maida, iuxtà le Terre di Giovanni Tronga, / Vallone mediante, iuxtà la Chiusa, che fù del q.m Luca Scaccia, e le Terre di / Gio: Matteo di Bona, Vallone mediante, iuxtà le Terre di d.a Abbatia, che tiene / Fabritio Oliverio, iuxtà la Casa di Minico Migale, dichiarando, che le Case di / detto Minico vanno incluse alla p(rese)nte Concessione, e similm.te la Casa palaziata / e Casalino, che tiene la Vedova del q.m Notar Ferrante Colicci, nel quale ter / reno esso Gio: Ferrante ha fabricato una Torre, et altre Case Terrane, Orto, e Vigne / dove s’include anco uno pezzo di terreno, che d.o Gio: Ferrante ha donato a Matteo / Mendolara suo frate, quale terreno si tassa per uno tumulo, e mezzo di grano / l’anno, prò quo petio Terreni sic limitato Cum domibus, et Vineis p(raedi)ttis / promisit solvere tumulos novem frumenti singulis annis de Mense Augusti

 

(f. 002v)

ut supra incipiendo primam solutionem in medietate Mensis Augusti proxime intrantis / anni 1598 et sic continuare in perpetuum.

Jo: Vincentius, et Jo: Franciscus de Maida dictae Terrae dixerunt habere petium Terrae / cum Vineis, et terreno vacuo in d.a Gabella delle Chianette iuxtà Terras Joannis Ferdi / nandi Mendolara, viam publicam qua itur ad Molendina Conusae, et alios fines, pro / miserunt solvere in solidum anno quolibet tumulos sex Cum dimidio Grani in medie / tate Augusti Cum pactis Emphiteuticis, ut supra in perpetuum.

Augustinus Migale pro Una Domo Terranea Cum Casalino ante ianuam dictae Domus in d.a Gabella delle Chianette promisit solvere stoppellum unum / Grani in perpetuum Cum pactis Emphiteuticis ut supra.

Die p(raedi)tto 16 xbris 1597 xi Indictionis

Fabritius Oliverius Praesbyter, Jo: Foresta, et Salvator Foresta d.ae Terrae / in solidum prò pretio Terreni quod tenebat usurpatum Prosper Villirillus quod / antiquitus tenerunt Jo: Thomas, et Turcus de Flore situm in d.a Gabella delle / Chianette iuxtà Hortum q.m Fabii de Bona, vineas Jo: Ferdinandi Mendolara, / Hortum Jo: Thomae de Flore promisserunt in solidum solvere annis singulis tu / mulos duos Cum dimidio Grani in perpetuum Cum pactis ut supra.

Joannes Simon Palmerius de Sancto Mauro incola Cutri prò petio Terreni / quod tenerunt haeredes q.m Jo: Bap(tis)tae Pinari situm alle Chianette, iuxtà Ter / renum, quod tenet Jo: Paulus Chirillus, et Jo: Bap(tis)ta Spagnolus, promisit solvere / in perpetuum tumolum unum, et quartum unum Grani, Cum pactis ut supra.

Joannes Paulus Chyrillus, et Jo: Bap(tis)ta Spagnolus, prò Petio Terreni situm / alle Chianette, quod tenebat ipse Jo: Paulus in Comuni Cum haeredibus q.m / Andreae Guerci, ubi sunt due Domuncolae fabricatae, promiserunt solvere tu / mulum unum grani, medium prò quolibet in perpetuum Cum pactis / Emphiteuticis, ut supra.

Jo: Bap(tis)ta Spagnolus prò petio Terreni sito alle Chianette, quod tenebat / Jo: Petrus de Bona, de Jo: Gregorio, iuxtà sup(radit)tum terrenum Jo: Simeonis Pal / merii promist solvere tumulos duos Cum dimidio grani in perpetuum / de mense Augusti Cum pactis, ut supra.

Die 19 Februarii 1603

Joannes Hyeronimus Foresta Prò duobus Vinealibus, quos tenebat / Jo: Berardinus Bellator, quae fuerunt q.m Annibalis de Simeri in d.a Gabella / delle Chianette iuxtà Clausuram Jo: de Scaccia, Clausuram de Tronga / Terras Jo: Vincentii, et Francisci de Maida promisit solvere in perpetuum / tumulum medium grani, et Carolenos duos annis singulis Cum pactis ut s.a.

Die p(raedi)tto Praesbyter Lucas Joannes Ganguzia Cum Consensu Galeotti / sui Patris praesentis. Pro Domo palatiata Cum Camera, et horto fabricato / et uno stabulo in d.a Gabella delle Chianette, iuxtà Domum Stephani Mendo / lara, Domum q.m Notarii Ferdinandi Coliccia, Domum quae fuit Lau / doniae Grandello, et alios fines promisit solvere Carolenos quinque in per / petuum, ut supra.

Die p(raedi)tto Staphanus Mendolara, Prò Domo Terranea, quae fuit q.m / Parisii Fattizza sita alle Chianette, iuxtà Domum Jo: Pauli Accetta, et / Palatium D. Lucae Jo: Ganguzza promisit solvere anno quolibet granos duo / decim Cum dimidio in perpetuum ut supra.

 

(f. 003)

Marcus Antonius Mendolara prò quadam Domuncula quae fuit Matthei / Mendolara in le Chianetta, iuxtà Domus novas Fabritii Oliverii promisit solvere / granos sex in perpetuum, ut supra.

Die 16 xbris 1597

Joannes Tronga prò vineali in d.a Gabella dele Chianette iuxtà clausuram / ipsius Joannis, bona q.m Joannis Melioti, et viam publicam promisit solvere / granos septem Cum dimidio, et prò petio terreni arborati in eadem Gabella / duorum tumulorum, quod fuit q.m Stefani Scaccia iuxtà bona ipsius de Tronga, / et viam publicam promisit solvere Carolenos Tres Cum dimidio in perpetuum / Cum pactis, ut supra.

Joannes Petrus de Mayda q.m Jacobelli prò uno hortale in eodem / loco iuxtà Domum ipsius Jo: Petri, iuxtà hortum Jo: Thomae de Flore promisit / solvere Carolenos duos in perpetuum, Cum pactis, ut supra.

Joannes Thomas, et Jo: Maria de Flore in solidum prò uno hortale alle / Chianette, iuxtà hortum Jo: Petri de Mayda, hortum q.m Fabii de Bona / domum ipsius Jo: Thomae, Cum qua domu, quae ibi reperitur promiserunt / solvere Carolenos tres in perpetuum, ut supra.

Portia del Moio Vidua q.m Fabii de Bona, prò horto fabricato, arborato diversis / arboribus in d.a Gabella delle Chianette iuxtà viam publicam, iuxtà hortum / Joannis Petri de Mayda, et alios fines promisit solvere Carolenos duodecim / in perpetuum, Cum pactis, ut supra.

Joannes de Scaccia Prò duobus Vinealibus, seu vinea, quae fuit / Antonini Musitani, iuxtà viam publicam, et bona Jo: Tronga in d.a / Gabella delle Chianetta promisit solvere Carolenos tres Cum dimidio / in perpetuum, Cum pactis, ut supra.

Die 29 Aprilis Primae Indict.s 1603

Fabritius Oliverius dictae Terrae ex una, et d.r Oratius Fuscus Procu.r / ut supra ex altera asseruerunt, l’anni passati, et proprie nell’anno 1597 / del mese di xbre esso Procu.re haver Concesso ad esso Fabritio, à D. Giovanni / e Salvatore Foresta in solidum uno pezzo di Terreno di d.a Abbadia / posto alle Chianetta, quale tenea Prospero Villirillo, iuxtà l’horto / del q.m Fabbio di Bona, le Vigne di Gio: Ferrante Mendolara, et altri / fini per Censo annuo di tumula due, e mezo di grano, come di sopra / appare, e perchè dopo Confine d.o terreno s’è fondato il monasterio / de’ Padri Capuccini, e l’Università di Cutro hà pigliato più della metà / di d.o Terreno, e datolo per commodità di d.o monast.ro si Convengono / hoggi esse parti, ch’esso Fabritio dà mo’ avanti per lo terreno, che è / romasto à esso una Con le Case nove, ch’hà cominciato à fabricare / in d.o Terreno Con una stalletta, et un’altra stalla Confine il Palazzo / di D. Luca Gio: Ganguzza paghi dalla Metà d’Agosto primo inanti

 

(f. 003v)

inclusive, e cossi continuare in perpetuum tumulo uno, e quarto uno di grano / l’anno, e per le due altre Case terranee, che possiede in d.o luogo delle Chianette / che foro di Laudonia Grandello paghi un altro quarto di grano l’anno, che tutto / sono tumolo uno, e mezo di grano l’anno quale promette pagare in perpetuum / Con li patti Emfiteutici, ut supra.

Die p(raedi)tto Joannes Paulus Accetta de Terra Policastri prò domo Terranea, / e Casaleno quam dixit habere in d.o loco delle chianetta, iuxtà Domum Stefani / Mendolara, viam publicam, et alios fines, promisit solvere annis singulis in / perpetuum de mense Augusti granos quindecim Cum pactis, ut supra.

In Gabella dicta de Tavolaro

Die 14 Novembris xi.ae Indictionis 1597

Victorius de Orlando Terrae Cutri prò duobus Vinealibus, et medio, quae dixit possi / dere in Gabella de Tavolaro, iuxtà bona q.m Rinaldi de Diano, quae hodie tenet / Julius Caesar de Flore, et iuxtà bona, quae fuerunt q.m Dionisii de Orlando promisit / solvere Carolenos novem in perpetuum, ut supra.

Die p(raedi)tto Julius Caesar de Flore prò duobus Vinealibus, quae fuerunt q.m Rinaldi / de Diano sitis in dicta Gabbella de Tavolaro, iuxtà Vinealia Victorii de Orlando / promisit solvere granos viginti duos cum dimidio.

Die p(raedi)tto Gregorius Mannara prò duobus Vinealibus, quae dixit possidere in / dicta Gabbella de Tavolaro Circum Circa Gabellam praed.m promisit solvere / carolenos sex, ut supra.

Die xj Novembris 1597 Scipio Foresta prò suis vineis Cum domo, et ter / reno vacuo à parte superiori in plano sitis in dicta Gabbella iuxtà vias publicas, / Terras quas tenent Hieronymus, et Joannes Aloisius de Albo, Vineas Octavii, et Marcelli de Mayda, et alios fines promisit solvere Carolenos duodecim, ut supra.

Octavius de Mayda, prò suis vineis, et terreno vacuo in d.a Gabbella de Tavolario / iuxtà Vineas Scipionis Foresta, Terras de Tavolaro, et alios fines promisit solvere / carolenos duodecim in perpetuum, ut supra.

Clericus Joannes Franciscus de Albo prò Vineis quas tenet in Tavolaro iuxtà / Vineas Octavii de Mayda promisit solvere Carolenos novem in perpetuum / Cum pactis, ut supra.Troilus Foresta Archipraesbyter Cutri, prò quatuor Vinealibus, quae dixit pos / sidere in d.a Gabbella de Tavolaro, et uno Vineali quod fuit q.m Viti de Diano, et / alio Vineale quod fuit q.m Marci Seminara, in quibus terris fuit incohata fabrica / monasterii, et deinde derelicta, et sunt Vineae iuxtà viam publicam, Terras q.m Joannis / Fran.ci Papasoderi, ex alio latere lo Vallone frà lo Boschetto d’esso Arciprete, e dette / Vigne, ex alio latere, iuxtà terras quas tenet Joannes Maria Foresta, fosso mediante / promisit solvere tumulos duos frumenti in perpetuum, Cum pactis Emphiteoticis, ut s.a.

Die Ultimo ap(ri)lis 1603 Primae Indictionis

Joannes Maria Foresta prò Continentia Terreni Capacitatis tumulatarum / quatuor Cum dimidio in circa in d.a Gabbella loco d.o Le Fosse iuxtà Vinealia / di D. Troilii Foresta, et alias Terras ipsius Jo: Mariae, hortum de Musitano, et alios fines, / et unam viam qua itur Crotonem promisit solvere Carolenos decem in / perpetuum, ut supra.

 

(f. 004)

Die 15 xbris 1597

Dionisius Foresta, et prò eo Stratonica Santoro eius ava prò Clausura in d.a / Gabbella, quae fuit q.m Joannis Fran.ci Papasoderi, iuxtà bona, quae fuerunt d.i q.m / Joannis Francisci, vias publicas, iuxta Vineale, quod fuit Viti de Diano, et pos / sidetur per D. Troylum Foresta promisit solvere tumulos duos frumenti / in perpetuum, ut supra.

Ultimo Aprilis 1603

Jacobus Guercius prò vinea q.m Baptistae sui Patris sita in Vallone / de Tavolaro iuxtà Vineam q.m Matthei Monteleonis iuxtà Terras de Tavolaro, / Vallone mediante promisit solvere Carolenos duos, ut supra.

Quinto Februarii 1603

Marcellus de Orlando de Camillo, prò terris quae fuerunt q.m Laurentii / et Jacobi de Orlando iuxtà viam publicam de uno latere, ex alio terras d.i / q.m Laurentii, Vallone mediante, ubi discendit Cursus aquae, et finit in via ubi / est Gabbella Ducalis Curiae iuxtà Terras dictas de puzzo siccagno, vallone mediante, alias Terras ipsius Marcelli, vallone mediante, Capacitatis tumulatarum undecim / in Circa promisit solvere Carolenos viginti duos Cum pactis, ut supra.

Laura Pagano vidua q.m Jo: Hieronymi Daetani prò vineis, et terreno / vacuo tumulatarum sex in circa in loco detto lo Vallone di Tavolaro iuxtà vineas / Juliani Paparugerii, Terras dictas de Tabanello, promisit solvere tumulos / duos frumenti in perpetuum, ut supra.

Die 8 9bris 1597

Joannes Aloysius et Hieronymus de Albo in solidum prò vineis / et Terrenis vacuis in dicta Gabbella de Tavolaro iuxtà Vineas Octavii, et / Marcelli de Mayda, iuxtà viam de Tavolaro promiserunt solvere tumolos / duos frumenti, et Carolenos quinque singulis annis, in perpetuum, ut supra.

Die p(raedi)tto

Marcus Fera prò duobus pectiis terreni in d.a Gabbella de Tavolaro Capacitatis / Tumulatarum sex in circa iuxtà viam publicam ex uno latere ex alio Terras / dictae Gabellae promisit solvere tumulos duos frumenti anno quolibet in perpetuum, ut supra.

Die p(raedi)tto

Marius Villirillus, prò vineis quas dixit habere in extremo d.ae Gabbellae / la Sciolla ad’irto in Territorio Sancti Joannis Monagò, iuxtà Gabbellam / Ducalis Curiae, et Terras Sancti Leonardi, promisit solvere Carolenos quinque / ut supra.

Die p(raedi)tto

Augustinus Grandellus prò media Domo, quae fuit Lucretiae Palmeri / sita in d.a Terra loco detto la Banda, iuxtà Domus q.m Minici de Petrucci / promisit solvere granos octo.

 

(f. 004v)

Joannes Franciscus, Jacobus, et Lucas de Petrucci prò Domibus, et horto / quae fuerunt D. Bartholi Maronici in dicto loco de la Banda iuxtà viam publicam / et hortum Sancti Nicolai promiserunt solvere granos quindecim, ut supra.

Joannes Mattheus Oliverius prò media Domo, quae fuit q.m Antonii de Petrucci sita / alla Banda iuxtà Domos Augustini Grandello promisit solvere granos duos cum dimidio.

Julianus Paparogerius prò duabus domibus alla banda iuxtà domum Berardini / de Campanaro, et viam publicam promisit solvere granos sexdecim.

Berardina Gurgurace vidua q.m Minci Campanaro prò domo sita alla / banda iuxtà Domos Clerici Jo: Vincentii Villirillo promisit solvere granos novem.

Die xx.a May 1603

Joannes Thomas de Oliverio prò terris in d.a Gabbella de Tavolaro tumu / latarum octo in circa inter fertiles, et infertiles, iuxtà ex uno latere hortum Marci / Fera Vallone mediante, et à parte superiore iuxtà viam qua itur ad Terras d.ae / Gabellae, et ex alio latere iuxtà Vallatam, et à parte inferiori iuxtà Terras / d.ae Gabbellae, et Terras Tavolarelli, dicto Vallone ut supra mediante, promisit / solvere Carolenos duodecim anno quolibet emphiteut.s de mense Aug.i ut sup.a.

In Gabbella dicta delo Battiato xx Feb.ro 1603

Joannes Bap(tis)ta de Bona Terrae Cutri prò terris tumulatarum duodecim / in circa sitis in d.a Gabbella de lo Battiato in loco dicto lo Frassello iuxtà Vinea / lia Marcelli de Bona, et fratrum, iuxtà alias Terras d.ae Gabellae, iuxtà Vinealia / de lo laco via mediante, Vinealia Jo: Aloisii de Albo, promisit solvere Caro / lenos Viginti anno quolibet in perpetuum, Cum pactis, ut supra.

Rutilius de Bona prò duobus Vinealibus in d.a Gabbella de lo Battiato iuxtà / Vinealia Jo: Bap(tis)tae de Bona, via pub.a d.ae Gabbellae promisit solvere Carolenos Tres.

Ultimo ap(ri)lis 1603

Marcellus, et Sigismundus de Bona prò undecim Vinealibus, quae tenebat / q.m Joannes Nicolaus de Bona in d.a Gabbella delo Battiato, iuxtà Vinealia Ruti / lii de Bona, Vinealia Jo: Bap(tis)ta de Bona, viam publicam, Cum quodam petio ter / reni in Gabbella de lo laco in angulo viae, iuxtà Vineale Julii de Flore promise / runt solvere Carolenos decem, et octo in perpetuum, Cum pactis, ut supra.

Hieronymus, et Jo: Aloysius de Albo in solidum, prò vineale, quod dixe / runt habere allo frassello, iuxtà terras quas tenet Jo: Bap(tis)ta de Bona / iuxtà Vineale de lo laco, Terras Sigismundi de Bona, promiserunt / solvere Carolenos quatuor, ut supra.

Die 16 xbris 1602

Sigismundus de Bona de Joanne Thoma prò petio terreni d.o lo Vignale / del Laco Capacitatis tumulorum sex cum dimidio in circa iuxtà viam, qua, itur / Catanzarium, iuxta vineale Jo: Aloysii de Albo, et à parte inferiori, iuxtà Vi / nealia Jo: Bap(tis)ta de Bona, et à parte superiori, et ex alia parte vinealia / Lucae Oliverio inclusoci anco uno pezzo di terreno, ch’era Cum lo Vattiato, / promisit solvere Carolenos tresdecim in perpetuum, ut supra, incipiendo primam / solutionem in med.e Augusti anni 1604, nam interim reperitur Locatum.

 

(f. 005)

Die xx Februarii 1603

Joannes Simeon Benincasa prò petio Terreni Capacitatis tumulatarum viginti / in Circa intus gabbellam de lo Vattiato loco detto lo frassello, iuxtà Vinealia, quae tenet / Joannes Bap(tis)ta de Bona, seq.r vineale q.m Joannis Thomae de Bona, usque / ad Vallonem Cursus aquae de lo Vattiato, et sequitur vallonem sursum / usque ad Vinealia Lucae Oliverii, et in d.o loco iuxtà Vinealia Concessa Sigis / mundo de Bona per deritto ad vineale Jo(ann)is Aloysii de Albo, et iuxtà / d.m Vineale Joannis Aloysii, promisit solvere annuos ducatos qua / tuor in perpetuum incipendo ab anno 1605, nam interim rep.r locatum.

Sexto May 1603

Stephanus Paganus prò petio terreni in d.a Gabbella delo / Vattiato, quod nominatur lo Vignale di Paterno Capacitatis tumu / latarum duodecim in circa iuxtà Vinealia Marcelli, et Sigismundi de Bona, vallone / mediante, iuxtà Terras della petr’irta, e la via verso suso fia lo cavone, che và / ferire allo pizzo di detta Terra, e lo Serrone, Serrone, acqua pendente verso la / petr’irta, promisit solvere Carolenos sexdecim annuos in perpetuum / Cum pactis Emphit.s, ut supra, incipiendo in Augusto 1605.

Die p(raedi)tto

Joannes Bap(tis)ta Oliverius prò petio terreni in d.a Gabbella dello Vattiato / Capacitatis tumulorum viginti in Circa inter utiles, et inutiles Confinatum infra V.t / dalla via della Colla, che si và alla Casa di Luca Oliverio verso la Serra, e la Serra / Serra à basso sino al Vignale di Luca Oliverio, vallone mediante, e dà d.o loco / lo Vallone, vallone, tira dritto allo Vallone della piperia, e pugliano, e / dallo Vallone ad’irto, Confine la Gabbella di Luca, e Gio : Matteo Oliverio, e finisce / alla Colla, seu Serra, dove hà cominciato, promisit solvere annuos carolenos vi / ginti quinque, incipiendo primam solutionem in Aug.o 1605 nam interim reperi / tur locatum.

Die p(raedi)tto

Lucius Oliverius Cum Consensu Jo(ann)is Bap(tis)tae Patris p(raese)ntis prò petio Terreni / in d.a Gabbella dello Vattiato, quod dicitur lo Vignale de la fico grande Capa / citatis tumulorum sex in circa, confinatum V.t la via via, iuxtà lo Vignale / di Luca Oliverio, e lo Vallone, vallone, seu Cavone promisit solvere Carolenos / decem annuos in perpetuum, ut supra incipiendo in Aug.o 1605 ut supra.

Item d.a R(everendissi)ma Abbatia tenet, et possidet pleno iure in

Tenimento dictae Terrae Cutri, et Locorum infrascriptorum sub

scriptas Gabbellas, et Territoria, ut infra descripta, et

confinata V.t

La Gabella di Tavolaro, iuxta la Gabbella di Panarello, le Terre / di Scipione deralo, iuxtà le Terre di Casa d’orlando, iuxtà la Gabbella / della Porcheria, et altri fini.

La Gabbella detta lo Vattiato, e Valle di Bruca, iuxtà lo feudo piccolo / di Sigismundo Rocca, iuxta le Terre di Luca Oliverio, iuxta la Gabbella / di petr’irta, e lo Vallone, stagno medio medio.

 

(f. 005v)

La Gabbella de lo Laco, et Mandato, iuxta la Gabbella di Puzzo fetido, iuxta / le Terre di termine grosso et altri fini.

La gabbella detta li Monaci nel d.o Tenimento di Cutro iuxtà le Terre de / li Foresta, iuxtà la Gabbella di Rosito, et iuxtà la Gabbella de lo Cariglietto / et altri fini.

La Gabbella dello Frasso iuxtà le Terre di D(on)no Pietro Ligname, iuxtà le / Terre dell’Orlandi, iuxtà la Gabbella di Rosito, et altri fini.

La Gabbella detta Le Chianetta de Santa Maria, iuxtà la d.a Terra / di Cutro, iuxtà la Chiesa di Santa Maria de la Gratia, le Vie publiche / iuxtà lo Vignale di D. Pietro Ligname, et altri.

La Gabbella detta Lo Piano dela Menta, iuxtà la Gabbella d’Arcieri, iuxtà la / Gabbella di Feruluso, et altri fini.

La Gabbella detta Terrata nel tenimento della Roccabernarda, iuxtà lo Feudo / grande di Sigismondo Rocca, iuxtà la Gabbella del Cl.co Gio: Vincenzo Villirillo, et / iuxtà lo Fiume di Tacina.

La Gabbella nominata Camerlingo, nel Territ.o di Roccabernarda iuxta lo / Fiume di Tacina, iuxta le Terre di Madonna Giovanna, iuxta lo Feudo grande / via publica mediante, iuxta la Gabbella di termine grosso, la Gabbella di / Carnevale, et altri fini.

La Gabbella detta Arminò in d.o Terr.o della Roccabernarda, iuxtà / lo Feudo grande, et iuxta la Gabella di termine grosso, et altri fini.

Unde ad futuram rei memoriam d.i R(everendissi)mi Ep(iscop)i Commendatarii et eius succes / sor., et quem interest, et interesse poterit cautela // facta est de praemissis // Prae / scritibus rogatis Jo: Fran.co Pipino. R. J. ad Contractus, Mattheo de Flore, Praesbyter / Luc’Ant.o Fattizza, Praesbyter Jo: Foresta, Jo: Mattheo Oliverio, Cl.co Jo: Vincentio / Oliverio, Jo: Thoma Cizza, Innocentio Foresta, Prosp.o Fera, et aliis.

Die X mens.s May p.ae Ind.s 1603 In Terra Misuracae

Insuper ego praefatus notarius fateor, q.l.r hodie prenom.to die ad instantiam suprad.i / Horatii Fuschi Procuratoris substituti, ut supra simul cum ipso Horatio personal.r / Nos contulimus, et accessimus ad p(raedi)ttam Terram de Mesoraca ad prosequendam d.m / Plateam, et describendum, et implateandum census dictae Terrae, et ad notandum / novos possessores et homines dictae terrae Mesoracae, qui ad p(raese)ns tenent, et possident / bona censualia dictae Abbatiae Sancti Angeli à Frigillo, ne longitudine temporis per / deretur memoria dictorum censuum, et d.a Ecclesia remaneret laesa, propterea / factis debitis diligentiis per d.m Procuratorem, et emanatis publicis bannis per totam d.m terram Mesoracae per Camillum Ceraldum publicum praeconem, et ser / vientem Curiae terrae p.ttae Che ogni persona, che tiene robbe stabili sotto posti / à censi della Abbatia di Sant’Angelo in Frigillo compara innanti Oratio Fusco / Proc.re destinato per rinovare la Platea di d.a Abbatia, e di notar Gio: Francesco / Terranova di Cutro deputato ancora à descrivere d.a platea nova, à rivelare / le robbe che possedono, e che censi ne pagano, altrim.te incorreranno nella scom.ca / Papale, che s’è pronunciata l’anni passati, et in septem diebus per nos / conscriptis, et vacatis in d.a terra Mesoracae prò effectu p(raedi)tto comparuerunt infr(ascritt)i / censuarii, et declaraverunt possidere infr(ascritt)a bona stabilia reddititia d.ae Abbatiae / Sancti Angeli infrascriptis summis et quantitatibus censuum antiquitus desti / tutorum V.t.

 

(f. 006)

Cumana Truscia, et Giovanna Misuraca di Mesoraca per uno Vignale allo loco dello / Agrillo di tumulata una, et uno quarto, che fu di Paolo di Tacina iuxta le Terre d’Agu / rello Venere, la Via publica, e lo Vallone, rende a detta Abbatia grana diece annui / in perpetuum.

Augurello Venere per uno pezzo di Terra in l’Agrello di tt.la 3 ½ che fù di Paolo / di Tacina, iuxtà lo Vignale che fù della detta Cumana, rende grana diece.

Andrea de Vinculaò per uno Casalino, che fù di Fran.co Martino, posto, dove si dice la / piazza iuxta la Casa della Corte, via mediante, rende grana due annui, ut s.a.

Gerolimo Coliccia per Censo della Vigna, che fù di Troiano Perretta in loco detto / li monaci, iuxta suoi fini, paga grana otto, annui.

Andrea Curcio per Censo della Vigna, che fù di D. Gio: Curcio in loco d.o Lavaturo / iuxta la via pub.ca, et altri Confini, paga grana diece annui.

Minico Falcone per li due Vignali, che sono d’Andrea Nicotera in luogo della Scala / iuxta le Terre, che furo di Stefano Bonofiglio paga grana quindeci.

Gio: Paolo Salerno per Censo di Terreno, che fò di Minico Durante in l’Agrillo di tt.la / uno paga grana diece annui, ut supra, e più il d.o per una pezza di Vigna, e terreno / vacuo di tt.la uno, e mezzo in circa in loco d.o li Monaci, iuxtà la Vigna, che fù di Pietro / Rizzuto, paga grana diece, ut supra.

Bartolo Campanaro per uno pezzo di Terra di tt.a sei alla volta di Paoncello, iuxta le / Terre della Corte paga grana tridici.

Giovanni Giordano per una Vigna, che fù di Paolo Paterno con terreno vacuo in loco / delli monaci, iuxta le Terre dell’Abbatia, paga carlini due annui.

Camilla Cuiello per una possess.e arborata con celsi, et altri fù di Cola Maria Palumbo / iuxtà Vennere, iuxtà le Timpe dell’Ec(c)l(esi)a di Sant’Elia, la via publica paga / carlini tre annui.

Gio: Gerolamo la Rosa per uno Casaleno con due piedi di celsi in d.a Terra loco d.to / S. Pantaleo fù di Minica Rogliano, paga grana cinque.

Palumba Durante per Censo della Vigna alli monaci, che fù di D. Simone / de Giglio, iuxta la via publica, paga grana diece.

Lisa di Biasi per uno Giardino di Citrangoli in loco d.o la lettera, iuxta le Timpe / iuxta la Vigna, che fù di Giulio Cavallo, paga carlini tre.

Camillo Ceraldo per uno pezzo di terreno à lavaturo fù della Vedova d’Agatio / di Diego, iuxtà la via publica, paga grana tre, e più il detto per uno altro Vi / gnale in d.o luogo, iuxtà la via vecchia, e la vigna di Castanò, paga tre altri / grana.

D.r Camillo di Giglio per uno pezzo di Terra, di tumula un’e mezo alla Scala / fù di Giovanni Giurlandino, iuxtà le Terre d’esso Camillo e della Corte / paga grana venti cinque annui, ut supra.

Angela dello Russo per uno pezzo di Terra à San marco, che fù d’Antonino Vecchio / iuxtà suoi fini paga grana due e mezo; e per lo Vignale, che fù di Cesare / Rotella in d.o luogo grana due, e mezo; e per un’altra Vigna, che fù d’Antonino / Vecchio in d.o luogo grana due, e mezo; e per la Vigna che fù dell’heredi d’Otta / viano Vecchio in d.o luogo grano uno, e mezo; tutto sono grana nove.

Francesco Guttella per lo vignale, che fù di Brindia di Grano di tumula due in / Valle Cupa paga grana cinque.

 

(f. 006v)

Francesco Gargano per uno pezzo di Terra di tt.e quattro in loco d.o le Casalina / che fù d’Antona di Silvestro Gargano paga grana tredici, e mezo.

Andreana Ammirata Vedova di Fran.co Cavallo per uno pezzo di Terra di Circa / tumulo uno nello Piraiinetto, che fù di Girolamo Cavallo paga grana Cinque.

Fabritio Puglise per Censo d’una Casa palatiata in loco detto lo Piano della Abbatia / con uno casaleno contiguo, che fù d’Aurelia Vitaliana iuxta la via publica, ne / paga grana tredeci.

Filippo lo Russo per uno pezzo di Terra di tumula tre in Circa in loco d.o l’Ombro, / Salso furo di Bernardo Guccio, paga grana diece.

Clerico Francesco la mantia per un’horto di Celsi piedi dieci allo Petrarizzo fù di D. / Agatio Bruno, iuxta la via publica, paga grana Cinque.

Cola Francesco Giurlandino per uno Vignale, che fù di Paolo di Tacina alli Monaci / di tt.la due, e mezo, iuxtà la Via publica, paga grana quindeci, e mezo.

Gio: Dom.co Cappa per uno pezzo di Terra fù di Petrangelo Campanaro di tumulo / uno, e mezo, in loco la Scala, iuxtà la possess.e de li Caraccioli, la via pub.a / paga grana quindeci.

Dentia Greco per uno pezzo di Terra di tt.la due in Circa fù di Giulia Pandolfo / in l’Agrillo, iuxtà le Terre di Troiano Corso, paga Carlini due.

Tomaso Curcio per uno Vignale alli Monaci fù di Catarina d’Arena / iuxtà la vigna di Simone di Giglio paga grana Cinque.

Giovanni Cropanese per uno pezzo di Terra di tt.la sette in Circa in La / Grillo fù di Pietro di Capua, iuxtà suoi fini, paga Carlini due.

Gio: Leonardo Castanò per una Casa palatiata fù di Minico Catanzaro / in loco d.o la Grecia, iuxtà le ripe della Terra, paga grana Cinque.

Minico Curcio per una Vigna, che fù d’Antonio Acquaria in loco d.o li Monaci / iuxtà suoi fini paga grana diece.

Gio: Battista Coliccia per due parti d’un Castagneto fù di D. Gerolimo Coliccia à Santa Lucia iuxtà suoi fini paga grana Cinque.

Stefano d’Alessi per un Vignale fù di D. Girolamo Coliccia à Puglisano d’ / una quartucciata, iuxtà la via publica paga grana due, e mezo.

Girolamo Salamone per uno pezzo di Terra di tumula una, dove si dice / la Scala, iuxtà le Timpe della Strittura, paga grana Cinque.

Gorio di Giglio per la metà della Vigna in li Monaci, che fù di Ferrante / Coco, iuxtà suoi fini, paga Carlini tre.

Gio: Leonardo Castanò p(er) una Vigna della Vedova di Felice Avarello / in loco d.o le Coschina, ò Lavaturo, paga grana tre, e per un’altra Vigna / Cum terreno vacuo, che fù di Marco Gatto al Lavaturo, iuxtà la via pu / blica, et altri, paga grani tre altri.

Gionfrida Catanzaro per tre vignali furono di Gio: Pietro Catanzaro Tutore / dell’heredi di Desiderio Catanzaro di Circa Tumula tre alla Scala, iuxtà / la via publica, et altri paga grana tre, e Carlini tre.

Gio: Paolo Salerno, e Camilla Giurlandino per la Vigna fù di Pietr’angelo / Caputo alli monaci, iuxtà li suoi fini, pagano carlini due.

 

(f. 007)

Giovanna Cuiello per una Vigna fù d’Agostino Petrora in loco detto / la Scala iuxtà li suoi fini, paga grana Cinque.

Giunfrida Provenzano per due pezze di Vigne furno di Paulo Puglise, / alli Monaci, iuxtà la via publica, paga grana Cinque.

Clerico Gio: Dom.co Cappa per le Vigne, e Terre Contigue di tumula sette / in Circa fù di Luca Russo in loco detto Santo Stefano iuxtà la fontana delli / Virgari, e le destre di Santo Stefano, paga Carlini sei annui, ut supra.

Matteo Puglise per uno Vignale in loco d.o S. Salvat.re fù di Bernardo d’Annello, iuxtà / lo Vallone che viene da Santa Maria, della Cersula, e la via publ.ca paga grana otto.

Clerico Gio: Dom.co Fortino per un Vignale fù d’Andrea Jurlandino à S. Salvat.re iuxtà lo / Vallone, e la via publica paga grana otto.

Clerico Gio: Dom.co Cappa per uno pezzo di Terre sopra le Vigne delli Monaci di tumula / uno, e mezo iuxtà suoi fini, paga grana diece.

Giofrida Provenzano per un’altro vignale in pede le Manche di S. Stefano fù di Gio: Ferrante / Lofeno paga grana diece.

Minichella Prospero per le Terre con Vigna alli monaci Confine Gioanna Pinello, e Palumba / Nicotera, paga grana diece sette, e mezo, e più la d.a per lo Vignale, confine la Vigna / di Camilla Giurlandino alli monaci paga grana quindeci.

Fran.co di Cappa per la Vigna con terreno vacuo fù di Stefano Cappa alla Serra del Trono, iuxtà suoi fini, paga grana otto.

Catarina Curea per uno pezzo di Terre di tt.e 5 in circa alla Serra del Trono fù dell’heredi / di Balingero Corea, paga grana venti otto.

Masi Vasili per la vigna che fù di Gio: Peretta, Con tre contigue iuxta la via publica / sino alla Serra per la Platea Vecchia, appare grana venti cinque.

Minico Curcio per Censo del Castagneto, Con dodeci piedi di Castagne, e terreno di tt.e 2 e ½ / in Circa loco d.o in pede Gacta, iuxtà le vie publiche, et altre Terre dell’Abbatia paga / grana venti due, e mezo.

Heredi di Gio: Gerolamo Salerno per una pezza di Vigna, et altri tre Vignali intorno di / tt.le 3 in Circa in Valle cupa foro di Giacomo Caivano, iuxtà la via publica, paga / Carlini tre, e grana sei.

Minico Polizzi per uno pezzo di Terra di Circa tt.le 2 alla Serra del Trono iustà suoi / fini paga grana sette, e mezo.

Vincenza Paretta per una Casa palatiata dentro d.a Terra in loco d.o la Piazza fù di / Stefano Buono figlio iustà la via publica, paga grana sette, e mezo.

Minico Falcone per quattro Vignali all’Agrillo furono di Stefano bonofiglio di Circa / tumula quattro, iuxtà lo Vallone de l’Agrillo, e la via publica paga grana 28.

Il detto per un altro Vignale di tt.li uno fù del d.o Stefano nel med.o luogo, iuxta lo / Vallone che scende dalli Stazzi di Jinò, e la via pub.a paga grana Cinque; E più il / d.o per un altro Vignale fù di filippo in loco d.o la Scala di circa tt.la uno, iuxtà suoi / fini paga grana diece.

Venetia Durante, e Granditia di Rinaldo per uno lato di Celsi alli petrarizzi fù di Delfino / Lico, paga grana due, e mezo.

Camillo Ceraldo, e Mutio Facente per una disertina Con Vignale contiguo arborato / alli monaci fù di Carlo Facente, rende Carlini due.

Minico Curcio per la metà della possessione fù di Paolo Tacina alli Monaci, iuxta l’ / altra metà tiene Perio di Giglio, paga Carlini tre.

 

(f. 007v)

Matteo Puglise per una Casa palatiata in loco d.o la piazza fù di Paolo Puglise iuxtà / l’altre Case di d.a Abb.a, paga grana Cinque.

Marco Antonio Caivano per un Vignale alla Scala, che fù di Gerolamo Stricagnolo / di Cotrone, iuxtà la via publica, paga grana otto.

Marc’Ant.o Perretta per due piedi di Celsi allo Petrarizzo, paga Carlini due.

Masi Curcio per Certi Vignali di tumula quattro in Circa furo di Marc’Antonio / Perretta, in loco d.o la Rotunda, iuxtà la fiumara di Vergari paga Carlini / tre; e più il d.o per un’altro Vignale alli Monaci Confine Petro Rizzuto, e Pa / lumba Policastrese paga grana dece.

Granditia delle Chiane vedova del q.m Paolo Carcello per una continenza di / Terre alli Monaci, che furo d’Agatio Amuruso, e Gio : Batt(ist)a delle pira, / iuxtà le Terre dell’Abbatia, ne paga Carlini tre, e mezo.

Herede di Paolo Carcello per la disertina alli Monaci fù di Simone Campanaro / iuxtà l’Orto dell’Abbatia disse non possederla, come stà annotata alla platea / vecchia, si suspica sia aggregata alle Terre della soprad.a Granditia.

Portia Caleò, alias Pandolfo, per la Vigna con terreno contiguo, di circa tt.la 3 alli / Monaci, che fù di Marco Abbate, confine le Terre di S. Angelo, et altri fini / paga grana dudeci.

Pietro Longobucco per una pezza di Vigna fù di Girolamo Longobucco in luogo d.o / Franco, iuxtà lo Giardino della Corte, la via publica, et altri paga grana diecesette.

Hercole Rizzuto per una Vigna alli Monaci fù di Pietro Rizzuto, iuxtà le Terre / dell’Aria, et altri fini, paga Carlini due.

Contissa Siciliana per la Vigna alla Scala fù di Girolamo Misuraci di tt.la 3 Con / terreno vacuo iuxtà suoi fini, paga grana due.

Tomaso Puglise per una pezza di Vigna fù d’Antonio Nicotera Con pezzo di / Terreno di tt.lo uno alli monaci, paga grana diece.

Palumba Nicotera per una parte di Terreno alli Monaci, Confine il Soprad.o Tomaso Puglise, paga grana due, e mezo.

Scipione Migale per una Vigna alla Serra del Trono fù di Gio: Giurlandino / paga grana diece.

Giovanna D’ardano per due pezze di Vigne Con terreno Contiguo alla Scala / che fù di Paolo Leto, paga grana diece.

Scipione Migale in alia per tre pezzotti di Terreno l’uno alla Serra del / Trono fù di Gio: Tomaso d’Anello, e due alla Scala fù di Crocetto Juda à grana / tre per pezzotto, paga grana nove.

Serafino Tropiano per due pezzi di Terra alla Serra del Trono furo di / Lorenza Polizzi ne paga grana ventidue.

Scipione Papaianno per due Vignali nell’Agrillo di tt.a 1 e ½ furo di Peluccio / Rizzuto, iuxtà lo Vallone delle Manche paga grana venti otto.

Scipione Migale per uno Vignale alla Scala fù di Catarina di Maria / iuxta la via publica, et altri paga grana tre.

Speranza Russo per uno pezzo di Terreno di tt.la 10 in Circa loco d.o Sopra le Vigne / delli Monaci per lo quale pagava Carlini dudeci, si convenne da pagarne / dà quà avanti Carlini quindeci annui, ut supra.

 

(f. 008)

Gio: Dom.co de Rinaldo per una casa loco d.o La Piazza fù di Piero Angelo / Campanaro, iuxtà la chiesa di Santa Maria ne paga grana tre, e per uno Vigna / le alla Scala fù di Crucetto Juda, Confine à Scipione Migale, paga grana / tre altri.

Vincenzo Perretta per diece tt.la di Terra all’Agrillo furono di Stefano Bono / figlio, iuxtà le Terre della Corte, lo Vallone dell’Agrillo paga carlini Cinque.

Minichella Puglise prò Vincenza Rizzuto per una Vigna alla Scala fù di Bartolo d’Andali / iuxta li suoi fini, paga grana diece.

Vincenzo Basile per una vigna arborata in due pezze fù di Gio: Dom.co Milonte à valle Cupa / paga grana quindeci, e per uno Vignale alla Scala fù d’Antonino Tristaino paga grana / cinque, e per un’altro vignale à Valle Cupa fù d’Alfonso Benincasa, grana 5 ½.

Vittoria Cavallo per uno Vignale alla Scala, iuxtà lo vignale del q.m Gio: Pietro Miniscalco, lo Vi / gnale d’Isabella di Bona, et altri paga grana quindeci.

Vincenzo di Pera per una Vigna alli Monaci, iuxta la Vigna di Girolamo Gatto, la Vigna di Scipione / di Rosa, et altri paga Grana Cinque.

Vittoria di Fran.ca Sarcone per un Vignale a Valle Cupa, Confine M.o Ant.o Caivano, et altri paga / grana Cinque.

Girolamo Gatto per li Vignali che foro di Minico Durante, e Gloria Puglise alli monaci grana 15. / E per li vignali che foro di D. Fran.co Martiano à valle Cupa granii tt.o Uno grana Ventisei.

Giovanna Pinella alias Galluccia per le Terre con Vigna alli Monaci, iuxtà lo Vignale di / Palumba Nicotera, et altri paga grana diece sette, e mezo.

Filippo Femio per una Vigna con terreno contiguo al Lavaturo, iusta la Vigna di Camillo Ceraldi / et altri paga grana otto.

Gio: Batt(ist)a Cavallo per li Vignali alla Scala, iuxtà le Terre di Portia Truscia, et altri; per / lo Vignale à monte peluso fù di Lucretia de tarante confine lo Vignale del SS.mo Sacram.to / e l’altri d’esso Gio: Batt(ist)a paga in tutto carlini quattro, e grana sette, e mezo.

Clerico Gio: Fran.co Martino per la vigna che tiene per via di Donat.e fattali da Gio: Batt(ist)a / Martino, e Bellonia Siciliana alli Monaci, iuxtà la Vigna di Vincenzo de le pira, e Masi Curcio / paga grana Cinque.

Tomaso Basile, et prò eo Vincenzo Basile Comparvit, e per la vigna che d.o Tomaso suo Pa / dre tiene alli Monaci, che fù di Galeazzo Perretta, Confine …. (sic) Gerolamo Coliccia / et altri promesse pagare carlini quattro annui, ut supra.

Giovanni Cropanese, e Giovannella d’Andali, per quattro Vigne, e Vignali alli Monaci / che furo dell’heredi di Gio: Dom.co d’Andali pagano grana trenta otto, e d.o Gio: promesse / per pagarlo, e Lisa Andali Minore.

Suprad.i omnes de Terra Misuracae comparverunt coram me p(raedi)tto Not.o, et iuraverunt / possidere suprad.a bona reddititia d.e Abbatiae S.ti Angeli in suprad.s quantitatibus Censuum / quos Census promiserunt cum iuramento in manibus mei p(raedi)tti Notarii, et quisque promisit / et se obligavit solvere suam ratam inperpetuum, prout superius sunt adnotati d.i R(everendissi)mi / Abbati, et eius successoribus in perpetuum sub natura et pactis Emphiteuticis.

Hi autem, qui sequntur inferius de Terra p(readi)tta Misuracae non comparverunt / sed extrahuntur à platea veteri, et antiqua, et se informavit d.s Procurator possessores / p(raese)ntis temporis infrascriptorum aliorum bonorum Censualium esse infrascriptos V.t.

Antonello Schipano per una Casa terranea dentro detta Terra in loco d.o la Piazza / iuxtà la via vicinale deve pagare grana undeci annui.

La Cappella del SS.mo Sacramento per una Casa, che fu di Gio: Prospero iuxta la via publica / deve grana diece annui.

Catarina da Taranto per le Terre sopra le timpe della trattora iuxta la via pub.a deve grana 5.

La Cappella del SS.mo Sacramento per una Vigna alla Scala, che fù di Rosata vidua / di Cesare dele Chiane, deve grana otto annui.

Alfonso de Rasis Arcip.te di S.to Mauro per un Vignale alla Scala, che fù d’Angelo Nicotera, iuxta la via publica, deve grana Cinque.

 

(f. 008v)

Pascale Caputo di Cosensa per una Vigna à Frassinito, che fù di Minico Pandolfo iuxta suoi / fini deve gran. cinque.

Francesco Benincasa per una Casa, che fù di Polisena Pignataro, iuxta la via publica, deve / grana due ut supra.

Heredi di Fran.co Altomare per una Casa palatiata, che fù di Scipione Brandolillo, dentro d.a / Terra in loco d.o lo Casale, iuxtà le Case di Stefano Bernardo deve gran. diece annui.

Fran.co Benincasa per una Casa palatiata, che fù di Ursolla Curcio iuxta la via p.ca pag. gr.a 2.

Giulio de Brindis per una Casa nel loco d.o la Grecia, che fù di Pietro di Brindis deve grana cinque.

Gio: Gerolamo Dardano per una Casa palatiata, che fù di Minico Legname Colla bottega / sotto in loco detto lo Casale deve grana uno.

Grandonio Molinaro per un pezzo di Vigna alli Monaci fù di Gio: Rizzuto dev. gran. 10.

Giovanni Ammirato per un pezzo di T(er)ra allo Piraiinetto fù di Mario Ammirato / iuxtà suoi fini paga grana diece, e mezzo.

Gio: Gerolamo Salerno per un Casaleno, seu Cortiglio alle Case, che foro di D. Fran.co / Tropiano, deve grana tre.

Gio: Dom.co Cansoniero per una Vigna nel loco d.o la Scala, iuxtà le Timpe della / Strittura, deve grana due, e mezo.

Heredi di Mas.o Masi Truscia per una Vigna, e Vignale fù d’Antonio Pandolfo / alla Scala, iuxtà la via publica, deve Carlini due, ut supra.

Heredi di Berard.o Molinaro per uno pezzo di T(er)re di tt.te sette alla porticella, iuxta / le Terre di S. Pietro martiale, deve carlini due, e per un Vignale nel loco d.o / lo Villonaggio, deve grana quattro.

Heredi d’Isabella Cappa per li due Vignali furo di Pietro di Capua alla Serra del Trono / deve grana sette, e mezo.

Minico Curcio per due Vigne d’Isabella Policastrese, che furo di Perna Policastrese / in loco d.o li Monaci, deve grana quindeci.

Heredi di Minico Maijda per la Vigna di Valle Cupa fù di Cola d’Anello, iuxtà suoi / fini, deve grana Cinque.

Camilla Prospero per la Vigna con alberi alli Monaci di tt.la 1 e ½ fù di Gio: Prospero / iuxtà la via pub.a, deve grana quindeci, ut supra.

Heredi di Pietro Carcello per un pezzo di T(er)ra di tt.la 3 in Circa alla Serra del Trono / furo di Paolo Carcello, deve grana diece.

Pietro Castellese per una Continenza di T(er)re di tt.te otto in Circa, che furo di Giacomo / Curcio in in luogo d.o S. Quaranta deve grana diece nove, e mezo.

Simone post Andrea per una Casa Terranea fù di Ferrante post’Andrea / posta alla piazza, deve grana 3.

Troiano Campanaro per un Vignale fù di Cicco di Leto nel loco d.o Santo Sosti / deve grana due, e mezo.

Vincenzo Altomari per lo Castaneto fù di Sicilia Vecchio, Con piedi sedeci in Circa / di Castagne, iuxta le Castagne della Corte, deve grana diece.

Appare dalla Platea, et Instrum.ti Veteri, che la Corte Ducale di detta Terra di Mesoraca / deve pagare alla d.a Abbatia di Santo Angelo docati sedeci, e grano tumula otto / et un quarto l’anno in perpetuum per un pezzo di t(er)re ar.e in luogo, dove si dice l’ / Albano, iuxtà le Terre d’essa Corte; Per un’altro pezzo di T(er)re arat.e delle destre / di Jinò, dentro le terre di detta Corte – tt.a sei di grano; Per un pezzo di Terre / in loco d.o la pitrara iuxtà le Terre della Corte, e d.o S. Angelo della Piazza, / e li tt.li due, e mezo per un’altro pezzo di Terre in d.o luogo di Jinò.

 

(f. 009)

Et oltre li sud.i Censi appare in d.a Platea antica la detta Corte di Mesoraca tenere / altri tre Vignali, e Castagneti rendititii alla d.a Abbatia in diverse quantità di Censi, / Come appareno distintamente descritti, et annotati per esso Procu.re nel libro, ch’esso tiene / della p(rese)nte platea, cavate dà detta Platea antica, allo quale libro s’habbia relatione, / e Platea veteri.

Item dicta R(everendissi)ma Abbatia tenet, et possidet sub(scri)pta alia bona

in d.a T(er)ra Misuracae, et eius Territ.o, ut Colligitur ex d.a platea

Veteri V.t

Una Casa palatiata Con Cortiglio dentro detta T(er)ra di Misuraca in loco d.o lo piano / dell’Abbatia, Confine la Chiesa di S. Pantaleo, et altri fini, quale al p(rese)nte tiene Milella Rocca.

I(tem) la detta Abbatia tiene, e possede un tenim.to di Terre dette le Destre di S. Stefano, iu / xtà lo Comune dell’Università, mediante la via publica, e la fiumara di Vergari, / al p(rese)nte le tengono in affitto Masi Perretta, e Fran.co Brizzi.

I(tem) Tiene, e possiede, un’altro tenimento detto le Manche di S. Stefano, iuxtà lo Val / lone di Santa Maria de mense Augusti, et iuxtà le Goschini …. (sic) al p(rese)nte / le tiene affittate Gio: Paolo Salerno.

I(tem) Tiene, e possiede un tenimento nominato bu…. (sic) iuxtà le Terre del / Barone di Marcellinara, le Terre della Corte dette Leone, et altri fini al p(rese)nte / vaca.

I(tem) Tiene, e possiede un’altra Gabbella, seu Terreno detto la Perrera, iuxta le T(er)re / della Marchional Corte, le Terre di S.to Angelo della Piazza, e via publica / al p(rese)nte vaca.

I(tem) tiene, e possiede un’altra Gabbella, nominata Vulturo, iuxtà le Terre di / Gio: Tomaso Campana, et altri fini, al p(rese)nte la tiene in affitto Gio: Rizza di Policastro.

I(tem) Tiene, e possiede Una macchia di Celsi al Terr.o di Mesoraca al luogo delli / Monaci iuxtà lo fiume, al p(rese)nte la tiene ad’affitto Minico Curcio di Mesoraca.

I(tem) la d.a Abbatia tiene un Comprensorio di Terre d.o Galida, e Pisarello, seu le / Silette nel Territ.o di Mesuraca, al p(rese)nte lo tiene in affitto Gio: Tom.o Oliverio di Cutro.

I(tem) Tiene una Gabbella detta l’Abbatia in luogo d.o San Costantino di terre / no arat.o, la quale si tiene in affitto per Pietro Gio: Fran.co Morano Barone del / Casale delli Cotronei per d.ti Cinque annui, come nella Platea antica.

I(tem) la d.a Abbatia tiene un Terreno alla Sila nominato Circilla, che si semina / dà persone delli Casali di Cosenza, al p(rese)nte s’intende, che le tiene Luca Antonio / Crivaro.

I(tem) Colligitur Ex d.a platea veteri d.m Abbatiam habere, et possidere infrascriptos / alios Census in Terra Policastri eiusdem Provinciae, et eius Territorio / super infr(ascript)is bonis particularibus dictae Terrae qui non Comparverunt / sed ne perdatur memoria ipsorum adnotatur prout iacet in d.a platea / Veteri, Ut Sunt V.t.

Heredi di Fran.co Cortese di detta Terra di Policastro tiene dentro detta Terra / di Policastro una Casa palatiata alla piazza, iuxtà l’altre Case sue, e la via publica, paga grana diece annui, ut supra.

Francesco Cansonero per un Vignale, che tenea D. Batt(ist)a Cansonero in loco d.o Gurrufi / iuxta la Vigna del q.m Gio: Curto paga grana tre annui, ut supra.

 

(f. 009v)

Salvatore Nardo, Bernardo, et Andrea Curto, aliarum de Carisi tengono in comune una / continenza di terre di tt.ta dodeci, in loco detto Comito, iuxtà le Terre di Gio: Andrea Blasco, / e lo Vallone di Comito, ne pagan Carlini quattro annui in perpetuum.

Herede di Gio: Alfonso mannarino per Una pezza di Vigna Con terreno Contiguo in luogo detto / la monaca, iuxta la vigna di D. Matteo Rocca e le Terre d’Antonio Salise paga gran. 6.

Francesco Vitetta, seu Carocca per una pezza di Vigna posta alle Scalille, iuxtà le Terre d’ / Aurelio Poerio, le Terre di Marco Ant.o Ferraro, la vigna del q.m Gio: Dom.co Sacco paga gr.a 10.

Gio: Coco per un ortale dentro detta Terra Contiguo alla sua Casa, iuxtà l’orto dell’heredi / di Paolo Prantedio, paga grana sei.

Matteo Cavarretta per una Casa palatiata dentro detta Terra alla Par.a di S.ta Maria, / iuxtà la Casa di Cesare Mauro, paga grana 6 ut supra.

Simonella di Curto per uno pezzo di Terra arborato in loco d.o Martinarese, iuxtà le / Terre di Fran.co Capozza, e la Vigna di Nardo Caruso, paga grana tre, ut supra.

Tomaso Coco per una Casa, et Ortale di Fran.co Cacciolo in d.a Terra paga grana sei, ut s.a.

Antonino di Lamanno per un pezzo di Terra arat.a di Circa salmate tre, culte, et inculte / in loco detto Camporaso, iuxtà le Terre di Vittorio Nig.e al fiume di Tacina paga / grana Venticinque.

Scipione Callea per un Vignale d’una tt.ta in loco d.o Comito, iuxtà l’altre Terre sue / paga grana tre, e mezo, ut supra.

Gio: Vittorio Monaco per un’Ortale in loco d.o Strata nova, iuxtà la porta nova di d.a Terra / paga grana Cinque.

Antonino Campana per un pezzo di Terra arat.a di quattro tt.la furono di Bartolo Rocchetta / in loco detto Comito, iuxtà le Terre delli Carisi paga grana undeci annui.

Gasparo d’Albo, per una Casa terrana in Capo la terra, iuxta la Casa di Tomaso Curto avia p.a pag. g.a 5.

Giulio Rizzo per uno pezzo di Terreno arat.o di tt.le Cinque nel loco d.o Zaccarella, iuxtà / l’altre Terre d’esso Giulio, e lo Vallone, che viene dà Marari paga Carlini due.

Angelo Tacina e per’esso Martino Tacina per una potega alla piazza di Policastro iuxtà / li beni di Gio: Dom.co Fanele, e la potega del Corpus D(omi)ni paga grana 2 e ½.

Notar Serafino Rizza per un pezzo di Terra art.a nel Terreno di d.a Terra all’Agrillo / iuxtà li beni di Ferrante Rotella, le Terre di Dom. Cancello, le Terre di Pietro di Capua di tt.la due di Capacità, paga Carlini tre annui, ut supra.

I(tem) Colligitur ex dicta Platea Veteri d.m Abbatiam habere infrascriptos Census

In Civitate Bellicastri V.t.

Cesare Caputo per un’Oliveto in loco d.o Pellige, iuxtà le Terre di Giulio Caputo, ne paga / grana dudeci annui, ut supra.

Alfonso Caputo per Giulio suo f(rat)ello per una possess.e con Celsi, Olive, e Terre intorno, in / logo dove si dice filogi, ne paga Carlini quattro annui, ut supra.

Stefano Bonofiglio per relatione della q.m Andreana di Novello sua madre, che teneva / una Continenza di Terre, diceva diece salmate in loco d.o Jinò, e che rendeano / tumula tre di grano, e grana venticinque annui, haec partita fuit revelata d.o / Procuratori metu Excomunicationis.

I(tem) Collig.r ex dicta Platea Veteri d.m Abbatiam habere in

frascriptos Census in Terra Roccabernardae. V.t

Pietro d’Anminò per una sua possess.e di tre pezze di vigne arb.e poste nel Territ.o / di d.a T(er)ra in loco d.o Gratiano, iuxta la via convic.le, et iuxta li beni di Pietro Masso, / et Agatio Facente di Capacità di tt.a quattro ne paga grana quindeci annui, ut. s.a.

Pietro Masso, per due sue possessioni una arborata con terre vacue in d.o luogo di / Gratiano confine la possess.e di d.o Pietro Aminò, e li particolari di S.ta Severina.

 

(f. 010)

L’altra posta nel med.o luogo sopra la via convicinale, iuxta la via publica / Confine Giuseppe Schettino, ne paga grana venti cinque.

Gratio Facente per una sua possess.e di tt.la 3 con diversi arbori in d.o luogo di Gratiano / iuxtà li beni della Corte, di Pietro Amminoè, e l’heredi di Carlo Brondolino / ne paga grana Cinque annui, in perpetuum, ut supra.

Unde à futuram rei memoriam, certitudinem, cautelam, ac plenamfidem / factum est ex indè dè praemissis p(raese)ns publicum instrumentum.

Extracta est p(raese)ns copia à suo proprio originali existente in protocollo q.m notarii / Jo: Fran.ci Terranova T.rae Cutri, cum quo facta collatione concordat // Salva / meliori senper // Licet manu aliena // et ad fidem // signavi rogatus // ad est signum.

Notarius Carolus Fiorino manu signoq.”.

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La chiesa “Matrice” di San Nicola “de Policastro” nel luogo detto “la Piazza”

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San Nicola Policastro

Petilia Policastro (KR), la chiesa matrice.

La prima testimonianza che documenta l’esistenza della chiesa di Policastro risale al periodo altomedievale, quando la diocesi di “Palaeocastri” (ὁ τοῦ Пαλαιοϰάστρου), suffraganea di Santa Severina di Calabria (Tῷ Ἁγίας Σευηρινῆς, Kαλαβρίας), compare nel rimaneggiamento della “Néa tacticà” o “Dispositio (Diatyposis)” pubblicata da Leone VI il Filosofo (886-911), che sembra potersi localizzare ad epoca anteriore al Mille, ma la cui redazione pervenutaci è del tempo di Alessio Comneno (posteriore al 1084).[i]

L’esistenza della diocesi non è più ricordata nei documenti successivi che, a partire dalla metà del sec. XII e per tutto il XIII, menzionano solo la χώρας o “terra” di Policastro (Παλαιοκάστρου).[ii] Secondo le affermazioni del Malaterra contenute nel libro I della sua cronaca, che si ritiene scritta negli ultimi anni del sec. XI, durante la spedizione condotta dal duca Roberto e da suo fratello Ruggero, che portò quest’ultimo ad espugnare alcuni “castra Calabriae”, nell’anno 1065 il “castrum” di Policastro fu distrutto e tutti i suoi abitanti furono condotti dal duca “apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat”.[iii]

 

Un’antica realtà

La scomparsa della diocesi di Policastro agli inizi dell’età feudale, a seguito, forse, delle trasformazioni esemplificate dai fatti traumatici ricordati dal Malaterra – fatti riconducili nell’ambito del processo di formazione del territorio della nuova “terra” – trova alcuni riferimenti nelle vicende della chiesa di San Nicola “de Policastro”, che ebbe un passato di monastero durante il periodo altomedievale.

Tale realtà emerge in parte, solo attraverso poche tracce presenti in documenti posteriori all’età medievale, che dimostrano, comunque, della sua esistenza in una fase precedente a quella feudale, quando i suoi possedimenti dovevano essere articolati in diversi tenimenti, non riconducibili ad un solo territorio. Una organizzazione propria dei monasteri del periodo altomedievale che, cancellata nei luoghi sottoposti al dominio vescovile, permarrà in seguito nella dimensione abbaziale, lontano da questa giurisdizione.

Una di queste tracce, si rinviene nella copia di un documento cinquecentesco che riporta la confinazione del territorio di Melissa, dove troviamo: “… e saglie fin alle timpe dette di Santo Nicola de Pulicastro terr.o di Strongoli, …”[iv] mentre, una seconda compare alla fine del Settecento, quando risulta che l’arcipretura di Policastro, dignità cui era annessa la parrocchiale di San Nicola della Piazza, deteneva ancora lo jus arandi sulle terre dette “li Cursi di Ginò” poste in territorio di Mesoraca, sulle quali esigeva, quando si seminavano, “un quarto” per ogni tomolata coltivata.[v]

La sua antica identità abbaziale, risulta ricordata ancora agli inizi del Seicento, quando la chiesa è menzionata in qualità di “Abatia di s.to Nicola della piazza”, ed a testimonianza di concessioni che discendevano da antichi diritti, esigeva alcuni censi perpetui di un carlino infissi su abitazioni e terre poste in Policastro.[vi]

Secondo una testimonianza degli inizi del Settecento, fatta dai parroci di Policastro, San Nicola della Piazza costituiva la “prima” parrocchia di Policastro ed in ragione della sua antica eccellenza, godeva il titolo di matrice, con un rettore insignito della prerogativa di arcipresbitero.[vii]

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Bari, piazza dell’Odegitria, San Nicola raffigurato nell’atto di benedire.

 

San Nicola dei Capparoni o Cipparroni

Agli inizi della dominazione sveva, la chiesa di San Nicola di Policastro, aveva già subito importanti trasformazioni. Essa, infatti, in relazione al nome della famiglia che, evidentemente, ne aveva costituito la dote di fondazione, compare con il titolo di S. Nicola de Tzagparanoi (Αγίον Νικωλάου του Τζαγπαράνων) o “s(anc)to nicolao de zapparuni”, in un atto atto del marzo 1196 (a.m. 6704), quando si segnala nelle vicinanze dell’akroterio pubblico (άκρωτήριον τώ διμωσιακών) di Policastro,[viii] luogo sommitale della “terra”, dove convergevano e s’incrociavano le due vie principali che attraversavano il territorio.

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Petilia Policastro (KR), in evidenza la localizzazione della chiesa matrice in rapporto alla viabilità principale.

La presenza della famiglia dei Capparone, a cui appartenne “Guillelmo Capparone”[ix] che, nel periodo a cavallo tra gli ultimi anni del sec. XII ed i primi di quello successivo, fu un personaggio di primo piano del regno, risulta documentata in Policastro da un atto dell’agosto 1190 (a.m. 6698), quando “Rogerios Tzapparanos” (‛Pωκέριoς Τζαππαράνoς), sottoscrisse un atto relativo alla vendita di un terreno.[x]

La loro presenza risulta documentata ancora attorno alla metà del Cinquecento, quando, durante l’annualità 1541-1542, Luca “Cipparrone” o “chepparroni”/“chepperroni”, ricoprì la carica di mastrogiurato e fu sindaco deputato dell’università di Policastro.[xi]

Successivamente, la famiglia andò estinguendosi. Da un atto dell’undici aprile 1578, relativo al testamento dell’ “honorabilis Cesaris cipparroni” fatto nella sua casa posta dentro la terra di Cutro, “in loco ditto la banda”, sappiamo che il testatore istituì eredi “don(n)a Dianora sua consorte” e suo “figlio (sic) berardino cipparrone” che, probabilmente, così risulta per un errore di genere da parte del notaro che scrisse il testamento.[xii]

Gli eredi del quondam Cesare Cipparrone, infatti, compaiono ancora in alcuni atti stipulati a Policastro agli inizi del Seicento, attraverso i quali emerge notizia relativamente ad alcuni beni che “Dianora Cipparone” e sua figlia “Virardina Cipparrone”, possedevano o avevano posseduto in Policastro e che, in questo periodo, erano detenuti dalla cappella del SS. Sacramento, confraternita annessa alla chiesa matrice di San Nicola.[xiii]

Le terre di “Cepparrone” o “Cipparrone” che, anticamente, avevano dovuto costituire la dotazione della chiesa matrice di Policastro, sono menzionate ancora alla fine del Settecento quando, diversi beni appartenenti agli enti ecclesiastici di Policastro, furono alienati.

Sappiamo infatti che il sacerdote D. Pietro Carvelli, aveva comprato per ducati 815, “la gabella Cipparrone”, appartenente alla chiesa matrice ed alla confraternita del SS. Sacramento,[xiv] come appariva da un atto del notaro Caliò stipulato il 24 ottobre del 1791, mentre, relativamente a tale vendita, la “Chiesa Madre” di Policastro percepiva al tempo l’annualità di ducati 32.60, come risulta dalla Lista di Carico dei Luoghi Pii di Policastro.[xv]

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, fonte battesimale.

 

San Nicola “de Plateis”

Agli inizi del dominio aragonese, la chiesa parrocchiale di “S. Nicolai de Policastro”, compare in un atto del 21 agosto 1443 riportato dai regesti vaticani, quando la sua rendita, assieme a quella della chiesa senza cura dei SS. Quaranta di Santa Severina, era annessa all’arcidiaconato di Santa Severina, prima dignità del capitolo dopo quella vescovile. Rendita che, in questa occasione, vacante per la morte dell’arcidiacono Nicolao Bartonio, fu confermata a Guillelmo de Lappadya, al quale era stata concessa precedentemente.[xvi]

Circa un decennio dopo, sempre nei regesti vaticani, la parrocchiale comincia a comparire con il titolo di San Nicola della Piazza, risultando affidata ad un presbitero in qualità di rettore.

Il 6 maggio 1455, il papa Callisto III ordinava al vescovo di Strongoli, di inquisire il presbitero Nicolao Cappa che, in qualità di rettore della chiesa parrocchiale di “S. Nicolai de Plateis”, era stato accusato di molti crimini. Si ordinava quindi che, nel caso ciò fosse stato corrispondente al vero, si procedesse alla sua rimozione, assegnando la parrocchiale al presbitero Antonio Contello di Policastro.[xvii]

In seguito troviamo che, oltre ad essere identificata con questo titolo, essa ricorre nei documenti anche con l’appellativo di “maiorem”, come si rileva già in un atto del 15 agosto 1519 stipulato nella terra di Policastro, quando risulta indicata come la “ecclesiam sancti nicolai maiorem”.[xviii] L’uso di questo appellativo continua ad essere documentato anche successivamente, quando troviamo che il beneficio era annesso all’arcipresbiterato del luogo.

 

L’arcipresbiterato

La chiesa di “S.to Nicola della piazza” di Policastro, compare in una copia compilata nel 1601, di un elenco riferibile a verso la metà del Cinquecento, relativo al pagamento della decima dovuta alla Santa Sede, da parte dei membri del clero della diocesi di Santa Severina, quando il benefecio era detenuto da “D: Colantonio Galete” (sic, Galeoto ?) di Policastro.[xix]

A quel tempo, la parrocchia risultava già annessa all’arcipresbiterato di Policastro, come rileviamo nel “Libro de tutte l’intrate de lo arcivescovado de’ s(a)nta Anastasia”, dal quale apprendiamo che, nel quadriennio 1545-1548 e nel 1566, l’arciprete di Policastro , ovvero la dignità maggiore posta a capo del clero del luogo,[xx] pagava annualmente 3 ducati a titolo di quarta beneficiale, per la “ec.a maggiore de polic.o s(an)cto Nic.a de’ la piacza”.[xxi]

Durante questo periodo, i documenti vaticani, evidenziano che la rendita relativa alla chiesa parrocchiale o “archipresbyteratus” di San Nicola della terra di Policastro, costituiva sovente merce di scambio, coinvolgendo ecclesiastici forestieri e locali che, favorendosi l’uno l’altro, la lucravano vicendevolmente. Come dimostrano alcuni atti del periodo compreso tra l’ottobre 1546 ed il novembre 1548 che, seguendo alla morte del rettore Stefano Apa, avvenuta nell’agosto del 1546, coinvolsero in una girandola di provviste, il clerico umbriaticense Federico Paltroni, il clerico cosentino Io. Bernardino Ioffredo, Ottaviano de Cittadinis “Litterarum aplrum Scriptoris” e Luca Antonio Callea di Policastro.[xxii]

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Petilia Policastro (KR), interno della chiesa matrice.

 

La chiesa alla metà del Cinquecento

Il giorno 8 di giugno del 1559, il cantore della chiesa di Mileto Giovanni Tommaso Cerasia, vicario dell’arcivescovo di Santa Severina Giovanni Battista Ursini, essendo impegnato nella visita dei luoghi pii appartenenti alla diocesi, discendendo dalla terra di Roccabernarda, pervenne a quella di Policastro.

Giunto con il suo seguito “ante fores T(er)rae p.ti Polic.ri”, non trovò congregata ad accoglierlo alcuna “Comitivas Clericorum”, né fu ricevuto con quella solennità che, invece, gli sarebbe stata dovuta per antica e solita consuetudine.

Entrato nell’abitato senza essere accompagnato dalla croce e dalla consueta processione, il vicario arcivescovile giunse alla “m(aio)rem ecc.am” di Policastro, cui accedette per effettuare la sua visita.

Anche qui egli non trovò alcuna “Comitiva” né alcun “apparatu”, né trovò presente l’arciprete “Jo: ger.mo gallea” a rendergli omaggio ed obbedienza. Entrato nella chiesa aspergendo l’acqua benedetta, visitò la SS.ma Eucarestia e pregò.

Visitato l’altare maggiore e sedutosi, impartì un sermone al “populum” che, intanto, si era congregato nella chiesa. Prendendo la parola, egli disse che era sua intenzione visitare le chiese ed i presbiteri, conoscere quale fosse il governo spirituale e temporale delle chiese, di quali ornamenti disponessero e quali sacramenti e quali divini offici vi fossero amministrati. Egli disse, inoltre, che era sua intenzione conoscere quale fosse stata la condotta di “ministrorum et populi”, per cui avrebbe provveduto alle necessarie correzioni ed emendamenti, perseguendo “Concubinarios, et adulteros, Usurarios, fornicatores, sortilegos, Divinatores” e simili.

Egli, inoltre, in forza dei propri diritti e delle consuetudini, si dichiarava pronto ad ascoltare benignamente ogni “p(ro)testas plebi” e ad assolvere, ingiungendo la penitenza con misericordia. Quindi, dopo avere ammonito il popolo ed il clero alla penitenza, ed avere esortato gli astanti alle sante virtù, a sfuggire il male ed i vizi ed a fare il bene, senza fare agli altri ciò che non si sarebbe invece voluto subire, fece osservare un “intervallo”.

Si passò quindi alla celebrazione della messa, ma considerato che nessun presbitero di Policastro volle celebrarla né cantarla, questa fu celebrata dal canonico di Santa Severina D. Fabio dela Mendula, in presenza di diversi “Clericorum”, “Nobilium et aliorum dictae T(er)rae”.

Dopo tale celebrazione, accompagnato dal vicario foraneo di Policastro Battista Venturino, il vicario arcivescovile con il suo seguito, fu accompagnato in una casa del notaro Francesco de Venturo posta all’interno delle mura, dove aveva deciso di fare residenza durante il prosieguo della sua visita.

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, particolare degli archi della navata sinistra.

Dopo aver consumato la “Cenam”, quando era quasi l’ora decima nona, il vicario si recò nella “ecc.am s.ti Nic.ai de plateis m(aio)rem ecc.am dictae T(er)rae Archipresb(ite)ratus nuncupatam”, e pronunciata l’orazione innanzi al “S.mus Corpus Xpi”, si accostò  all’altare maggiore dove, assistito da alcuni presbiteri, compì gli offici della visitazione come si trovava scritto “in pontificali”.

Quindi passò a visitare il “S.mus Sacram.tus” che si trovava alla destra dell’altare maggiore, “p(ro)pem arcum lapideum” in una “fenestra lapidea” che, superiormente ed anteriormente, era dotata di una “Clausura lignea”, chiusa con un “Catenczo parvo” mentre, nella parte inferiore, era coperta da un “panno albo veterrimo et bructo”.

Sopra tale finestra si trovava la “imago salvatoris n(ost)ri”, con le “imagines” dei santi Pietro e Paolo. Davanti vi era un altare fabbricato di pietra con altare portatile, con tre tovaglie ed un “Coperim.to” di tela colorata. Il vicario trovò che davanti al SS.mo Sacramento non vi erano “lampas”, solo una si trovava “in me(dio) arci magni per directum altaris maioris Cum uno lamparo lign(eo)”.

Fatta aprire la finestra lignea, il vicario rinvenne al suo interno la Santa Eucarestia posta in una “bussulam depictam” con la pittura “q.asi ruinatam”, come si era già riscontrato durante la visita precedente. Aperta la bussola vi trovò quattro “particulas” con sopra una “Carta rotunda”.

Dentro la finestra il vicario trovò anche un “tabernaculum argenteum” con il piede di ottone dorato, usato per portare l’eucarestia agli infermi che, secondo quanto riferirono alcuni presenti interrogati allo scopo, apparteneva alla “Compag.ia de lo Corpus d(omi)ni”. Furono anche rinvenuti un “tabernaculum vitreum” usato durante la processione del “Corpus xpi”, un altro tabernacolo di vetro che dissero essere di “do. Mar.ni accectae” ed una “Cassiulam avolei parvulam” nella quale si trovavano riposte le reliquie di San Nicola e dell’apostolo Bartolomeo.

Il vicario arcivescovile, a questo punto, considerato anche che, in occasione della precedente visita del 15 gennaio 1556, l’arciprete era già incorso in sansioni e gli era stato ingiunto di rifare la “Cassulam”- ingiunzione alla quale non aveva ancora ottemperato – lo minacciò di scomunica e del pagamento di 25 once e lo precettò affinchè, entro quattro mesi, rifacesse una “Casciulam avolei vel ad minus deauratam” del valore di ducati cinque. Tale custodia doveva essere riposta non più all’interno della “fenest.a” che era in cattive condizioni, ma nella “Custodiam” posta sopra l’altare maggiore, che si sarebbe dovuta rifabbricare in pietra da parte dei “Confr(atr)es sacratis Corporis Xpi”.

Egli, inoltre, condannò l’arciprete al pagamento di 25 once perchè non aveva trovato la lampada accesa davanti alla “Imaginem dicti S.mae Eucharistiae” mentre, stando a quanto tutti dicevano, qualla che si trovava “in arco maiori” era mantenuta accesa dai confrati.  Le stesse pene il vicario minacciò nei confronti dell’arciprete anche per il futuro, qualora non avesse provveduto a tenere accese davanti il “S.mum Eucharistii” due lampade, una delle quali doveva essere mantenuta a carico del rettore della chiesa e, l’altra, a carico dei confrati.

Il vicario passò quindi alla visita del vicino altare maggiore, dove rinvenne una “arcam magnam” con abiti vecchi e “ubi dixerunt esse sacramenta ecc.ae”. Qui, infatti, in un “Vaseo piltreo”, furono rinvenuti gli oli sacramentali costituiti dal “sanctum Crisma, oleum sanctum et oleum CatheCumenorum”. Considerato che tali oli non erano stati conservati per come si doveva, il vicario condannò l’arciprete al pagamento di dieci ducati.

Inventariati gli altri beni presenti nell’arca, furono trovati: un calice d’argento con patena e piede di rame dorato, un altro calice d’argento con patena e piede di rame dorato che apparteneva al “S.mi Sacram.ti Corporis Xpi”, una “planetam” di velluto rosso anch’essa appartenente al “S.mi Sac.ti Corporis Xpi”, ed un calice di peltro con patena dello stesso materiale “diruta” che furono distrutti dal vicario arcivescovile, che ingiunse all’arciprete di rinnovarli entro il termine di 20 giorni.

Furono inoltre trovati: un vestimento completo con una “Casula” nera “sine amictu”, un’altra casula nera che dissero essere del “sanctss.i sac.ti eucharistie”, un vestimento completo con una pianeta di raso giallo, un “missale”, due “Polificatorii”, di cui uno dipinto di seta rossa che era del “s.mi sacram.ti”, una casula rossa di velluto, tre altre casule rosse di velluto figurate, un “Piviale” di raso turchino, un “antifonarium pergamilis parvum”, un “bactisterium pergamilis”, un “plumacium” con certi panni vecchissimi, un “graduali” ed un “antifonarium festivum” che appartenevano “de Communi et Clero”.

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, particolare degli archi della navata destra.

Procedendo nella visita, il vicario visitò l’altare maggiore di pietra, dove rinvenne anche un altare “ligneum” che avevano voluto erigere i confrati. Nel muro vi era una “Custodia aperta” e “tota Cap.la” era costruita in pietra. Sopra l’altare vi era la “imago glo(rio)siss.ae Virginis Mariae Cum imaginis salvatoris de Cruce depositi Cum duobus ang(e)lis hinc, inde, Cum toto misterio passionis d(omi)ni n(ost)ri Jh(es)u Xpi : est imago hinc inde s.torum glo(ro)siorum ap(osto)lorum Petri et pauli, de sup(er) imago s.ti sebastiani”.

Vicino l’altare era posto un “Campanellus parvus”. Nella “capp.la mag.a” vi era un “chorum” con “aliquibus scannis” ma privo di un “discolum” dove poter riporre i “libri” per i canti. Il vicario ingiunse all’arciprete che, entro il termine di un mese, facesse realizzare il “discolum ut honorificae possunt Cantari divinia off.a”.

La visita del vicario proseguì presso il “fontem baptisimalem” “lapideum” che fu trovato chiuso con un “Coperim.to tabularum”. Apertolo, il vicario trovò nell’acqua battesimale “unum ossum Crisomoli” ed interrogati alcuni presbiteri di Policastro a riguardo di chi avesse la “Curam baptizandi”, in fede questi asserirono che tale cura spettava al “vener.le do. Nic.m musianum” che per la sua negligenza, fu condannato al pagamento di ducati quattro.

Il vicario, inoltre, sotto la minaccia della scomunica e del pagamento di 25 once, ammonì i presenti affinchè durante il battesimo fosse posta sulla testa degli “infantes” una “vestem candidam”, escludendo categoricamente che il sacramento potesse essere amministrato “in domibus” ma solo in chiesa. Il vicario ordinò che si rifacesse la serratura della porta. Nella chiesa si rinvennero diverse travi ed un “p(er)gulum”.

La visita proseguì presso la “Cap.lam sub vocabulo o(mn)ium sanctorum” dove fu trovato un altare lapideo “non Consecratum” con tre tovaglie ed un “Coperim.to” vecchissimo, con sopra la “imago glo(ri)osae Virginis Mariae, S.ti jo: bact.s, et Confessoris Franc.ci”. L’altare possedeva: un vestimento di tela completo, un “missale”, un calice che per essere vecchissimo fu distrutto dal vicario con l’ordine che fosse rifatto, un’arca ed un campanello.

L’altare di jurepatronato della famiglia Campana e di cui era rettore D. Hieronimo Campana, era provvisto di “Certas T(er)ras loco dicto la sullaria”.

A questo punto il vicario chiese all’arciprete dove si trovasse la croce della chiesa e questi rispose che la deteneva la “Confraternitatis s.mi Corporis Xpi”. La croce fu quindi portata al suo cospetto. Questa era “argentea Cum aliquibus pomis Argenteis Circum Circa, unum pomum de rame aureatum” ed assieme a questa, furono mostrati al vicario gli altri beni della confraternita: due “Tonicelle” di seta verde, un “baldacchinum” di seta di diversi colori ed un piviale di seta rossa.

Il vicario ammonì l’arciprete e, dietro la minaccia di scomunica e del pagamento di 10 once, gli ordinò che, entro il termine di due mesi, dovesse far fare tre tovaglie per l’altare maggiore. Egli, inoltre, ordinò ai confratelli della confraternita che, entro il termine di due mesi, acquistassero sei tovaglie per il servizio del loro altare, sotto la pena della scomunica e del pagamento di cento libre di cera alla Camera Arcivescovile. A questo punto, dato che nella precedente visita era stato ordinato a Nardo de Cola di rifare un vestimento desunto, il vicario chiese che quello nuovo fosse portato alla sua presenza. L’ordine fu eseguito.

La visita proseguì presso l’“oratorium sive altare” sotto l’invocazione di S.to Bartholomeo,[xxiii] dove fu trovato un altare di pietra con sopra un altare portatile. L’altare possedeva tre tovaglie, un vestimento di tela completo ed una “Cona constructa in tela Cum tribus figuris” raffigurante la “imago glo(rio)siss.ae Virginis Mariae, et s.ti bartholomei et beati Franc.ci de paula”.

Il vicario ingiunse che entro il termine di quattro mesi, l’altare fosse provvisto di un “Coperimen.tum” di tela e che entro lo stesso termine, si provvedesse anche all’acquisto di un messale e di un calice.

Era cappellano dell’altare D. Hieronymo Campana, il quale affermò che l’altare era di jurepatronato della famiglia Blascho. Sotto la minaccia delle solite pene, il vicario ordinò al cappellano di esibire entro tre giorni, i suoi titoli di concessione, assieme a quelli di dotazione, fondazione ed erezione dei patroni. Successivamente, il cappellano fu abilitato ad esibire questi titoli entro il termine di un mese.

Quindi si passò alla visita della “Capp.lam” sotto l’invocazione della “glo(rio)sae Virginis Mariae de lo Rito” dove si trovò un altare “lapideum Cum duobus Columnis”, con sopra la “imago glo(rio)sae Virginis M.ae” che era dell’arciprete di Policastro, il quale affermò che l’altare era di jurepatronato della famiglia dela Mendulara. Il vicario ordinò che entro tre giorni fossero esibiti tutti i titoli che comprovassero i relativi diritti.

Sopra detto altare vi era la “Crux salvatoris n(ost)ri in Cruce pendentis quae est s.mae Eucharistiae”. L’altare possedeva una vigna “a miliati”.

Proseguendo la visita, fu visitato un altro altare dotato di due “Columnas lapideas”, sopra il quale si trovava la “imago salvatoris n(ost)ri in Cruce pendenti que (ae) est de ecc.a”.

Quindi si passò alla visita dell’ “oratorium sive altare” sotto l’invocazione di “s.tae M.ae de lo rito” nel quale fu rinvenuto un altare lapideo “cum duobus columnis” con sopra la “imago glo(rio)sae Virginis Mariae”, pulito ed ornato, che era di jurepatronato di Franc.o Nigro.

Successivamente, il vicario arcivescovile giunse alla “Cap.lam seu ora(torium)” “lapideum” sotto l’invocazione di “s.ti Andreae” di jurepatronato della famiglia Trahina e di cui era rettore D. Fran.o Canzonerio. L’altare possedeva un’arca che conteneva i seguenti beni: un vestimento sacerdotale di tela completo con pianeta di tela dipinta, un’altra casula di tela bianca, tre tovaglie, un coperimento d’altare di tela ed un “plumacium pintum”.

Alla fine della sua visita, rilevato che la chiesa si trovava ancora senza sacrestia e senza campanile, il vicario arcivescovile, considerate anche le numerose sollecitazioni prodotte nei confronti dell’università di Policastro, che sarebbe stata tenuta a contribuire alla riparazione dell’edificio, in virtù della sacra obbedienza e sotto pena della scomunica e del pagamento di cinquecento libre di cera alla Camera Arcivescovile, ingiunse all’università di contribuire alla spese di riparazione occorrenti con 12 ducati all’anno per tutto il prossimo triennio.[xxiv]

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, altare maggiore.

 

Convicino e parrocchia

Rispetto alla prima metà del secolo, caratterizzata da una fase espansiva, la seconda metà del Cinquecento fu contraddistinta da un generale involuzione dell’economia del territorio Crotonese. Volendosi così ovviare al generale impoverimento delle chiese, verso la fine del Cinquecento le parrocchie di Policastro furono ridotte di numero, in maniera che unendo le risorse economiche di quelle soppresse a quelle rimaste, furono costituite delle rendite adeguate per permettere ai parroci di vivere in loco una vita decorosa.

Alla fine del Cinquecento, la chiesa “matrice” o “Maggiore” di San Nicola della Piazza, appartenente all’arciprete, era una delle quattro parrocchiali che rimanevano nella “terra Regia” di Policastro, come illustra la relazione del 1589, prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani per la Santa Sede.[xxv]

A seguito di ciò, al posto dell’antica organizzazione cittadina, che ripartiva per famiglia la cura delle anime tra le diverse parrocchie, fu introdotta una nuova ripartizione, stabilita secondo confini territoriali determinati, che dividevano l’abitato tra le quattro parrocchiali rimaste.

Gli atti dei notari policastresi della prima metà del Seicento, testimoniano infatti che, a partire dagli inizi del secolo,[xxvi] accanto ad un criterio d’identificazione delle abitazioni secondo il loro vicinato (“convicino”) ad una chiesa o ad un altro elemento caratteristico del luogo, ne comincia a comparire anche uno per confini parrocchiali.[xxvii]

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Petilia Policastro (KR), il coro della chiesa matrice.

 

Ai tempi della crisi

Agli inizi del Seicento, la chiesa “Parochialem, et Arcipresbyteralem” di San Nicola “de Platea”,[xxviii] detta comunemente anche la chiesa del SS.mo Sacramento[xxix] dove, in relazione alla cura delle anime, si conservavano, tra l’altro, il “libro di battizati”[xxx] e quello relativo alla celebrazione dei matrimoni,[xxxi] continuava ad essere un beneficio curato che, essendo annesso all’arcipresbiterato di Policastro, era concesso dalla Santa Sede all’arciprete del luogo, che lo deteneva in qualità di rettore e di parroco.

Dopo essere stata lungamente ricoperta da D. Hieronimo Callea per gran parte della seconda metà del Cinquecento,[xxxii] agli inizi del Seicento, la dignità di arciprete appartenne a Gio. Thoma Giordano. Per morte di quest’ultimo, avvenuta nel settembre del 1604, il beneficio di “S. Nicolai de Platea” del valore di 24 ducati di rendita, fu concesso a Marcello Monteleone della terra di Cutro il 5 dicembre di quell’anno. Provvista confermatagli il 29 maggio 1605.[xxxiii]

Il Monteleone, però, non la conservò per molto. Già all’inizio del 1608, infatti, D. Joannes Fran.co Guarano risultava in possesso del beneficio, in qualità di arciprete e di cappellano,[xxxiv] come compare anche in seguito.[xxxv] Successivamente, come comincia ad essere documentato dagli inizi del 1613, oltre a rivestire la carica di “Archipresbiter”, nonchè di “Cappellanus et Curator” della venerabile chiesa “matricis” di S.to Nicola “de platea”, D. Gio: Fran.co Guarano fu anche vicario foraneo in Policastro dell’arcivescovo di Santa Severina.[xxxvi]

Dopo la sua morte, per un breve periodo, la dignità di arciprete e la carica di parroco, ovvero di “economo della chiesa matrice”, fu detenuta dal R.do D. Gio: Filice Oliverio, che fu anche vicario foraneo di Policastro e di Roccabernarda.[xxxvii]

A seguire, troviamo D. Joannes Paulo Blasco, che risultava provvisto del beneficio nell’agosto del 1618[xxxviii] in qualità di arciprete e rettore, nonché di cappellano, come riferiscono numerosi documenti.[xxxix] Anch’egli, in seguito, divenne vicario foraneo di Policastro, come attesta un atto del 7 marzo 1645.[xl] Gio: Paulo Blasco, “Paroco” di San Nicola della Piazza,[xli] risultava ancora in vita in occasione del sinodo diocesano del 1651, quando offrì per sé stesso, all’arcivescovo, i soliti tre carlini che gli spettava pagare in relazione alla sua dignità di arciprete, ma da lì a poco morì.[xlii]

Come risulta dalla provvista vaticana del 28 gennaio 1653, l’arcipresbiterato di Policastro, la cui rendita era di 24 ducati, fu asseganto Joannes Vincentio Natale di Policastro[xliii] che, il 5 agosto di quell’anno, ne fu immesso in possesso, dopo aver ricevuto la relativa bolla pontificia. Quel giorno, infatti, alla presenza dei RR. Paride Ganguzza e Joannes Antonio Leuci, agenti in solidum in qualità di commissari del clero secolare di Policastro, delegati dal R. Joseph de Sindico, vicario capitolare di Santa Severina e delegato apostolico di papa Innocentio X, il notaro Francesco Cerantonio si portò nella chiesa parrocchiale ed arcipresbiteriale di S.to Nicola “de Platea”, posta in convicino delle case di Ippolita Zurlo, delle case di Vittorio Ritia “vijs mediantibus” ed altri fini, per immettere il suo “Archipresbytero” Joannes Vincentio Natale di Policastro, nel reale possesso del beneficio.[xliv]

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Petilia Policastro (KR), abside della chiesa matrice.

 

L’orologio pubblico

A quel tempo, dalla parte delle “Rupes dictae Civitatis”, la chiesa di San Nicola confinava, via mediante, con le case di Ippolita Zurlo che, a sua volta, confinavano anche con la casa degli eredi del quondam Marco Antonio Fanele ed i casaleni dell’olim Agostino Cavarretta.[xlv]

Dalla parte opposta, “la detta chiesa” confinava con una “continentia di case con orto contiguo” appartenenti alla dote di Julia Rizza, che si trovava “circondata di quattro parti di vie publiche” e confinava con la casa di Gregorio Bruno e la casa del chierico Gio: Gregorio Rizza.[xlvi]

Sempre da questa parte, nelle immediate vicinanze della chiesa, si trovava la “Campanacciam publicam”. Sappiamo infatti che la casa di Gregorio Bruno, posta in parrocchia della chiesa matrice, confinava con la casa degli eredi del quondam Joseph Caputo, vinella mediante,[xlvii] e quest’ultima confinava con la casa di Ferdinando Cappa e la casa di Fragostina Campana[xlviii] o Fragostina Ferraro “alias Campanacciam publicam”.[xlix]

Questa campana o orologio pubblico, oltre a fornire a tutti la misura del tempo legalmente riconosciuta, aveva anche la funzione di convocare il sindaco, gli eletti ed i cittadini, in occasione delle pubbliche deliberazioni quando, preceduti da “bannis, et pulsata Campana more solito pro conmitiis generalibus”, essi si congregavano nelle case o “sala” della corte di Policastro[l] posta nella piazza, che era il luogo pubblico della terra, alla presenza del capitano o governatore.[li] Piazza che era andata modificandosi nel tempo e che, a seguito della ricomposizione urbana dell’abitato, già evidente agli inizi del Cinquecento, dalle vicinanze della chiesa di San Nicola della Piazza, si era estesa fino al luogo dove sorgeva la chiesa di San Nicola dei Greci.

Dovendo assolvere a queste funzioni pubbliche nei confronti della cittadinanza, l’università era tenuta a contribuire alla riparazione dell’edificio dove era alloggiato l’orologio, come ribadiva l’arcivescovo già alla metà del Cinquecento,[lii] avendo l’onere di provvedere alle spese relative al suo funzionamento, come  riferiscono i conti universali del 1647, attraverso i quali sappiamo che l’università di Policastro, spendeva annualmente 7 ducati per la “manutenzione dell’orologio”,[liii] anche se, qualche anno dopo, risultava che questo si trovava fermo e non suonava.[liv]

La presenza della chiesa in questo luogo, destinato ad ospitare il mercato ed i mercanti con le loro botteghe,[lv] dove si facevano i bandi e le aste relative all’incanto dei beni dei debitori[lvi] e, più in generale, dove avvenivano tutte le pubbliche congregazioni, determinava, a volte, che queste ultime si realizzassero al suo interno, come risulta già agli inizi del Cinquecento,[lvii] essendo la chiesa comunque il luogo, in cui usualmente si riuniva il clero secolare di Policastro, per deliberare in merito alle questioni comuni che riguardavano gli affari ecclesiastici.[lviii]

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Petilia Policastro (KR), il campanile della chiesa matrice.

 

Le sepolture

Oltre a rappresentare il luogo in cui i cittadini svolgevano le principali attività pubbliche, lo spazio sacro su cui insisteva la chiesa di San Nicola della Piazza, era anche uno dei luoghi di Policastro destinato ad accogliere la sepoltura dei morti.

Incombenza per la quale era stabilito che si pagasse all’arcivescovo lo jus mortuorum, ovvero “la ragione chi li tocca”, “et Cossi al Cappellano la ragione della stola”.[lix]

In Policastro, come negli altri luoghi della diocesi, in occasione di ogni “mortizzo seu funerale”,[lx] la chiesa arcivescovile esigeva per antico diritto, il pagamento in denaro dello “jus mortuorum”[lxi] ed il pagamento dello “jus quarte” o “quarta luminarium”, esigendo la quarta parte delle luminarie realizzate durante i funerali.[lxii] La chiesa arcivescovile possedeva anche lo “jus sepolture”, esigendo sei tareni, tanto da quelli che si facevano seppellire nelle chiese della diocesi, legando per testamento, quanto da coloro che morivano “ab intestatis”.[lxiii]

Le entrate relative a questi diritti in Policastro, sono documentate già alla metà del Cinquecento, nel “Libro de tutte le intrate de lo arcivescovado de s(a)nta Anastasia”,[lxiv] ed alla metà del secolo successivo, come risulta il 18 maggio 1654, dall’entrate della Mensa Arcivescovile esatte da D. Tomaso Antonio Dardano, commissario apostolico.[lxv]

I testamenti contenuti nei protocolli dei notari policastresi di questo periodo, documentano ricorrentemente, la volontà dei testatori di essere seppelliti “nella venerabile chiesa matrice di santo Nicola della piazza”,[lxvi] ovvero nella chiesa del “SS. Sacram.to”,[lxvii] “ubi residet Sanctissimus”,[lxviii] dove si trovavano la “sepoltura delli Confrati”[lxix] e quella “delle Consoro”,[lxx] appartenenti alla confraternita del SS.mo Sacramento.

In alcuni casi, i testatori disponevano di essere seppelliti dentro il pavimento del coro,[lxxi] specificando, a volte, di volere essere sepolti nei luoghi della chiesa dove riposavano i loro antepassati,[lxxii] oppure, più genericamente, rimettendosi alla volontà dei propri congiunti.[lxxiii]

Deposizioni avvenivano anche nella cappella o oratorio “di tutti santi” appartenente alla famiglia Campana,[lxxiv] ed in altre sepolture particolari, come quella di Gregorio Bruno,[lxxv] quella di Sebastiano Grosso,[lxxvi] quella della famiglia Mendolara, posta nella cappella di Santa Maria delo Rito,[lxxvii] e quella della famiglia Callea[lxxviii] che possedevano la cappella di San Sebastiano.

In alcuni casi, i cadaveri erano seppelliti nella chiesa solo temporanemente (“loco dipositi”), in attesa di spostarli in altri luoghi sacri.[lxxix]

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Petilia Policastro (KR), sepolture rinvenute presso la porta della chiesa matrice.

 

Una fiorente attività

In occasione della stipula dei testamenti, la confraternita riceveva lasciti in denaro,[lxxx] in altri beni mobili[lxxxi] o stabili,[lxxxii] e comunque, parte dell’eredità, in cambio della celebrazione di messe di suffragio.[lxxxiii] Gli stabili, previa l’autorizzazione arcivescovile, erano posti all’incanto, pervenendo così a particolari che s’impegnavano a pagare alla cappella un censo annuale.[lxxxiv]

Questo compito, accanto all’attività amministrativa legata alla gestione economica della confraternita, era deputato ad un procuratore nominato annualmente con il beneplacito dell’arcivescovo, importante carica che, durante la prima metà del Seicento, ricoprirono: il R.do D. Joannes Dom.co Catanzaro,[lxxxv] Hijeronimo Scandale,[lxxxvi] Joannes Dom.co Falcune,[lxxxvii] Gregorio Bruno,[lxxxviii] il presbitero D. Joannes And.a Romano,[lxxxix] il R.do D. Prospero Meo,[xc] D. Fran.co Gardo,[xci] Joannes Berardino Accetta,[xcii] il R.do D. Parise Ganguzza[xciii] e Pietro Curto.[xciv]

Oltre a gestire questa consistente fonte d’entrata,[xcv] il procuratore aveva il compito di amministrare anche i diversi possedimenti della cappella, beni che appaiono indistinti da quelli appartenenti alla matrice: alcune case poste nella terra di Policastro,[xcvi] una bottega nella piazza,[xcvii] un “viridarium”, “seu giardino”, posto “sotto santa Caterina”,[xcviii] e “Celsi” e terre in loco “lo ringo”.[xcix] La cappella possedeva inoltre, alcune vigne nelle località dette “lo Zaccaleo”,[c] “Catrevari”,[ci] “chianetta”,[cii] e “S.to Dimitri”,[ciii] oltre ad alcune terre seminative: la gabella “de Zaccarella”[civ] e le terre o gabella “di galioti”,[cv] terre confinanti con le località dette “lo muscarello seu Andriuli”,[cvi] “Priolo”,[cvii] “la marina”,[cviii] e “Mangiacardone”.[cix] Altre terre della cappella si trovavano in località “pantano”[cx] e vicino alla località detta “Valle della fico”.[cxi]

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Petilia Policastro (KR), porta laterale della chiesa matrice.

 

I monti di maritaggio

In alcuni casi, volendo assicurare una dote alle discententi della propria famiglia, o a fanciulle povere che altrimenti non avrebbero potuto sposarsi, i benefattori istituivano un monte di maritaggio, dotandolo con beni fondiari lasciati ad una cappella. Con la rendita di tali beni, amministrati dal procuratore della cappella, quest’ultimo, attraverso una promessa formalizzata in occasione della stipula dei capitoli matrimoniali, concedeva ad un certo numero di queste spose, una somma di denaro che i coniugi avrebbero poi dovuto investire nell’acquisto di un bene stabile sicuro, posto a garanzia dello stesso monte in relazione al denaro ricevuto.

Gli atti dei notari policastresi documentano che, durante il corso della prima metà del Seicento, nella chiesa matrice di Policastro esistettero alcuni monti pii deputati a questo scopo.

A cominciare dai primi anni del secolo, quando troviamo quello istituito dal quondam notaro Antonino Amannito sopra “le terre seu gabella di galioti”, lasciate alla cappella del SS.mo Sacramento, con l’onere per questa, di concedere una somma di denaro per il maritaggio delle femmine della sua famiglia.[cxii]

In seguito, però, di questo monte istituito per dotare le discendenti del ramo femminile del notaro Antonino Ammannito, non si hanno più notizie mentre, nella chiesa matrice, compaiono due diversi monti di maritaggio: uno sempre nella cappella del SS.mo Sacramento, per l’elemosina di “Donne povere p(er) Causa di Maritaggi”, istituito su legato del quondam Alessandro Circhione, ed uno istituito nella nuova cappellania di San Gregorio Magno fondata da Gregorio Bruno nel 1633[cxiii] che, nell’anno precedente, aveva ricoperto la carica di procuratore della confraternita del SS.mo Sacramento, destinato, invece, a dotare le discendenti della sua famiglia. Una operazione che ricompensava ampiamente anche le promesse spose di casa Ammannito.[cxiv]

Numerosi documenti successivi attestano da parte della cappella del SS.mo Sacramento, l’assegnazione della somma di 15 ducati annualmente a “donne povere”, tra cui non mancano casi in cui la sposa ricevette, allo stesso tempo, anche la somma prevista dal monte di San Gregorio.[cxv]

 

In sinodo

Accanto alle consistenti entrate, rappresentate dalle rendite del beneficio e da quelle derivanti dall’investimento del denaro ottenuto, attraverso l’amministrazione del proprio ufficio e dei diversi enti ecclesiastici esistenti nella chiesa matrice, il suo rettore-cappellano doveva sopportare alcuni oneri.

Oltre al pagamento della quarta beneficiale all’arcivescovo di Santa Severina,[cxvi] l’arciprete di Policastro, in ossequio all’antico diritto vescovile, doveva comparire personalmente ogni anno, il giorno del sinodo diocesano, corrispondente a quello della dedicazione della cattedrale di Santa Anastasia, innanzi al trono del presule di Santa Severina, pagando per sé e per il clero di Policastro, nelle mani dell’arcivescovo, un censo in segno d’obbedienza.

L’importo di tale offerta, detta “presente” nei documenti più antichi, oppure semplicemente “censu” o “Cathedratico”, che spettava pagare al “R.dus Archipresb(ite)r cap(ito)lum et clerus terrae Policastri”, era di tre carlini, come comincia ad essere documentato già alla metà del Cinquecento,[cxvii] e come continua ad essere testimoniato in occasione dei sinodi successivi.[cxviii]

 

Il terremoto del 1638

Gli eventi sismici che interessarono la Calabria centro-settentrionale a cominciare dal 27 marzo del 1638,[cxix] proseguendo fino alle scosse verificatesi nella notte tra i giorni 8 e 9 del mese di giugno dello stesso anno, produssero danni ingenti a Policastro. In questa occasione, secondo quanto affermava Lucio de Urso, l’abitato fu distrutto “dalle fondamenta”,[cxx] risultando il centro più colpito tra quelli vicini, con 353 edifici rimasti abbattuti.[cxxi]

Come appariva da una relazione prodotta al tempo dall’avvocato fiscale della regia Udienza Provinciale, il sisma causò a Policastro danni per più di quarantamila ducati d’oro “per li quali danni, e rovine furno concesse à Cittadini cinque anni di franchezze”.[cxxii]

Secondo il Mannarino, l’area dell’abitato maggiormente colpita risultò la “parte orientale di detta Città” che, ancora ai tempi in cui scrisse la sua “Cronica” (1721-1723), si trovava “mal’abitata colle case ivi dirute”.[cxxiii]

In questa occasione la chiesa matrice subì danni consistenti, come evidenzia la data 1651 sul portale principale della chiesa, anche se, a quel tempo, i lavori proseguivano ancora, come si testimoniava durante la visita arcivescovile del 1660.

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Petilia Policastro (KR), particolare del portale principale della chiesa matrice.

 

La visita arcivescovile del 1660

Nell’ambito della visita agli “Oppidis, et Locis Suae Dioecesis”, l’arcivescovo di Santa Severina Francesco Falabella arrivò a Policastro la domenica del 3 ottobre 1660.

Annunciato otto giorni prima per iscritto, proveniente da Mesoraca, egli giunse “extra oppidi Portam”, accompagnato dal suo seguito dove, al suono delle campane, fu accolto dal popolo e dal clero con la croce. Smontato da cavallo e dismesso l’abito del viaggio, l’arcivescovo indossò la cappa pontificale sopra il “Rochetum”, genuflettendosi davanti alla croce portata dall’arciprete. Quindi, “sub Baldachino”, preceduto da tutto il clero che intonava l’inno “Veni Creator Spiritus”, si avviò in processione alla chiesa matrice.

Giunto “in Ecc.am S. Nicolai Policastri”, asperse l’acqua lustrale, genuflettendosi davanti all’altare maggiore e pregò mentre tutto il clero cantava.

A questo punto, dopo aver baciato l’altare, l’arcivescovo benedisse il popolo solennemente. Quindi, dopo essersi seduto indossando la “Mitra pretiosa”, ricevette l’obbedienza da parte di ogni singolo componente del clero policastrese, secondo l’ordine certificato dal notaro, che trovava al primo posto tra i “Sacerdotes”, il “Rev.s Archipresb.r Joannes Vincentius Natale Parochus Matricis Ecc.ae”.

Ricevuta l’obbedienza del clero, l’arcivescovo tenne un sermone al popolo circa la “materia” della sua visita quindi, impartì ai fedeli l’assoluzione generale “cum indulgentia”.

L’arcivescovo indossò un “Amictu” sopra il rocchetto con “stola, et Pluviale” di colore nero ed una “Mitra Simplice” sul capo, procedendo così alla visita del “SS.mum Eucharestiae Sacram.tum”, che si trovava “in Alt. Maiori sub Custodia lignea deaurata in duabus Pixidibus argenteis” destinatate a conservare le “particulae consecratae”: una grande dorata dentro e fuori con la quale si portava il viatico agli infermi ed un’altra piccola non dorata, che l’arcivescovo ordinò di dorare antro il termine di due mesi. Davanti all’altare ardeva di continuo una lampada, mentre all’olio e alle candele necessarie ai divini offici provvedeva il procuratore della confraternita.

L’arcivescovo ordinò a quest’ultimo di esibire entro tre giorni i singoli conti annuali degli ultimi dieci anni ed ai confrati di esibire i titoli di erezione del sodalizio. I redditi certi della chiesa ascendevano ad annui ducati cinquanta, mentre circa altri 10 provenivano dalle elemosine.

A questo punto la visita fu interrotta per il pranzo, riprendendo “post prandium” presso il “Fontem baptismalem”. Questo si trovava al lato sinistro della chiesa ed era posto “in Tabernaculo ligneo” decentemente ornato, anche se l’arcivescovo non vi rinvenne né l’ “oleum Cathecuminorum” né il “Sanctum Chrisma”, essendo entrambi conservati nella sacristia in una “Capsula lignea” assieme all’ “oleo infirmorum”.

L’arcivescovo ordinò che in maniera più comoda per i sacerdoti, i primi due olii fossero conservati nel tabernacolo del fonte battesimale, mentre l’olio degli infermi poteva essere tenuto in sacrestia. Egli ingiunse anche che fosse riadattato entro il termine di un mese l’ “Operculum” dello stesso fonte, provvedendolo di una “Cappa” di “tela ut d(icitu)r Sangalli” di colore rosso.

Passò quindi a visitare l’altare maggiore che si trovava posto “in Altiori, et nobiliori parte d.ae Ecc.ae”, nella parte orientale dell’edificio alla quale si accedeva salendo tre “grados”, trovandolo ornato con tre tovaglie, “Lapide Sacrato”, “Carta Secretorum”, due “statuas Angelorum cum Candelabris in manibus”, oltre a due candelabri dorati e a due di legno. L’arcivescovò ordinò di provvedere l’altare di altri due candelabri entro il termine di quattro mesi e di riadattare entro un mese, la cornice dorata della “Custodiae” nelle parti in cui aveva fatto movimento, ordinando, inoltre, di ornarla con un “pallio” di seta “auro contexto”.

Sopra l’altare vi era un “Baldachinum” di seta con la “Statua Sanctorum Petri et Pauli cum Columnis ex Calce et cimentis dealbatis”.

La confraternita aveva l’onere di celebrare tre ebdommade in favore di coloro che pagavano l’elemosina di 15 ducati annui alla stessa “societate”.

Nei singoli giorni festivi in cui i “Parochiani” erano tenuti ad ascoltare la messa, l’arciprete celebrava una “Missam Conventualem” cantata alla quale intervenivano sacerdoti, clerici e chierici.

Vi era inoltre l’“onus celebrandi” di quattro messe la settimana per l’anima di Gregorio Bruno in relazione al legato lasciato dallo stesso, altre due messe per l’anima di Adriana Melioca per un legato pio, altre due per l’anima di Laura Blasco, un’altra messa per l’anima della “sororis” Dianora Campana, altre due che riferivano essere per le anime di altri della famiglia Blasco, una messa per l’anima di Mutio Campana, le messe che dovevano essere celebrate con il reddito annuo derivante dalla vigna lasciata da Hieronimo Coco, tre altre ebdommade per l’anima del reverendo J. Thoma Caccuri, altre 20 messe all’anno per l’anima di Joannes Andrea de Strongoli ed altre settantacinque messe all’anno per le “Animabus Campanorum”.

Dato che l’arcivescovo non trovò le predette messe annotate in “Tabella perpetua” né da altre parti, minacciando l’eventuale sospensione dell’arciprete e degli altri ecclesiastici, ordinò che entro otto giorni, tutti tali oneri, assieme agli altri che fossero stati rinvenuti, venissero riportati “in Tabella” nella forma e nei modi che risultavano dai relativi testamenti e che questa tabella fosse appesa in un posto eminente della sacrestia. Egli ordinò, inoltre, “sub poenis arbitrio” che fosse predisposto un “libro” in cui, dopo ogni celebrazione, fosse annotata ogni messa di propria mano da parte di ogni singolo sacerdote.

All’arciprete D. Vincentius Natale, fu ingiunto di esibire entro tre giorni le “bullas suae collat.nis” assieme all’ “inventarium” di tutti i beni stabili e dei redditi della chiesa, cosa che lo stesso fece “in Visita(tion)e personali”.

Si passò quindi alla visita dell’ “Altare S. Sebastiani” posto “à latere dextro d.ae Ecc.ae” di iurepatronato della famiglia Callea, ai quali fu ingiunto di presentare entro tre giorni, i titoli di fondazione. L’altare fu trovato ornato con un pallio di seta di diversi colori, tre tovaglie “lapide Sacrato”, quattro candelabri, croce e “Carta secretorum”. Nella parete si trovava una “Icona depicta cum Imagine S. Sebastiani inter duas Columnas ex gipso dealbatas”. Sotto l’altare vi era uno “Scabellum Altaris” e la “Sepoltura” della famiglia Callea. Dato che ciò era proibito dalla Santa Congregazione dei Sacri Riti, l’arcivescovo interdisse il sepolcro, dando mandato che in futuro non si procedesse più ad altre deposizioni.

L’altare aveva l’onere di celebrare tre ebdommade che il clero celebrava grazie alle elemosine pagate da Joanne Baptista Callea, come asseriva quest’ultimo che era presente.

Il quattro di ottobre, ad “hora competenti”, la visita dell’arcivescovo Falabella proseguì presso la sacrestia della chiesa posta alla sinistra dell’altare maggiore, nella quale si conservavano i “Vasa Sacra” e le suppellettili. Qui furono rinvenuti: quattro calici “cum pedibus aeneis et Verticibus argenteis deauratis” dei quali, uno fu trovato “contusus” nella parte interiore e fu interdetto dall’arcivescovo che ordinò di riadattarlo e ridorarlo entro il termine di un mese. La stessa cosa l’arcivescovo ordinò in merito ad una patena della “Cappelae S. Sebastiani” che si trovava “in tribus partibus retorta”, come fu ordinato al procuratore della stessa Joanne Baptista Callea. Furono trovati anche tutti gli ornamenti necessari ed alcuni ornamenti “cum velis” di diversi colori.

Fu anche rinvenuto una “Pyxis argentea seu Tabernaculum” con “pede aeneo et Vertice cum radiis argenteis”, che si usava per portare processionalmente il SS.mo Sacramento dell’Eucarestia “in Festo Corporis Christi”. Dato che la pisside fu trovata rotta, considerato il pericolo che l’Eucarestia sarebbe potuta cadere quando si portava nelle processioni, essendo stata consolidata con il piombo, l’arcivescovo vietò di usarla ed ordinò di rifarla entro due mesi. Allo stesso modo, l’arcivescovo ordinò che venisse rinnovato un “Turribulum” d’argento senza piede.

In “Capsis ligneis” riposte in sacrestia, furono trovati: cinque “Casulae seu Planetae” di diversi colori, due rosse, una violacea, una verde ed un’altra bianca, assieme ad altre tre, una rossa, una violacea e l’altra bianca. L’arcivescovo ordinò di rammendarle nella parte anteriore ed altrimenti di non usarle. Si trovò ancora una “Planeta vulgo dicitur imbroccato” di colore bianco con “Dalmaticis” e cappa dello stesso tessuto e colore, ed un pallio d’altare con ornamenti d’oro che si usava nei giorni solenni. Furono trovate anche altre due pianete simili, una bianca e l’altra rossa, con cappa e dalmatici ed un’altra pianeta di seta “auro contexta” con le insegne dell’arcivescovo di Santa Severina Fausto Caffarelli (1624-1651) che l’aveva donata alla chiesa.

Sempre nella sacrestia furono ritrovati ancora: cinque “Albae seu Cammisi”, tre dei quali, risultando laceri in alcune parti, l’arcivescovo ordinò di risarcire entro otto giorni e due “Umbrellae” per accompagnare il SS.mo Sacramento, una bianca per le occasioni di maggiore solennità e l’altra rossa, ambedue usate per portare il viatico agli infermi.

Furono trovati conservati anche i “libri baptizatorum Confirmatorum Matrimoniorum Defunctorum Status Animarum”.

Considerato che il pavimento della chiesa si presentava in alcune parti “effossum”, a causa della sepoltura dei cadaveri dei defunti, l’arcivescovo ordinò che fosse riattato dove serviva, vietando di ampliare la superficie destinata alle sepolture, pena l’interdizione ecclesiastica.

La fonte dell’acqua benedetta era situata al lato sinistro ed era costruita “ex lapide diversorum colorum cum sustentaculis ferreis”.

Alla sinistra dell’altare maggiore erano state iniziate quattro cappelle, tutte appartenenti alla “Societatis SS.mi Sacram.ti”, due delle quali si trovavano “in bona for.a reductae” e le restanti due “designatae”.

Al lato destro della chiesa, era esistita nel passato una “Capella” sotto l’invocazione di “S. Gregorii Papa” la cui “Imago seu Icona depicta in tela” era ora conservata in sacrestia. Questa cappella era di iurepatronato di Gregorio Bruno e ne era rettore il Rev.s Dom.cus Gallo di S. Mauro, con l’onere di celebrare quattro ebdommade. Considerato ciò, si ordinava al rettore che rifacesse la cappella in una di quelle quattro iniziate dalla “Societas” del SS.mo Sacramento, pagando il competente prezzo per la fondazione. Disponeva, inoltre, il sequestro dei frutti del beneficio di quell’anno, assegnandoli per la instaurazione della detta cappella.

Nella stessa cappella esisteva un legato con un monte di circa novanta ducati, lasciato in favore di una “puella” della famiglia Bruno che fosse andata in sposa durante l’anno. L’arcivescovo ordinò che entro due giorni, sia l’attuale procuratore D. Ferdinando Riccio che gli altri suoi predecessori del decennio precedente, dovessero mostrare di aver adempiuto a tale onere, pena la scomunica “Latae Sententiae”.

Poiché fu accertato che per diversi anni, l’elemosina predetta era stata assegnata alle spose della famiglia Bruno “ante tempus percept.nis redituum dicti Montis nuncupati S. Gregorii” e che tale assegnazione anticipata aveva creato litigi e confusione, l’arcivescovo comandò che nel proseguo dell’anno non si facesse più alcuna assegnazione, cancellando ed annullando quelle già fatte. L’arcivescovo dispose, inoltre, che se negli anni a venire, si fosse presentata la situazione in cui più “puellarum nobilium” della famiglia Bruno si fossero sposate nell’arco dello stesso anno, il nome delle pretendenti alla dote, sempre che fossero state maggiori di quattordici anni, si sarebbe dovuto sorteggiare nel giorno della “Nativitatis B. Mariae”, attraverso “schedulis” riposte nell’ “Urna”, alla presenza del vicario foraneo, dell’arciprete e del procuratore pro tempore della chiesa, concedendo la detta dote alla prima estratta.

Dato che la chiesa possedeva due campane di mediocre grandezza poste “supra Portam maiorem dictae Ecc.ae”, l’arcivescovo dispose che “quando fuerit completa fabrica d.ae Ecc.ae”, queste dovessero essere poste in un altro luogo designato allo scopo da parte dell’arcivescovo.[cxxiv]

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Petilia Policastro (KR), resti murati nella parete del campanile della chiesa matrice, forse identificabili con le statue dei SS. Pietro e Paolo esistenti sull’altare maggiore alla metà del Seicento.

 

Decadenza e spopolamento

La situazione di grave decadenza legata alla lunga crisi economica che interessò Policastro durante il corso del Seicento, determinò un grave spopolamento del luogo che, dai 713 fuochi del 1595, passò ai 674 del 1648, per giungere, infine, ai 356 del 1669. Ciò ebbe importanti ripercussioni anche sulla vita delle sue chiese, su cui riverberò “l’ingiuria dei tempi”.[cxxv]

All’epoca della visita dell’arcivescovo Falabella, oltre alla parrocchia della “Matricis Ecc.ae”, continuavano ad esistere in Policastro altre tre parrocchie: quella di “S. Petri”, quella di “S. Nicolai de Graecis” e quella di “S. Mariae de Magna”, il cui parroco, il Rev.o Dom.co Cepale, era anche vicario foraneo.[cxxvi] Tutte, comunque vivevano una situazione economica difficile, che rendeva poco appetibili questi benefici spesso vacanti, come risulta documentato per la chiesa matrice.

Alla morte dell’arciprete Gio: Vincetio Natale, infatti, la carica di parroco rimase vacante, mentre all’amministrazione della parrocchia fu deputato un economo vicario, come risulta da una nota che ricorda le patenti relative a questo incarico, rilasciate al Rev.o D. Dom.co Cepale il 20 novembre 1673.[cxxvii]

Attraverso la relazione del 1675 prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina, il crotonese Muzio Suriano (1674-1679), apprendiamo che la chiesa “Archipresbyteralis sub titulo Sancti Nicolai Pontificis”, dove si trovava la cappella del SS.mo Sacramento, alla quale era annessa una confraternita laicale, come testimonia ancora oggi, l’iscrizione: “SIA LAUDATO IL SS.MO SACRAME.NTO P. / P. F. 1685”, a causa della scarsità del suo reddito, risultava vacante da tre anni, mentre la cura delle anime era esercitata da un vice parroco. In relazione a ciò l’arcivescovo meditava di unirla all’altra parrocchiale di San Pietro Apostolo, anch’essa vacante per la tenuità del suo reddito.

A quel tempo, la chiesa era servita da semplici presbiteri nei giorni festivi, che officiavano le celebrazioni solenni. Presbiteri che vivevano “in Communi”, dividendosi equamente tra loro gli oneri e gli stipendi delle messe legati dai fedeli.[cxxviii]

La difficile situazione economica, determinava però che la matrice non riuscisse più ad onorare tali impegni, e per porre rimedio a questo suo stato di sofferenza, nel 1681, si ricorse alla riduzione degli oneri delle messe che la gravavano. Succedeva, infatti, che le rendite dei beni che i benefattori avevano legato al tempo dei loro lasciti testamentari, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, fossero ormai divenute inadeguate alla soddisfare la retribuzione dei cappellani che celebravano tali messe di suffraggio, mentre, sempre a causa della crisi, erano anche aumentati i casi degli insolventi.

Dalla documentazione prodotta in questa occasione, per poter ottenere dall’arcivescovo tale riduzione, sappiamo così che, al tempo, l’onere principale delle messe che si celebravano a tale scopo “in Eccl(esi)a Maiori”, era collegato ai lasciti di alcuni antichi benefattori: la famiglia Blaschi (1590) con un onere di 100 messe, relativamente al quale il clero possedeva un castegneto detto “delli Blasci”, un vignale loco detto “Bonaudo” ed un altro vignale loco detto “Andrioli”, fondi  dai quali il detto clero non riusciva ad esigere che soli annui ducati 7, la famiglia Campana (1592) con un onere di 75 messe, per il quale il clero possedeva un pezzo di terra detto “la Sulleria”, che rendeva annui ducati 3, ed un altro pezzo di terra loco detto “la pizzuta”, che rendeva annui carlini 20, Hieronimo Coco (1620) con un onere di 20 messe, per il quale il clero possedeva un vignale in loco detto “Paternise”, che rendeva annualmente circa carlini 10, e Andreana Milioti (1645) con un onere di 100 messe, per il quale quest’ultima aveva legato un anuo censo di ducati 10, relativamente ad un capitale di ducati 100 che, dopo essere stato affrancato, si trovava attualmente in deposito, per la difficoltà di collocarlo su mercato creditizio, perchè “nelli Tempi correnti non si troverà giamai al diece p(er) Cento”.

Oltre a queti oneri che riuscivano più ad essere soddisfatti, nella “Chiesa Matrice” vi erano poi le messe che da molti anni non venivano più celebrate, a causa del fatto che, i debitori “obbligati alle Elemosina”, non avevano “corrisposto” quanto invece sarebbe stato loro dovuto.

Si trattava di 15 messe per l’anima di Alfonso Riccio (1608), che avrebbero dovuto corrispondere gli eredi di Andrea Cavarretta, di Salvatore Spinello e del Rev.o D. Gio: Giacomo Aquila, possessore del “Mortilletto hipotecato alla sodisfattione”, e di 50 messe per l’anima di Scipione Romano (1645), per le quali il clero di Policastro possedeva 50 ducati in contanti. Di questo capitale, ne erano stati dati a censo ducati 35 al quondam Marco Mannarino ed al quondam Fran.co Giglio, ed altri ducati 15 al quondam Gio: Dom.co Caputo.[cxxix]

 

La cappella della Visitazione, ovvero di Santa Maria “Francorum”

Volendosi porre rimedio alla crisi della matrice, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, alcuni antichi benefici di Policastro furono uniti a quello di San Nicola della Piazza.

Secondo quanto riferisce il Mannarino, al tempo dell’arcivescovo Carlo Berlingieri (1679-1719), negli ultimi anni del Seicento, la chiesa “dell’Annunziata detta di Fuora” fu diroccata, e dal suo sito originario che si trovava “sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città”, fu trasferita in quello dell’antica chiesa di “Santa Maria delli Francesi”. Sempre secondo le affermazioni del Mannarino, quest’ultima fu completamente “smantellata”, così da poter essere rifabbricata “da fondamenti” in forma più vasta.[cxxx]

In questa occasione, il beneficio di “S. M. FRANCORUM” fu unito alla matrice, nella quale fu eretta la relativa cappella nell’anno 1704, come riferisce una epigrafe posta sulla porta laterale della chiesa di San Francesco di Paola.

Il primo gennaio 1705, infatti, dietro la richiesta dei fratelli D. Ant.o Ferrari, arcidiacono della cattedrale di Santa Severina, e Francesco Ferrari, chierico coniugato, l’arcivescovo Carlo Berlingieri approvava l’erezione di “un perpetuo Semplice Beneficio Eccl(esiati)co all’Altare della S.ma Vis.e sotto l’invocaz.ne di S. M.e delli Francesi posto dentro la V(enera)b(i)le Chiesa Matrice”, ovvero “ad Altare S.mae Visit.ae, seu S. M. Francorum positum intus V(enera)b(i)lem Ecclesiam Matricem in loco Policastri”, compreso di una messa cantata nel giorno della S.ma Visitazione della Vergine.

Come appariva dallo strumento di dotazione fatto in Policastro il 12 settembre 1704, il beneficio risultava dotato in annui ducati 25, provenienti da alcuni stabili posti nel distretto di Policastro: una continenza di terre in loco detto “la Valle delli Cancelli”, confine i beni della cappella di San Gregorio, del vignale di Santa Caterina, ed altri fini, dalla quale si percepiva la somma di d. 10, un’altra continenza di terre dette “S. Marco”, arborata di olive, dalla quale si percepiva la somma di d. 10, un orto posto “dentro d.o luogo di Policastro”, dal quale si esigevano annualmente d. 3, ed un annuo canone di carlini 28 per un capitale di ducati 40 alla ragione del 7 %, dovuto dal clerico Antonino Carcello.

Il 21 giugno 1705, nel palazzo arcivescovile di Santa Severina, lo stesso arcivescovo firmava l’atto mediante il quale, il “Clerico” Joannes Dominico Ferrari di Policastro, in qualità di cappellano, era immesso nel reale possesso della “Cappellaniam, seu Beneficio in Altare, seu ad Altare sub invocatione Sanctiss.mae Visitationis intrus Ecclesiam Matricem loci Policastri”, fondato “p(er) Rev.m D. Antonium, et Clericum Coniugatum Franciscum fratres de Ferrariis cum reservatione Juris patronatus, et praesentandi Rectorem”. Al sacerdote Joannes Dominico, il 10 giugno 1717, succederà, in qualità di cappellano, il “Cl.m” Nicolao Ferrari,[cxxxi] mentre, alla metà del Settecento, il semplice beneficio di “S. Maria de Francesi”, juspatronato della famiglia Ferrari, risultava provvisto al clerico Giuseppe Faraldi.[cxxxii]

 

La matrice agli inizi del Settecento

La chiesa parrocchiale di “S. Nicolai” di Policastro, il cui frutto ascendente ad annui ducati cinquanta, era vacante per la morte di Iacobo Curto, defunto nel mese di maggio del 1697, fu provvista al presbitero del luogo Ioannes Francisco Scandale nell’agosto di quell’anno.[cxxxiii]

Dopo la sua morte, avvenuta nel luglio del 1708, nel maggio dell’anno seguente, fu provvisto il presbitero Ioannes Paulo Grano,[cxxxiv] come ribadisce una lettera dell’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingeri, data in Mesoraca il 23 agosto 1709, che conferma come questi fosse risultato abile ed idoneo a ricoprire la carica, attraverso l’esame fattogli dagli esaminatori sinodali.[cxxxv]

Ricevuto l’incarico, il nuovo arciprete si adoperò subito, per cercare di porre riparo alla grave crisi che affliggeva la sua parrocchia.

Accogliendo la sua supplica, il 16 luglio 1713, la Sacra Congregazione del Concilio chiedeva all’arciprete Jo: Paulo Grano, che esponesse una relazione dettagliata, riguardante sia la situazione economica, che quella delle anime, delle quattro parrocchie di Policastro. Relazione inviata il 20 settembre di quell’anno che, tra l’altro, descrive in maniera particolareggiata lo stato della matrice.

In questo “statu Parochialium Ecclesiarum loci Policastri”, leggiamo che “Policastrum”, luogo posto in diocesi di Santa Severina, assommava 2534 anime, con quattro chiese parrocchiali divise da confini definiti, all’interno dei quali ogni parroco amministrava la cura delle anime dei propri parrocchiani.

Oltre che su quelle delle decime e dei “parochialibus emolumentis”, le quattro parrocchie potevano contare su poche entrate, in quanto alcune possedevano qualche fondo, altre nessuno. La prima, in ragione della sua antichità, aveva il titolo di “Matricis” ed era affidata ad un “Rectorem Archipresbiteri”.

In questa relazione, le origini della lunga crisi della matrice, si facevano discendere dai tempi del terremoto del 1638, quando il “Districtu d.tae Matricis majori” era stato interessato da grandi rovine, che avevano costretto i parrocchiani a trasferirsi fuori dai termini della parrocchia: “Parochia diruta domus non reaedificare curantes in aliarum Paraeciam fines trasmigrarunt”.

Questa situazione aveva determinato che alla cura dell’arciprete, rimanessero solo circa 150 anime che gli assicuravano un tenue frutto. Si evidenziava ancora che, a partire dall’epoca del terremoto, la diminuizione dei parrocchiani e delle rendite, aveva reso poco appetibile la carica di arciprete che, per questa ragione, aveva ottenuto una “provisione” maggiore.

Escludendo la cura delle anime, l’arciprete non aveva altri oneri, ma doveva provvedere alla “fabrica” della sua chiesa ed alle suppelletili. Egli, inoltre, contribuiva con cinque ducati “pro professionibus Exterorum ad ipsam matricem Confluentium”. La matrice era l’unica chiesa a custodire il SS.mo Sacramento, di cui si servivano anche le altre parrocchie per somministrare il Viatico agli infermi.

Considerando questa situazione, l’arciprete Gio: Paolo Grano chiedeva, quindi, che si giungesse “ad novam terminorum definitionem” delle parrocchie, proponendo una soluzione che coinvolgeva, in particolare, la situazione della parrochia contermine di “S. Petri Apostoli”.

Tali considerazioni sono espresse dettagliatamente, in un memoriale prodotto dall’arciprete che accompagnava la sua relazione, nel quale questi così si esprimeva:

“… come si trova detta Citta divisa in quattro Parocchie, tra quali quella annessa all’Arcipretato, e come che nell’erettione al prefato arciprete non assegnorno rendite verune, ma solamente furono considerati l’emolum.ti provenienti dall’annessa Parocchia, ritrovandosi questa al presente per ingiuria del tempo ridotta a pochissime anime essendo colla mancanza degl’abitanti dirute l’habitazioni viene detto Arcip.e oratore à sostenere i pesi dell’Arcipretato senza emolumento veruno. Supplica intanto l’E.E.V.V. degnarsi ordinare si faccia la partitione di d.e Parocchie, ed unirsi all’Arcipretato portione dell’altre Parocchie, che oltre la giustizia si farà al d.o Arcip.e, e Paroco Orat.e, si provederà anco alla salute di quell’anime, che seguita d.a partitione di Parocchie saranno per l’avvenire con più attenzione assistite circa L’amministratione de Sagramenti, ed altro spirituale alimento cio, che al presente non puol succedere stante la numerosità dell’anime dell’altre Parocchie …”.

Rispetto alle ragioni ed ai conti presentati dall’arciprete di San Nicola delle Piazza, diverse erano le valutazioni del parroco di San Nicola dei Greci Antonino Venturi che, in una nota del 19 agosto 1713, si esprimeva nel merito delle affermazioni del suo collega, dicendo che “l’ammalato l’ha soprastimato” e che nella relazione dell’arciprete “vi è sbaglio grosso”, in primo luogo, riguardo all’importo delle decime percepite che, secondo il Venturi era maggiore, come testimoniava una “Aggiunta nota” relativa al pagamento di ogni singolo parrocchiano, e poi perché non erano stati computate altre entrate incerte, come il diritto di stola e le fedi matrimoniali e “d’ordinandi”. Egli aggiungeva inoltre, che l’arciprete non era gravato da pesi per il mantenimento della chiesa, nè doveva provvedere per i vestimenti, non pagava sacrestani e non doveva dire messe per i parrocchiani ma anzi, riceveva da parte del clero il pagamento de “L’honore”, in occasione di ogni funzione che si celebrava nella matrice.[cxxxvi]

 

Le anime

La parrochia di San Nicola che, secondo quanto riporta il Sisca, nel 1687 “era costituita di 225 anime, di cui 40 di età inferiore ai 7 anni”,[cxxxvii] agli inizi del Settecento aveva perso molti dei suoi parrocchiani.

Risale a questo frangente uno “Stato dell’anime” della parrochia, compilato il 14 agosto 1713 da Gio: Paolo Grano, arciprete e parroco di “S.to Nicolò della Piazza”, che elenca tutti i parrocchiani distinti per nucleo familiare, ossia 151 “anime” distinte in 38 “case” che, “secondo l’uso del Paese”,

“sene percipe l’anno, quando si quando no, dedotte le povere doc.ti 8”.

“Dianora Caparra V.a Fran.co Fanele d’anni 42 in C.a (ann. a marg.: e povera), Gio: Batt(is)ta figlio d’anni 22 in C.a, Ant.o figlio d’anni 15 in C.a, Berardina figlia d’anni 10 in C.a, Gerolima figlia d’anni 8 in C.a.

Aurelia Chiaromonta d’anni 28 in C.a, Paolo figlio d’anni 14 in C.a, Elisabetta figlia d’anni 6 in C.a.

V.a Laudonia Mannarino d’anni 40 in C.a, Fran.co figlio d’anni 17 in C.a, Marco figlio d’anni 14 in C.a, Giov.e figlio d’anni 11 in C.a.

Ant.o Cavarretta d’anni 47 in C.a, Elisabetta Zagaritano moglie d’anni 41 in C.a, Vittoria figlia d’anni 18 in C.a, Brancatio figlio d’anni 16 in C.a, Rosa figlia d’anni 11 in C.a, Anna figlia d’anni 7 in C.a, Cabella figlia d’anni 4 in C.a.

Tomaso Longo d’anni 51 in C.a, Isabella Ceraldi moglie d’anni 45 in C.a, Giulia figlia d’anni 21 in C.a, Genn.o figlio d’anni 15 in C.a, Gaetano figlia d’anni 12 in C.a.

Dom.co Spinello d’anni 46 in C.a, Ippolita Toscano moglie d’anni 36 in C.a, Dom.ca figlia d’anni 6 in C.a, Gaetano figlio d’anni 13 in C.a.

Catarina Poerio V.a Gio Dom.co Guid.o anni 65, Ant.o figlio d’anni 32 in C.a, Elisabetta figlia d’anni 25 in C.a.

Antonio La Chiave d’anni 45 in C.a, Ang.a Guzzo moglie d’anni 40 in C.a, Michel.o figlio d’anni 15 in C.a.

Dom.co Torchia d’anni 36 in C.a, Lucretia Montemurro moglie d’anni 17 in C.a, Rosa figlia di mesi 6 in C.a.

Michelang.o Torchia d’anni 43 in C.a, Elisabetta Conflenti moglie d’anni 41 in C.a, Gio: Tomaso figlio d’anni 11 in C.a.

Catarina Misiano d’anni 72 in C.a, Rosa figlia d’anni 46 in C.a, Anna figlia d’anni 43 in C.a.

Isabella Maratia d’anni 25 in C.a, Franc.o Ant.o figlio d’anni 7 in C.a., Serafina figlia d’anni 9 in C.a., Diego figlio d’anni due e mezzo in C.a.

D. Vitaliano Giordano d’anni 26 in C.a, Lucretia sorella d’anni 27 in C.a, Marcello fr(at)ello d’anni 20 in C.a, Muzio fr(at)ello d’anni 15 in C.a, Durania sorella d’anni 7 in C.a.

D. Ferrante Giordano d’anni 40 in C.a, Dianora so(re)lla d’anni 32 in C.a.

Sig.ri Franc.o Ferrari d’anni 45 in C.a, Felice Zurlo d’anni 42 in C.a, Ant.na figlia d’anni 21 in C.a, Nicolò figlio d’anni 15 in C.a, Michele Ang.o figlio d’anni 13 in C.a, Elisabetta figlia d’anni 12 in C.a, Tomaso figlio d’anni 7 in C.a, Rosa figlia d’anni 8 in C.a, Pietr’Ant.o figlio d’anni 6 in C.a, Alessandro figlio d’anni 4 in C.a, Muzio figlio d’anni 3 in C.a.

Filippo Lamanno d’anni 42 in C.a, Catarina Prato moglie d’anni 40 in C.a, Ang.a figlia d’anni 15 in C.a.

Fran.co Schipano d’anni 35 in C.a, Maria Caira moglie d’anni 25 in C.a, Salvatore figlio d’anni 15 in C.a, Rosa figlia d’anni 6 in C.a.

Laura Marra V.a Ant.o Licciardo d’anni 57 in C.a, Dom.co figlio d’anni 29 in C.a, Salvatore figlio d’anni 25 in C.a, Anastasia figlia d’anni 15 in C.a.

Lonardo Pinello d’anni 45 in C.a, Anna Tronca moglie d’anni 31 in C.a, Tomaso figlio d’anni 14 in C.a, Isabella figlia d’anni 5 in C.a.

Maria Giordano d’anni 62 in C.a.

Anna Poerio V.a Ant.o Sellitta d’anni 64, Gius.e figlio d’anni 38 in C.a, Felice d’anni 32 in C.a, Ant.o figlio d’anni 20 in C.a.

Giulio di Chiara d’anni 37 (in C.a), Elisabetta Capozza moglie d’anni …, Ant.o figlio d’anni 17 in C.a.

Ant.o M.a Rizzuto d’anni 22 in C.a, Laura so(re)lla d’anni 17 in C.a, Ang.a so(re)lla d’anni 14 in C.a.

Luca Schipano d’anni 39 in C.a, Anastasia Cimino moglie d’anni 36, Vitaliano figlio d’anni 10 in C.a, Dom.co figlio d’anni 7 in C.a.

Gerolimo Rizza d’anni 47 in C.a, Lucrezia Milea moglie d’anni 18 in C.a, Blasio figlio d’anni 3 in C.a, Ant.no figlio di mesi 4 in C.a.

Andrea Grosso d’anni 40 in C.a, Vincenza Apa moglie d’anni 36 in C.a, Gio: Berardino figlio d’anni 18 in C.a, Agata figlia d’anni 15 in C.a, Gennaro figlio d’anni 8 in C.a, Anastasia figlia d’anni 3 in C.a.

Carlo Guercio d’anni 66 in C.a, Agata Coppola moglie d’anni 53, Fenice Cavarretta nep.te d’anni 11, Domenico nep.te d’anni 9, Catarina nep.te d’anni 6, Tomaso nep.te d’anni 4.

Orazio Scandale d’anni 62 in C.a, Catarina Faraco moglie d’anni 39 in C.a.

Masco Toscano d’anni 40 in C.a.

Franceschina Virardo d’anni 39 in C.a, Fenice Curia figlia d’anni 10 in C.a.

Lucretia Nocera d’anni 64 in C.a.

Catarina Barbiero d’anni 70 in C.a, Maria Rizza figlia d’anni 32 in C.a.

Vittoria Pollaci d’anni 42 in C.a, Andrea figlio d’anni 43 in C.a, Gio: Dom.co figlio 21 in C.a, Catarina figlia d’anni 7 in C.a.

Anna de Curtis d’anni 29 in C.a.

Sig.r Lorenzo de Martino d’anni 18 in C.a, Beatrice de Curtis moglie d’anni 25, Faustina figlia di mesi 3.

Sig.a Felice Giordano V.a Lorenzo Martino, Gio: Dom.co figlio d’anni 20 in C.a.

Giovanna Rizza d’anni 40 in C.a, Gius.e figlio d’anni 12 in C.a, Genn. Figlio d’anni 3 in C.a.

Maria Iannici d’anni 70 in C.a, Clarizia Papaianni figlia d’anni 41, Santo figlio di Clarizia d’anni 11, Rosa figlia d’anni 12 in C.a, Antonia figlia d’anni otto in C.a.

Urzula Bruna d’anni 41 V.a, Teresa figlia d’anni 25 in C.a, Mario figlio d’anni 16 in C.a, Vittoria figlia d’anni 12 in C.a.

Livia Curto d’anni 57 in C.a.

Sig.r Gio: Matteo Maijda d’anni 53 in C.a, Anna Ammannato moglie d’anni 38 in C.a, Anastasia figlia d’anni 20 in C.a, Fenice figlia d’anni 14 in C.a, Franc.a figlia d’anni 10 in C.a, Salvatore figlio d’anni 6 in C.a, Tomaso figlio d’anni 2 in C.a.

Catarina Castagnino d’anni 44 in C.a.”.

Oltre alla rendita incerta di 8 ducati relativa a queste anime, l’arciprete possedeva anche un suo vignale che, tra le annate fertili e quelle infertili, rendeva 18 carlini l’anno, per una somma di ducati  9.4.0. Dedotte da queste entrate, le uscite relative al peso di ducati 4 e carlini 5, rimanevano in beneficio del parroco duc. 5.1.10.[cxxxviii]

 

La traslazione della cappella del SS.mo Sacramento

In tale frangente, la penuria di anime che affliggeva la chiesa matrice, determinò che l’antica cappella del SS.mo Sacramento, la cui erezione si asseriva risalisse all’anno 1500,[cxxxix] fosse traslata nella chiesa dell’Annunziata detta “di fuori”, dove già da qualche tempo, “li pochi antichi che si ritrovano in detta Confraternita del Ven(erabi)le”, avevano preso a congregarsi con altri cittadini in quella sede, dove si stava costituendo un nuovo sodalizio intitolato a San Francesco di Paola.[cxl]

Un passaggio riferito anche dal Mannarino, il quale c’informa che già nel 1714, nella “nuova Chiesa di San Francesco di Paola”, era stata eretta “una arciconfraternità, cioè l’istessa antica del SS.mo Sacramento”, alla quale avevano aderito numerosi i “fratelli del primo Ceto”.[cxli]

Le circostanze di questo passaggio, appaiono meglio descritte in un atto del 14 giugno 1715. In quella occasione, rivolgendosi all’arcivescovo di Santa Severina, il procuratore della confraternita del SS.mo Sacramento di Policastro, “d’antichissimo tempo canonicam.te eretta nella Chiesa Matrice di detto luogo”, faceva presente che, “per il poco numero de Confrati”, da molti anni la confratermita non aveva potuto esercitare le sue funzioni con il dovuto decoro. Faceva inoltre presente che, nella “Chiesa della SS.ma Annunciata detta di fuori”, si trovava la confraternita sotto il titolo “del Glor.o Patriarca S. Fran.co di Paola”, ed alcuni cittadini che inizialmente avrebbero voluto aderire alla “nova fondazione della detta Confraternità”, ora intendevano aggregarsi alla già detta “Confraternità del Venerabile per poter meglio applicarsi al culto della SS. Eucaristia ed all’associazione d’essa a moribondi, che viene prescritta negli statuti della prenominata radunanza nella chiesa della SS. Annunciata”.[cxlii]

Troviamo così in seguito, che la congregazione del SS.mo Sacramento si radunava nella “Chiesa di S. Fran.co di Paula”,[cxliii] risultando filiale dell’arcipretura.[cxliv]

013-policastro

Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, bassorilievo pertinente alla cappella del SS. Sacramento.

 

La chiesa agli inizi del Settecento

Dobbiamo al padre F. A. Mannarino, una descrizione della chiesa parrocchiale di “San Nicolò Maggiore delli Latini”, quando ad essa si trovavano unite le antiche “Parocchie” confinanti di “Sant’Angelo alla Piazza” e “Santa Maria delli Francesi”.

“Quattro son oggi le Chiese Parocchiali. La prima è l’Arcipretale di San Nicolò Maggiore delli Latini fra la Tramontana, e Levante, alla quale stanno unite le Parocchie contermini antiche di Sant’Angelo alla Piazza, e di Santa Maria delli Francesi; nuovamente Architettate due ale e più disposte nelli lati. Qui è la Chiesa Madre, e vi risiede il SS.mo Sacramento colla sua Arciconfraternita e avi a destra la Capella di San Sebastiano Martire primo Protettore della Città, fondata dalla nobilisima famiglia Callea ed arricchita di feudi con un Pio Monte, dove colla sicurtà de’ Pegni d’oro, argento, Rame, e mobili, s’improntano per un’anno danari, senza veruno interesse, lasciato così dal fundatore per aiuto, e sollievo de’ Poveri, Imagini di quell’infinitamente ricchissimo, che per amor nostro lasciò il suo eccelso Celeste Trono, e nacque in braccio alla povertà, e visse da mendico, e Pezzente. Onde io ricordo à Procuratori di detto Monte, che favorissero i Poveri, che rappresentan Cristo, e non facessero venale coll’uso profano il Palrimio de’ Poveri contro la mente del Testatore Pietoso. All’istesso destro Corno in ordine siegono le due Capelle della Visitazione la prima eretta dal Sig.r D. Francesco Ferrari, e l’altra dal fù Dionisio Curtis per legato di Giulio Cesare arciprete, ambedue magnifiche con le di lor Gentilie, e depositi. A sinistra poi vi è un’altra Capella di San Gregorio Papa col Monte delli Maritaggi per le Donzelle povere descendenti del suo Ceppo Mascolino, e Feminino dal fundator Gregorio Bruno, e un consimile monte mantiene la Capella del Venerabil Sacramento, che marita una donzella l’anno, a chi tocca per sorte. E poi siegue l’altra Capella del Santo mio Padovano, costrutta per legato del fù D. Antonio Cantor Riccio. Vi si conserva pure una Reliquia insigne della Pelle del Glorioso Apostolo Bartolomeo, che fù vivo scorticato dà sicarie mani, per cui si costuma fare ogn’anno solenne, e divota Processione e qui vi è un organo delli più nobili della Comarca.”[cxlv]

 

L’unione di San Pietro

Osteggiata dal precedente arcivescovo Carlo Berlingieri (1679-1719),[cxlvi] al tempo del suo successore Nicolò Pisanelli (1719-1731), trovò finalmente compimento l’unione della parrochiale di San Pietro alla matrice di San Nicola. La relazione di quest’ultimo datata 8 maggio 1725, segnala infatti, la presenza di tre parrocchie[cxlvii]  rispetto alle quattro che si evidenziavano in precedenza.

Secondo il Sisca, a seguito di questa unione, alcuni quadri ed altri arredi sacri appartenenti alla chiesa di San Pietro furono trasferiti nella chiesa matrice mentre, ancora ai suoi tempi, il titolo di abbate relativo alla chiesa di Santa Maria di Cardopiano, che era stato trasmesso al parroco di S. Pietro, risultava conferito all’arciprete “pro tempore”.[cxlviii]

In quello stesso anno, poi, la chiesa matrice fu consacrata. Come ricorda una epigrafe posta “nella prima colonna a destra di chi entra” nella chiesa,[cxlix] il 17 giugno, quarta domenica dopo la Pentecoste dell’anno giubilare 1725, tempo in cui era arciprete Jo. Paulo Grano, l’arcivescovo Pisanelli, consacrò la chiesa e l’altare dedicato a San Nicola, includendovi le reliquie dei SS. Martiri Placido e Placida, decretando di celebrare ogni anno, nella stessa domenica, il giorno dedicato alla consacrazione.

014-policastro

Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, epigrafe che ricorda la consacrazione della chiesa e dell’altare maggiore da parte dell’arcivescovo Nicola Pisanelli.

I. M. I. / DIE 17 M.S JUNII DOM.CA IV. POST PENT:EN / ANNI JUBILARIS 1725 IL(LUSTRISSI)M(U)S D(O)M(INU)S D. NI / COLAUS PISANELLI ARCHIEP(ISCOP)US S. SE(VERI)NAE HANC ECCLESIAM, ET ALTARE SUB / TIT.O S. NICOLAI CONSECRAVIT, ET IN / EO SS. MM. PLACIDI, ET PLACIDAE RELIQ.AE / INCLUSIT, CUIUS ANNIV(ERS)ARIUM CONSE / CR(ATI)ONIS EADEM DOM. IV QUOLIBET AN / NO CELEBRARI DECREVIT. / ABB.E D. JO. PAVLO ARCHIP.O GRANI.

Qualche anno dopo nell’altare maggiore della matrice risultava eretto il beneficio di San Domenico della famiglia Venturi, come comincia ad essere documentato in occasione del sinodo del 1730, quando fu chiamato il “Rector Beneficii S. Dominici de Fam.a Venturo in ara majori Ecc.ae matricis cum lib. cerae albae elaboratae”.[cl]

Come riporta il catasto universale di Policastro del 1742,[cli] verso la metà del secolo, la “Chiesa Madre” poteva contare su diverse entrate relative al possesso di alcune terre: la gabella detta “il Corpo di Xpo seu Galeoti”, la gabelluccia detta “Zaccarella”, la gabella detta “li Cancelli”, la gabella nominata “Galtieri”, la gabella detta “il Salito”, la gabella detta “S. Evaristio”, metà della gabella detta “S. Cesario”, la “Rata” sopra le terre dette “Le volte di Leuci”, un vignale in “Manciacardone”, il vignale di “Marra[rello]”, il vignale “in Cro[pa]”, la chiusa di “Cap[uto]”, il vignale detto …, il vignale detto …, la quinta parte …, il vignale “nelli fer[rarelli]”, il vignale in Can[narozza], metà del castagneto “[Fossa di] Natale” ed il vignale “nel Ringo”.

Esigeva inoltre alcuni censi: duc. 4 dal m.co Pietro Antonio Ferrari, duc. 8 dal Rev.do D. Nicola De Martino, duc. 00.72 dal rev.do D. Salvatore Maida, duc. 04.60 dal m.co Fabrizio Scandale, duc. 00.90 per la locazione di una casa e duc. 00.30 per un vignale “nelle Carite”.

I “Pesi” che, invece, gravavano il suo bilancio, erano rappresentati, per larga parte, dagli oneri relativi alla celebrazione di messe, da un canone annuo dovuto al Monte dei Morti e dai diritti che dovevano essere corrisposti all’arcivescovo ed all’arciprete: duc. 10 per n. 100 messe “per l’anima di D. Favaro”, duc. 17,50 per n. 175 messe per l’anima di Tomaso Caccuri, duc. 10 per n. 100 messe “pro benefactoribus”, duc. 5 per n. 50 messe per l’anima di Andrea Ammannito, annui duc. 2 al “pio Monte de morti”, duc. 10 all’arciprete “per il jus al med.mo spett.e”, duc. 4 all’arcivescovo “per la visita”, duc. 2 al “Sacerdote che celebra la messa dell’alba”, ed altri.[clii] L’arciprete era soggetto al pagamento della quarta beneficiale (duc. 9) e del cattedratico all’arcivescovo.[cliii] Sempre attraverso le informazioni contenute nel catasto del 1742, apprendiamo che la “Cappella di S. Antonio eretta dentro la Chiesa Madre”, possedeva: un vignale “nel Molinello”, un vignale “nelle Grofficelle”, la terza parte della gabella detta “La valle della Medica” e le “Castagne del Monacello,[cliv] mentre la “Cappella di S. Sebastiano” possedeva: la gabella di “Comito”, la gabella della Pizzuta per metà, incluso il vignale, il vignale detto “La Destra di Callea”, il vignale detto “L’orto di Callea” ed un vignale “nell’Olivano”.[clv]

 

Una nuova cappella

L’otto febbraio 1742, per la sua devozione verso San Vincenzo Ferreri, il sacerdote D. Gio: Vincenzo Grossi di Policastro, come aveva già richiesto con una sua istanza il 15 novembre 1740, supplicava l’arcivescovo di Santa Severina, affinchè gli fosse concesso di fondare una “Cappellania Manuale, ò sia Benefizio Semplice”, “nel Corno destro della V(enera)b(i)le Chiesa madre di d.a Città, e p(ro)p(ri)o sotto la Cappella di S. Antonio di Padova”, dotandola con le annue rendite di alcuni propri beni stabili ed altro. Data l’avanzata età, chiedeva che si desse l’assenso alla richiesta prima della sua morte.

Come evidenziano i documenti successivi, tale assenso tardò. Il 28 settembre 1743, infatti, il sacerdote era costretto a comparire nella curia arcivescovile, lamentando che, nel passato mese di novembre, erano trascorsi già due anni da quando aveva fondato una “Cappellania Manuale” sotto il titolo di San Vincenzo Ferreri nel “Corno destro” della “Chiesa Mad.e”, vicino la cappella di “S. Ant.o Patavino”, chiedendo che si procedesse alla spedizione dell’editto ed all’erezione dell’altare.[clvi] Quello stesso giorno, l’arcidiacono Joannes Dominico Fiorini, “Provicarius” “cum speciali facultate”, dell’arcivescovo di Santa Severina Nicola Carmine Falconio, emanava l’editto relativo all’erezione della cappellania.

A seguito di ciò si sollevarono i creditori del Grossi, evidenziando così la natura degli ostacoli che si frapponevano alla volontà del sacerdote.

Il 4 ottobre 1743, nella corte arcivescovile, comparivano l’arciprete Gio: Paolo Grano e Nicolò Pancalli di Policastro, esibendo una copia dell’atto con il quale, il 21 agosto 1646, D. Santo de Pace aveva concesso ad Ippolita Cavarretta, vedova del quondam Geronimo de Pace, un capitale di ducati 20 al 10 %, mentre quest’ultima aveva ipotecato tutti i suoi beni ed in specialmodo, un pezzo di terra sito nel distretto di Policastro nel luogo detto “Le Scalille”, come appariva dall’atto stipulato quel giorno dal regio notaro Francesco Cerantonio. Dato che, come erede pronipote, l’attuale possessore dei beni obbligati al suddetto censo annuale, era D. Gio: Vincenzo Grosso, e che costui non aveva mai curato di onorare il debito, i comparenti reclamavano volendo essere soddisfatti del capitale e degli interessi maturati, e chiedevano alla corte di costringere il Grossi al pagamento, concedendo ad essi il possesso del terreno ipotecato e togliendolo dal patrimonio della erigenda cappella di San Vincenzo Ferreri, perché il terreno “non è suo ma d’essi Comparen.ti creditori”.

Lo stesso giorno, nella corte arcivescovile, compariva anche D. Vitaliano Giordano, procuratore della venerabile cappella di San Giacomo di Policastro. Egli, infatti, avendo appreso attraverso l’editto, della fondazione della cappella di San Vincenzo Ferreri da parte di D. Vincenzo Grossi, reclamava i diritti dell’ente amministrato.

In questa direzione gli esibì alla corte una copia dello strumento censuario, attraverso il quale si evidenziava che, fin dal 1667, la cappella di San Giacomo possedeva l’annualità di ducati sette per un capitale di ducati 70, prestato a Gio: Battista Grosso, avo di D. Gio: Vincenzo Grossi, per il quale costui, come erede e possessore dei beni ipotecati in occasione del prestito, era stato più volte sollecitato al pagamento che però non aveva mai voluto onorare, nonostante che, in precedenza, suo zio, il quondam Arcangelo Grossi, al tempo in cui possedeva i suddetti beni, avesse sempre pagato quanto dovuto fino alla sua morte. Il procuratore reclamava quindi, la soddisfazione del debito, sia relativamente al capitale, che agli interessi maturati dal giorno della morte del quondam Arcangelo fino al tempo presente.[clvii]

Nello stesso frangente, nella corte arcivescovile di Santa Severina, compariva anche Sejano Grossi, figlio ed erede del quondam Arcangelo che, avendo appreso attraverso l’editto, della fondazione della cappella di San Vincenzo Ferreri da parte di D. Vincenzo Grossi, suo zio per parte di padre, reclamava i propri diritti. Egli infatti asseriva che i beni con cui si dotava il beneficio, gli spettavano per metà, in quanto costituivano l’eredità di Gio: Battista e Domenico Grossi. Anzi, la possessione del Catuso sita in territorio di Cotronei gli spettava interamente, in quanto era stata comprata dal quondam Arcangelo suo padre.

A questo punto, il fronte dei creditori del sacerdote s’incrinò. Il 14 ottobre 1743, sempre nella corte arcivescovile, comparivano l’arciprete Gio: Paolo Grano, assieme al procuratore D. Giandomenico de Martino, dichiarando di voler donare il proprio consenso affinchè D. Vincenzo Grossi potesse, con il consenso della curia, erigere dentro la chiesa matrice di Policastro una cappella intitolata a San Vincenzo Ferrerio. Ciò “a tenore” dello strumento di fondazione fatto dallo stesso D. Vincenzo, tanto più che il medesimo “per modum elemosinae” e “per una vece”, si era impegnato a pagare alla chiesa matrice ducati 20.

Fermo sulle proprie posizioni, rimaneva invece il procuratore della cappella di San Giacomo. Il 16 ottobre 1743, quest’ultimo compariva nella corte arcivescovile, affermando che, avendo appreso dell’intenzione di D. Vincenzo Grossi di dotare la cappella di San Vincenzo Ferreri, solo con i beni stabili da lui acquistati e non più con quelli ereditari, gravati dalle pretese dei creditori, reclamava opponendosi e chiedendo che la cappella di San Giacomo fosse risarcita del capitale di ducati 70 e degli interessi maturati fin dal 1698 che, fino a quel momento, uniti al capitale, ammontavano a ducati 389, come appariva dal “libro maggiore de conti”.

 

Le condizioni

Nel novembre del 1743 il progetto di D. Vincenzo Grosso non aveva ancora trovato compimento. Dalla copia estratta dagli atti del notaro Marcello Martino di Policastro, apprendiamo che il 15 novembre 1743, presso lo stesso notaro, si costituiva D. Vincenzo Grossi per redigere uno “stromento”. Considerato il fatto che, “da più tempo”, era sua volontà fondare una “Cappellania, seu beneficio semplice come sotto erigenda”, di iurepatronato laicale della sua famiglia e della famiglia Tronca discendente dal Sig. Carlo Tronca, sotto il titolo di San Vincenzo Ferreri, verso il quale nutriva una particolare devozione.

In questa occasione egli stabiliva che la suddetta fondazione, sarebbe dovuta avvenire “con prop.o e particolare Altare, e Cappella costruenda”, dentro la chiesa matrice di Policastro, accanto la cappella di S.to Antonio di Padova, oppure in un’altra chiesa, dove meglio avrebbe avuto piacere, fintanto che fosse rimasto in vita.

Nel documento si specificava che, nel caso la cappella non fosse stata costruita prima della sua morte, sarebbe spettato al primo cappellano da lui stesso nominato, fare questa scelta. Risultano quindi descritti i “Beni Stabili, Semoventi, Case e Crediti” con cui si dotava il beneficio, attraverso un elenco che ricalcava quelli descritti precedentemente. Si passava quindi ad elencare i pesi e le condizioni “senza le quali non avrebbe esso D. Vincenzo eretta e fondata detta Cappellania”.

Tra di essi, in primo luogo, il sacerdote stabiliva che egli stesso sarebbe dovuto essere il primo rettore del beneficio, con il solo peso di celebrare, o far celebrare, dieci messe all’anno per la remissione dei suoi peccati, e che i beni assegnati sarebbero restati nella sua piena disponibilità vita natural durante.

Al secondo punto stabiliva che alla sua morte, sarebbe dovuto diventare rettore D. Tommaso Tronca e, dopo la morte di questi, il chierico D. Ignazio Tronca, suo fratello germano. Sopravvenuta la morte anche di quest’ultimo, la carica di rettore sarebbe dovuta rimanere in perpetuo alla famiglia Tronca discendente da D. Carlo Tronca “suo stretto Amico”. Stabiliva quindi che, essendoci stati in futuro discendenti da leggittimo matrimonio appartenenti alla famiglia Grossi, tanto da parte del Mag. Gio: Battista Grossi, suo fratello, quanto da parte del Mag.co Sejano Grossi, suo cugino, anche questi avrebbero potuto assumere la carica, a patto di essere stato in possesso degli ordini necessari e rimanendo escluso chi fosse già stato rettore al tempo. Solo nel caso che le famiglie Tronca e Grossi si fossero estinte, la nomina del rettore della cappellania sarebbe rimasta nelle mani degli ufficiali della congregazione del SS.mo Sacramento, che si radunava nella chiesa di San Francesco di Paola.

Secondo la volontà del fondatore, nel caso fosse sopraggiunta la sua morte prima del completamento della cappella, D. Tommaso Tronca si sarebbe dovuto preoccupare di finire la costruzione, attingendo alla rendita del beneficio, oppure ai crediti non descritti nello strumento ma che fossero nel frattempo maturati. Oltre a quelli descritti, egli lasciava al beneficio anche tutti i suoi beni che si fossero ritrovati nella sua casa all’atto della morte. Disponeva inoltre, che si dovessero pagare 10 ducati all’anno, vita durante, a Sejano Grossi e che, sempre vita durante, suo fratello Gio: Battista potesse dimorare nella casa d’esso Vincenzo continuando a far uso del “vaso della Spezeria”.

Per la celebrazione della messe in suffragio della sua anima, lasciava cinque ducati all’anno alla chiesa che avrebbe in futuro ospitato la cappella, disponendo che, non ritrovandosi altra sepolura dopo la sua morte, questa si facesse da parte della famiglia Grossi e servisse per sé, suo fratello Gio: Battista ed i suoi leggittimi eredi. Lasciava anche al beneficio la propria parte dell’eredità di sua sorella Elisabetta Grossi, morta “ab intestato”, eredità che al momento si trovava in potere di suo fratello Gio: Battista.

 

L’erezione della cappella

Agli inizi dell’anno seguente, i tempi cominciavano ad essere ormai maturi, affinchè fosse eretta la nuova cappella. Il 23 gennaio 1744, nella corte arcivescovile, compariva D. Vincenzo Grossi, riferendo che “sendosino formati p(er) essa R.ma Curia tutti l’atti necessarii per l’erez.ne della Cappella sotto il titulo di S. Vincenzo Ferrerio”, ed essendosi proceduto, “servatis servandis”, alla pubblica informazione dei beni che costituivano la sua dote, faceva istanza di “devenirsi alla sentenza p(er) ponersi in asecoz.ne ciò che da più tempo hà desiderato, e desidera”. Il 27 gennaio seguente, tale atto veniva notificato all’arciprete Gio: Paolo Grano, a Sejano Grossi ed al procuratore della cappella di San Giacomo che, come controparti, si chiamavano a comparire nella curia arcivescovile, al fine di poter dare esito alla richiesta di erezione.

Il giorno seguente, tutte le controparti comparvero. In relazione ai propri crediti, l’arciprete D. Gio: Paolo Grano chiese che gli si desse termine da parte della stessa corte per comprovare il proprio diritto.

Il procuratore della venerabile cappella di San Giacomo, che aveva già chiesto che si sospendesse l’erezione della cappella fino al soddisfacimento del proprio credito, chiese, inoltre, che alcuni di questi beni non entrassero nella dote e che se anche il detto D. Vincenso, ne avesse alienato alcuni gravati dal detto censo, egli fosse comunque considerato sempre soggetto al suo debito con tutti i suoi averi, anche in considerazione dell’importo della somma dovuta.

In una fede, Sejano Grossi rivendicò la metà dei beni ereditari che suo zio deteneva illegalmente senza titolo alcuno e che gli provenivano da Gio: Battista Grossi comune avo. Egli, quindi, chiedeva che gli fosse restituita la propria metà dell’eredità di suo nonno Gio: Battista, insieme ai frutti maturati, non consentendo che tali beni entrassero a far parte della dote della cappella.

Il 18 marzo 1744, il vicario generale di Santa Severina O. Pitò, intimava a D. Vincenzo Grossi, nonchè all’arciprete Gio: Paolo Grano, a Sejano Grossi ed al procuratore della cappella di San Giacomo, di comparire il 24 marzo seguente in udienza nella curia arcivescovile, al fine di pervenire al decreto di erezione del detto beneficio.

A seguito di ciò, si giunse alla data del 27 aprile 1744, quando D. Vincenzo Grossi comparve d’innanzi al notaro Marcello de Martino di Policastro. In tale occasione, fu stipulato un atto attraverso il quale, il sacerdote, “or che si ritrova vivente”, intese spiegare meglio alcune cose contenute nell’atto di fondazione, aggiungendo alcune condizioni come era sua volontà da più tempo.

In primo luogo, egli ribadiva che la sua fondazione era una “Cappellania manuale de jure patronatus laicorum” delle due famiglie Grossi e Tronca, e che “senza che giammai possa metterci mano, ne l’ordinario del luogo, ne il Sommo Pontefice. Di modoche non si possa prendere abbaglio, se in detta fondaz.ne l’avesse chiamata ancora Beneficio Semplice de jure patronatus laicorum”. A tale precisazione aggiungeva la condizione che, qualora fosse stata eretta in Policastro una colleggiata, la cappellania manuale sarebbe stata ridotta in un canonicato, sempre di “jure patronatus laicorum” delle suddette famiglie, che avrebbero mantenuto il diritto di nominare il canonico. Stabiliva quindi, che seppure avesse precedentemente gravato la cappellania del peso di ducati 10 annui, in favore del magnifico Sejano Grossi sua vita durante, “non dimeno per essersi portato il sud.to mag.co Sejano con atti d’ingratitudine verso esso D. Gianv.o”, revocava ed annullava tale disposizione.

Lo stesso giorno, accogliendo tutte le richieste e le precisazioni di D. Gio: Vincenzo Grossi, il vicario generale di Santa Severina O. Pitò, visto lo strumento di fondazione e di dotazione redatto dal notaro Marcello de Martino, nonché la contumacia delle parti avverse, gli concedeva come fondatore, nonché futuro cappellano e canonico, il patronato relativo alla cappellania manuale di San Vincenzo Ferreri fondato nella chiesa matrice di Policastro, con tutti i privilegi, gli onori e le prerogative, fatti salvi i diritti arcipretali e parrocchiali.[clviii]

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, tela appartenente alla cappella di S. Vincenzo Ferreri.

 

Il terremoto del 1744

A causa delle scosse di terremoto che colpirono i paesi della vallata del Tacina nel marzo del 1744,[clix] la chiesa matrice di Policastro subì danni considerevoli ed in seguito, fu ricostruita in forme più ampie.

Relativamente a ciò, il 30 giugno 1747, attraverso un breve diretto all’arcivescovo di Santa Severina Nicola Carmine Falcone, Benedetto XIV, considerato che Petro Ant.o Ferrari di Policastro, aveva dato una parte della sua casa per favorire la ricostruzione ed il rifacimento della chiesa dopo il terremoto, gli concedeva la facoltà di detenere e di potere aprire una finestra che affacciava all’interno della chiesa, così da poter ascoltare la messa con la propria famiglia. Risultava però stabilito, che la finestra dovesse essere munita di grate, con la dichiarazione che la casa del Ferrari non godeva della immunità ecclesistica.[clx] Precisazione ribadita da una epigrafe che attualmente si conserva frammentaria e parzialmente mutila.

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Petilia Policastro (KR), epigrafe che ricorda la finestra aperta nella chiesa matrice, dalla casa di Petro Antonio Ferrari (foto di Francesco Cosco).

DOMVS HAC D. PETRI AN[TONI] / FERRARI, QVAMVIS ECCLESI[AE] / CONTIGVA EST AD EAM EX / FENESTRAE APERTIONE / ASPECTVM HABEAT, AT [T]AMEN / ECCLESIASTICA IMMVNITATE / NON GAVDET, EX BREVI APOST.CO / A. D. 1747.

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Petilia Policastro (KR), arme della famiglia Ferrari posta all’esterno della chiesa matrice.

In occasione di questi importanti lavori che interessarono l’edificio della matrice, risulta che la disposizione delle cappelle fu mutata.

Nel giugno 1751, Carlo e Tommaso Tronca di Policastro, in qualità di rettori della cappellania manuale di San Vincenzo Ferreri di ius patronato delle famiglie Grossi e Tronca, fondata dal fu Rev.do D. Vincenzo Grossi, si rivolgevano al vicario generale di Santa Severina, chiedendo l’assenso ed il suo beneplacito, affichè il procuratore della chiesa matrice potesse vendere loro la cappella posta in “Cornu Evangelii” della detta chiesa, proprio sopra la cappella di San Sebastiano, per potervi collocare il quadro del santo. Infatti, i richiedenti facevano notare che, “come frà l’altre opre di stucco che si stanno perfezionando dentro la v(enera)bil(e) Chiesa Matrice di d.a Città”, in relazione a quanto stabilito tra il procuratore D. Gio: Domenico de Martino e mastro Gaetano Artesio “stucchiatore”, si stava lavorando sia in “Cornu Evangelii”, sopra la cappella di San Sebastiano, che in “Cornu Epistolae”, sopra la cappella di San Gregorio.

Essi s’impegnavano a pagare in tutto ducati 80, di cui 20 per il luogo e 60 per i lavori necessari, facendo notare che la loro cappella portava alla chiesa madre un’entrata annua di ducati 5, con i quali si pagava la celebrazione delle messe per l’anima del fondatore.

Il 25 giugno 1751, il vicario generale P. Casoppero, disponeva di procedere appena avuto il consenso del procuratore Gio: Domenico de Martino, ed avendolo ricevuto il giorno dopo, concedeva ai richiedenti la cappella per il prezzo convenuto.[clxi]

Pochi anni dopo, nella sua relazione arcivescovile del 1756, lo stesso Nicola Carmine Falcone, riferiva che, grazie alla sollecitudine indefessa del suo procuratore già defunto, il sacerdote D. Joannes Dominico de Martino, la chiesa matrice di Policastro, danneggiata dal sisma, era stata restaurata, ed in ragione della sua frequentazione da parte dei cittadini, era stata ampliata con la costruzione di due nuovi “sacellis” in opera plastica, ornati di marmi e volte. La chiesa era stata dotata anche di un nuovo coro con stalli in forma elegante, mostrando un decoro che la rendeva la degna casa di Dio.[clxii]

La relazione arcivescovile del 1765 prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Antonio Ganini (1763-1795), riferisce che, la chiesa matrice della terra di Policastro, sotto il titolo di “S. Nicolai de Platea”, circa la cura delle anime, definita in una parte dell’abitato circoscritta da confini precisi (“pro districtu ad eam pertinenta”), era retta da D. Salvatore Mayda,[clxiii] arciprete curato e capo di tutto il clero di Policastro, mentre la cura delle cose secolari (“temporalia”) era affidata ad un sacerdote eletto annualmente dal clero.

La chiesa era quindi retta a simiglianza di una collegiata ed in essa convenivano tutti i componenti del clero locale per svolgere le sacre funzioni ed i parroci, che pur amministrando i sacramenti alle loro plebi nelle rispettive parrocchie, in occasione delle celebrazioni solenni, dovevano tutti convenire con gli altri nella matrice. In essa si trovavano sette altari, oltre quello maggiore nel quale si conservava la SS.ma Eucarestia, ed il fonte battesimale con i sacri oli.[clxiv]

Questi ultimi, consacrati in Santa Severina durante un’apposita funzione, erano consegnati ai diversi rappresentanti del clero della diocesi, affinchè potessero essere riposti nelle chiese per servire ad amministrare i sacramenti.[clxv]

A quel tempo, nella chiesa matrice esistevano anche due monti di pietà. Il primo, come riferisce ancora oggi l’iscrizione nella cappella di San Sebastiano, era stato fondato dal quondam reverendo D. Annibale Callea, ed era retto da amministratori ecclesiastici scelti dall’arcivescovo, prestando denaro agli indigenti con la sola cauzione di pegni. Il secondo era quello fondato dal quondam Gregorio Bruno, che dotava le fanciulle oneste del luogo e particolarmente, quelle discendenti dalla famiglia del fondatore. Anche quest’ultimo era retto da un procuratore scelto dall’arcivescovo.[clxvi]

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Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, cappella di San Sebastiano.

“D. ANIBAL CALLEA HVIVS CIVIT. PATRITIVS HANC CAPELLAM CVM PII MONTIS ERECTIONE PROPRIIS REDDITIBVS FVNDAVIT / AB.S SALVAT. ARCHIP. MAIDA NICOLAVS PAR. DE MARTINO ET D. VITVS ROSA PROC. AD HANC FORMAM CONSTRVIRE FECERVNT.”

 

La “Cassa Sacra”

A seguito della morte di Salvatore Maida, defunto nel mese di maggio del 1780, nel febbraio dell’anno seguente, la chiesa arcipretale di Policastro, il cui frutto ascendeva a 24 ducati annui, fu provvista al presbitero Hieronimo Carvelli.[clxvii]

Al tempo in cui questi era in carica, la Calabria centro-meridionale fu colpita dal terremoto del 1783, quando Policastro “fu in gran parte distrutta, e nel resto conquassata”, risultando “parte distrutto, e parte cadente”[clxviii] dopo le scosse del 28 marzo di quell’anno, anche se non sembra che, in questa occasione, abbia subito vittime.[clxix]

A seguito di ciò, per provvedere al riparo dei danni ingenti provocati dal sisma, il 4 giugno 1784, il governo borbonico istituì la “Cassa Sacra”, fondo che incamerò i beni di numerosi enti ecclesiastici che, nell’occasione, furono soppressi allo scopo. Attraverso le liste predisposte in questo periodo che, accanto a tutta una ricca documentazione, si conservano presso l’Archivio di Stato di Catanzaro, dove ebbe sede la Giunta di Cassa Sacra, possiamo conoscere qual era al tempo lo stato dei possessi di diverse chiese del territorio.

Dalla “Lista di Carico Luoghi Pii di Policastro”, sappiamo che appartenevano alla “Chiesa Madre” di Policastro: “Galioti” (d. 106), “Cancelli” (d. 38.00), “Leuci” (d. 36.00), “S. Cesaro” (d. 35.00), “Gualteri venduto d. 946.16”, “Salito” (d. 30.68), “Cepparrone” (d. 32.60), “Marrarelli”  (d. 9.60), “Sebaresti” (d. 18.00), “Mangiacardone” (d. 12.01), “Cannarozza” (d. 0.68), “Chiusa di Caputo” (d. 7.92), “Ferrarelli” (d. 1.50), “Carita” (d. 0.36), “Cervellino” (d. 5.60), “Basilea” (d. 0.36), “S. Caterina vecchia pagati d. 179” e “Pantano (d. 16). Appartenevano alla matrice anche una “Bottega pagato d. 18.50”, ed alcuni censi (d. 28.35), per il totale di una rendita di d. 362.10.[clxx]

Il 6 febbraio 1790, il “Prorazionale” Gian Fran.co Capurro asseriva “che avendo riscontrato le liste di Carico de Luoghi Pii Soppressi, e sospesi del Diparto di Mesuraca, e Policastro”, aveva trovato le seguenti rendite relative alla “Chiesa Madre” di Policastro: d. 1.00 per affitti di bottega, d. 12.85 per censi bullari, d. 14.50 per censi enfiteutici e d. 291.53 per affitti di gabelle.[clxxi]

I “Luoghi e Terreni d’affittarsi, che appartenevano alla Chiesa Mad.e di d.a Città” alla data del 2 agosto 1790, risultavano: “Li Cancelli, Salito, Marrarello, Mangia Cardone, Cannarozza, Carite, Cervellino, S. Catarina vecchia, Pantana”, ed una “bottega sita sotto la casa di D. Carlo Tronca”.[clxxii]

 

La “congrua” dell’arciprete

Le annue rendite “dell’Arcipretura” che si esigevano ancora al tempo dell’arciprete Girolamo Carvelli, sono descritte nello “Stato attuale dell’Arcipretura della Città di Policastro in Calabria ultra colla nota distinta de beni stabili, ed annue rendite di essi, e dell’Emfiteusi che esigge annualm.e”.[clxxiii]

In seguito, tali rendite furono sostituite da una “congrua” con pagamento nel mese d’agosto che, come risulta da un ricorso presentato il 17 dicembre 1793, dallo stesso arciprete, ascendeva a ducati 150, mentre la rendita della sua parrocchia, già dal 22 ottobre 1790, era stata “situata” in ducati 42.31.[clxxiv]

L’arciprete di Policastro continuava a pagare la quarta beneficiale spettante alla Mensa Arcivescovile di Santa Severina, ma per l’anno 1797 tale pagamento era stato bonificato ai parroci ed agli arcipreti della diocesi, in ragione del fatto che dovevasi ancora liquidare loro la “Congrua”.[clxxv]

Questi dati risultano confermati nel “Piano de’ Luoghi Pii, e loro rendita, formato per ordine di Sua Ecc.a Sig.r Marchese di Fuscaldo dal Sig.r Archid.no D. Diodato Ganini Vicario Generale Capitolare di questa Diocesi di S.ta Severina”, redatto il 7 agosto 1796, dove la congrua assegnata al curato della matrice, oltre a comprendere i detti ducati 42:31.1 “in beni stabili propri dell’Arcipretura”, “che attualm.te possiede”, assommava anche ducati 46:86 in “tanti cenzi”[clxxvi] e ducati 60:82.11 in contanti.

A quel tempo, Policastro risultava il “Paese più grande della Diocesi” con i suoi 3459 abitanti, dove esistevano tre parrocchie, tra cui la “Chiesa Matrice” che aveva la cura di 1056 anime, una quota inferiore a quella che detenevano, rispettivamente, San Nicola dei Greci/l’Annunziata (1152) e Santa Maria Maggiore (1251). Essa rimaneva comunque, la chiesa più importante del luogo, dalla quale uscivano “tutte le Processioni di rito” e dove si celebravano “tutte le Feste mobili”, con una rendita di d. 263.06 che, tra i luoghi pii di Policastro, poneva la “Chiesa Madre” solo dietro al monastero degli Osservanti.[clxxvii]

In base alle disposizione del Marchese di Fuscaldo, dalle rendite di questi Luoghi Pii, si sarebbero dovute prelevate le somme necessarie ai lavori di riparo dei danni provocati dal recente sisma, che includevano le seguenti voci di spesa: “Per mantenimento della Cappella del SS. Sacramento d. 50.00. Per la costruzione del Campanile della Chiesa Madre, fintantocchè sarà terminato, annui d. 100.00.”[clxxviii]

 

Affitti e vendite

Come rileviamo dall’inventario dei beni appartenenti ai Luoghi Pii del “Diparto di Policastro e Mesoraca”, compilato il 29 agosto 1796, oltre ad alcuni affitti che maturavano l’otto settembre, giorno della fiera di Mulerà, la “Chiesa Madre” di Policastro esigeva le annualità relative ad alcuni fondi venduti[clxxix] ed un censo enfiteutico:

“Affitti

D. Fran.co Ant.o Venturo per affitto della Gabella d.a Cancelli deve nel dì 8 7mbre d. 28.50

D. Fran.co Poerio per l’affitto del Vignale d.o Ferrarelli deve in d.o dì d. 01.50

D. Pietro Paraco Grani per l’affitto del Vignale d.o Casolino deve in d.o dì d. 05.00

Il sud.o per l’affitto di Sambererati deve in d.o dì d. 18.00

D. Gio: Battista Portiglia per il vignale Pantano deve in d.o dì d. 00.16

Pier Angelo Naturile per Sacco 1 ½ di Fronda del vignale Basilea comune col Conservat.ro deve d. 00.30

Annualità de Fondi venduti

D. Francesco Antonio Venturo per annualità sul Fondo Galeoti venduto per D. 2670 come per Istrumento di N.r Caliò di Catanzaro in data de 24 8bre 1791 deve in d.o dì d. 106.80

D. Nicola Scalise per annualità sul Fondo Salito, come per Istrumento di N.r Lerose a 28 Gen.io 1792 deve in Agosto d. 30.60

D. Pietro Carvello di Nicola per annualità sul Fondo Cipparrone venduto per D. 815 come per Istrum.to di N.r Caliò de 24 8bre 1791 deve in d.o dì d. 32.60

D. Gaetano de Martino per annualità sul Fondo Marrarello venduto per D. 240 come per Istrum.to di N.r Caliò a 3 Marzo 1792 deve in d.o dì d. 09.60

Il sud.o per annualità sul Fondo Mangiacardone, venduto per D. 325 come per Istrum.to di N.r Sgrò di Catanz.ro a 3 marzo 1792, deve come sop.a d. 12.01

D. Michele Ferraro per annualità sul Fondo Cannarozzo venduto per D. 17.29.2, come d’Istrum.to di N.r Caliò a 9 Aprile 1792 deve in d.o dì d. 00.96.6

D. Gio : Battista Portiglia per annualità sul vignale d.a Chiusa di Caputo venduto per D. 198 come per Istrum.to di N.r Caliò a 22 Aprile 1792, deve in d.o dì d. 07.92

Censi Enfiteutici

Salvad.e Rizza per canone sul vignale Cropa deve in’ogni Agosto d. 08.00.”

Sempre relativamente ai “Corpi Stabili Affittati”, la “Chiesa Madre” esigeva anche la metà dell’affitto della gabella “S. Cesario”, comune con la chiesa dell’Annunziata, ed ancora in ragione del possesso comune con la detta chiesa, ma relativamente alle “Annualità de’ Fondi venduti”, la metà della rata annuale che pagava D. Gio: Battista Portiglia, sopra la gabella denominata “Volta di Leuci”.[clxxx]

 

I beni delle cappelle alla fine del Settecento

Alla fine del Settecento, i benefici semplici presenti nella matrice, risultano elencati nella “Platea di tutti i Benefici Semplici, tanto Eccl(esiasti)ci quanto di Juspatronato laicale fondati in questa Città, e Diocesi di S.a Sev.a” (1788).

A quel tempo, la “Semplice laical Cappellania di S. Ant.o de Padua della Fam.a Riccio”, possedeva: “la 3.a parte della gabella di Valle di Coppola, la 3.a parte delle terre di Cursì, seu Volta delli Landri, Valle del Cantore, la destra, e Vignale di Gallari, la destra dell’Olivella, la 3.a parte di Molinello, Grofficelle, e di due Vignali nell’Olivano. Un Castanetello alla Santa Spina” e due capitali, uno di d. 12 ed un altro di d. 6. Sopportava il “Peso di Messe iuxta Redditus alla Rag.e di g(ra)na 15 l’una”.

La “Semplice Cappellania laicale sotto il tit.o della S.ma Visitazione de Jurepatronatus Familiae Ferrari”, ovvero il “Semplice laical Benef.o olim Cappellania della S.ma Visit.e di Iuspatronato della Fam.a Ferrari fondato nell’Anno 1705”, possedeva alcune entrate che gli provenivano: “dalla Manca di Turboli” (d. 07:00), “dalle terre di S. Marco” (d. 06:00), “dal forno” (d. 01:00), “dall’Orticello” (d. 01:00), e da un annuo censo bullare per capitale di d. 50 (d. 02:50), per un totale di ducati 17.50. Sopportava pesi “di messa Cant.ta, e Festa m:e piazza”, pagava un censo di dieci carlini all’arciprete ed il cattedratico alla mensa arcivescovile.

La “Capp.a di S. Vincenzo Ferrerio di Juspatronato della delle famiglie di Grosso, e Tronca”, possedeva: “Una Chiusa di Quercie, e castagne nel luogo d.o Gurrufi”, un “Vignale d.o l’Annunciata di fuori”, “Un altro Vignale nel Ringo, ed un altro nelli Porcili”. Possedeva ancora “due altri Vignali nel luogo d.o le Scalille”, “Quattro Castanetelli nel luogo d.o trentademoni, e Crocetti”, ed “Un altro olivetello venduto alli S.ri Rizzuti, per cui corrispondono Annui Carlini 3:15.” Il beneficio possedeva anche “due Cap(ita)li, uno di d: 15; e l’altro di d: Cinque”, “Una Vigna in Catrivari, ed un’altra nelle Pianette, e di vantaggio tutta l’Eredità del q.m D. Gio: Vincenzo Grosso”. I pesi erano rappresentati dalle “Messe juxta Redditus.” La “Semplice laical Cappellania di S. Greg.o Magno della Fam.a Bruno”, possedeva: “Una Gab.a d.a Vaudino, che rende ogni anno d. 70:00”, mentre i suoi oneri erano rappresentati dal “Peso della Messa Cotidiana d. 36:00”.

La “Semplice laical Cappellania sotto il tit.o di S. Giuseppe de Jurepatronatus Familiae Carvelli”.[clxxxi]

018-policastro

Petilia Policastro (KR), chiesa matrice, tela appartenente alla cappella di San Giuseppe.

 

Notizie ottocentesche

Nel 1810 appartenevano ancora alla “Chiesa Madre”, i fondi: “Cancelli”, “S. Cesario”, “Samberesti”, “Ferrarelli”, “Chiusa di Romei”, “Umbro di Fiorillo” e “Pantano (porzione)”, mentre, in precedenza, erano stati venduti quelli denominati: “Galioti”, “Leuci”, “Gualtieri Cipparrone”, “Marrarello”, “Mangiacardone”, “Cannarozzo”, “Chiusa di Caputo” e “S. Caterina Vecchia”.[clxxxii]

Alla morte di Hieronimo Carvelli, avvenuta nel novembre del 1818, l’arcipretura curata del Comune di Policastro “sotto i titoli di S. Pietro Apostolo e S. Nicolò Pontefice”, il 27 settembre 1820, fu provvista a Nicolò Luchetta, già arciprete della terra di Cotronei, a tenore del real decreto dell’undici gennaio 1820.[clxxxiii]

Nello “Stato de’ Sacerdoti, ed altri Ordinati in Sacris appartenenti all’Arcidiocesi di S. Severina”, compilato il 21 maggio 1826, tra i 18 ecclesiastici di Policastro, che “Sono incardinati tutti alla Chiesa Matrice, ch’è Chiesa parocchiale”, risultava l’arciprete Nicolò Luchetta di anni 47. Parimenti, erano parrochiali anche la chiesa di Santa Maria Maggiore e quella della SS.ma Annunziata, dove esisteva “in qualità di Economo Curato Domenico Giordano, per essere la stessa divenuta Succursale della Chiesa Matrice”.[clxxxiv]

A quel tempo, alcuni degli antichi benefici semplici eretti nella matrice sussistevano ancora, accanto ad altri di più recente istituzione.

Nello “Stato de’ benefici vacanti, e legati pii che si trovano dentro la Chiesa Madre del Comune di Policastro Arcediocesi di S. Severina distretto di Cotrone Provincia di Catanzaro” (1820), questi risultano così descritti:

La cappellania laicale di iuspatronato, sotto il titolo di “Gesù, Giuseppe, e Maria”, fondata il 13 luglio 1773 dal fu D. Giuseppe Carvelli ed ora detenuta dai Sig. D. Francesco Carvelli[clxxxv] ed Antonio Le Rose, che possedeva un castagneto nel luogo detto “li Napoli”.

La cappellania di “S. Gregorio”, detenuta dal Sig. Flavio Bruno, possedeva il fondo detto “D. Prospero” che attualmente era affittato al Sig. D. Vitaliano Venturi. La cappella era stata abbandonata dal detto Bruno “per cui è sprovista di tutto”.

La cappellania laicale di iuspatronato della famiglia Tronca sotto il titolo di “S. Vincenzo Ferreri”, detenuta dal Sig. D. Pantaleone Tronca, possedeva “olivi pianette”, “Più olivi”, “Gelsi Ringo”, “Olivi S. Vincenzo”, “Ort.e Cug.o”, “Querce ed orto”, “Casa Rurale”, “Orto, ed olivi”, “Casa rur.e, querce” e “Castagne” per una rendita totale annua, al netto della Fondiaria, di lire 352.82.

La cappellania laicale di “S. Ant.o di Padova”, detenuta dal sacerdote Sig. D. Filippo Martino, possedeva i fondi “Umbro Polito” in territorio di Mesoraca, “Grofficelle”, “Papardella”, “Castaneto”, “Vignale Olivano” e “Vignale Catrivari”.

La cappella gentilizia sotto il titolo di “S. Dom.co” detenuta dal Sig. D. Bruno Martino, possedeva il fondo detto “Destra S. Dom.co”.

La cappella sotto il titolo della “Madonna delle Grazie”, detenuta dal Sig. D. Francesco Ferrari, con il peso del “Vespero, e Messa solenne ogni due Lug.o giorno della Visitaz.e della Vergine”. Il curato Giuseppe Caruso affermava che “di detta cappella della Madonna nulla ho potuto sapere”.[clxxxvi]

Policastro sigillo arcipretura

Sigillo dell’Arcipretura Curata di Petilia Policastro.

 

Il terremoto del 1905

Agli inizi del Novecento, al tempo in cui era arciprete Salvatore Venneri, assieme a “S. Maria Maggiore” ed alla “S.S. Annunziata”, la “Chiesa Matrice” era una delle tre parrocchie di “Petilia Policastro”, cui apparteneva un territorio definito da confini che abbracciavano anche lo spazio extraurbano.[clxxxvii]

Anche se sappiamo che Policastro fu colpita dal terremoto del 8 marzo 1832, quando ebbe 29 morti,[clxxxviii] non possediamo informazioni circa i danni che questo sisma produsse alla matrice, mentre alcune informazioni emergono relativamente al periodo successivo al terremoto dell’otto settembre 1905, quando risulta documentato che la chiesa si trovava danneggiata, particolarmente nella parte sovrastante il coro.

Il 15 settembre 1910, l’arciprete Salvatore Venneri, scriveva all’arcivescovo in merito ai relativi restauri e “Visto che questo Signor Sindaco non vuole saperne, se non a parole, di procedere ai restauri di questa chiesa matrice” e “non potendo io più sostenere il malcontento del paese”, chiedeva un rapido intervento, attraverso l’erogazione delle L. 500 già assegnate dalla curia, in maniera da scongiurare almeno il pericolo imminente. Egli, inoltre, riferiva che il 27 e 28 agosto scorso, aveva avuto modo di far presente la situazione al prefetto di Catanzaro, evidenziando il “pericolo che sovrasta, specialmente il coro, se dovesse sostenere ancora un altra invernata”, il quale aveva risposto all’arciprete, di procedere ai lavori rimettendo alla prefettura la nota spese in maniera da ottenere “le lire mille già stabilite dal ministero”.

Il 14 marzo 1911, riunitasi l’apposita commissione arcidiocesana e letta la domanda del sindaco di Policastro sig. Luigi Ferrari, dell’arciprete don Salvatore Venneri e del Sig.r Raffaele Sestito, relativa alla spedizione del sussidio di L 500 aggiudicato alla matrice di Policastro, deliberava di inviare la somma per le riparazioni più urgenti.[clxxxix]

 

La chiesa matrice alla metà degli anni Sessanta

Al tempo in cui scrisse il suo volume sulla storia di Petilia Policastro, il Sisca inserì nella sua opera una descrizione dell’interno della matrice:

“In questa Chiesa, che negli atti civili fino al 1808 è detta del Santissimo, oltre alla navata centrale che termina con un’ampia ed artistica abside, furono costruite due navate laterali; quella a sinistra inizia con un altare di marmo di epoca recente della cappellania di S. Vincenzo Ferreri sotto il patronato della famiglia Tronca; segue la cappella di S. Sebastiano con un bell’altare, pure di marmo, e un quadro del Santo Protettore; poi sono altre due cappelle dedicate alla SS. Vergine: l’una della Visitazione, eretta da D. Francesco Ferrari con tomba gentilizia, l’altra della Pietà a cura di Dionigi De Curtis per legato di suo fratello l’Arciprete Giulio, come ancora oggi si legge in un’iscrizione a fianco della scultura: “Iulius et Caesar fixit me / Sanguine Curtis / Qui Praesul Cleri hac / Fulsit in Aede Caput / Me Dionisius en Haeres / Fratrisque superstites / Perficiens auxit mox / Pietate fide.” Nella navata a destra di chi entra, vi era la cappella di S. Giuseppe con un quadro che ora è posto sulla porta della Sagrestia, mentre nella nicchia è stata di recente collocata una statua della Madonna del Carmine. Subito dopo veniva la cappella di S. Gregorio Papa officiata per conto della Civica Comuneria con un Monte di maritaggi (anch’esso finito con la Congregazione di Carità) per le fanciulle povere discendenti dal ramo mascolino e femminile del fondatore Gregorio Bruni. Purtoppo l’altare fu demolito e vi rimane il solo quadro con una sola tela di un certo valore artistico, come anche gli altri di S. Pietro e del Carmine, tutti però, inferiori alla tela raffigurante S. Sebastiano che si ritiene della scuola di Mattia Preti. L’ultima cappella di S. Antonio di Padova, fu fondata per legato e Cantore D. Antonio Riccio ed è finita col cappellano D. Giuseppe Carvelli che fu, poi, parroco dell’Annunziata.”.[cxc]

Ai tempi del Sisca, l’antica “torre campanaria” che sorgeva a fianco della cappella di S. Antonio di Padova, risultava in rifacimento e si stava ricostruendo l’arco “a tutto sesto”, su cui poggiava la sua massiccia struttura quadrata.[cxci]

 

NOTE

[i] Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 126. Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi, C.A.M., Napoli 1957, pp. 43 e sgg.

[ii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 51-53; 60-62; 63-65; 66-70. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 348-350; 354-356. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 146-147; 152-154.

[iii] “Caput  Trigesimo Sextum. Guiscardo apud Regium remanente, Rogerius castra Calabriae expugnat. (…) XXXVI. (…) Dux itaque digressus, in Calabriam veniens, expeditionem solvit: Bugamenses, quos captivos adduxerat, Scriblam, quam desertaverat, restaurans, ibi hospitari fecit. XXXVII. – Anno vero Dominicae incarnationis MLXV Policastri castrum destruens, incolas omnes apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat, adducens, ibi hospitari fecit. Antequem iret versus Panormum, (…) dux et comes Rogerius prius in provincia Cusentii castrum quidem Rogel expugnaverunt et pro libitu ordinaverunt. Eodem anno castrum quoddam, quod Ayel dicitur, in provincia Cusentii, dux oppugnare vadens, per quattuor menses obsedit.”. Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V parte I, p. 47.

[iv] ASN, Fondo Pignatelli Ferrara di Strongoli, fas. 1, inc. 51, f. 1v.

[v] “Ha parimenti il jus arandi nelle terre dette li Cursi di Ginò in territorio di Mesoraca, dalle quali terre, quando si seminano, tanto si percepisce quante tumulate se ne seminano alla raggione di un quarto per ogni tumulata di robba. In quattro anni altro non si è introitato, che solo tumula due di grano, e mezz.o tum.o di orzo, che in danaro sono docati 3:00.” AASS, 24B fasc. 3.

[vi] 04.08.1604. Nel suo testamento, Minica o Minicella Scavino di Policastro, nominava sua erede universale e particolare la nipote Caterinella, figlia di Salvatore Levato, alla quale, tra le altre cose, lasciava una casa terrana posta nella terra di Policastro “che rende alla Abatia di s.to Nicola della piazza un carlino l’anno” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 26-27). 24.09.1626. I coniugi Joannes Dom.co Conmeriati e Caterina Cavarretta di Policastro, permutavano una loro continenza di terre posta in loco detto “li grandinetti”, territorio di Policastro, che rendeva un carlino all’anno al SS.mo Sacramento di Policastro (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 071v-073). 15.02.1638. Tra le robbe che erano appartenute al quondam D. Gio: Fran.co Rocca, vi era una casa consistente in più membri con una “Sala”, quattro “camere” ed uno “loco per il furno”, “con gisterna et orto”, gravata dalla rendita di un carlino all’anno alla chiesa di S.to Nicola “della piazza” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 017v-020). 18.10.1643. Il Rev.o D. Jo: Antonio Leuci di Policastro, vendeva a Marco Nicotera di Policastro, la “Domum dirutam Causa terremotus” che era appartenuta all’olim Gregorio Bruno, posta dentro la terra di Policastro nel convicino della chiesa “Parocchialis” di S.to Nicola “de Platea”, confine il “casalenum” del Rev.o Joannes Thoma Caccurio, la domus degli eredi del quondam Thoma Caruso, la domus di Jo: Dominico Trochani, “Muro coniuncto”, ed altri fini, gravata dall’onere di un carlino all’anno alla “Cappellae Sanctissimi Corporis Cristi” (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 802, ff. 085v-086v). 22.11.1644. Joannes Bernardino Accetta di Policastro, aveva ricevuto dal Rev.o D. Prospero Meo del castro di San Mauro ma, al presente, “incola” “cum Domo” in Policastro, ducati 50 per il prezzo di vendita di una casa posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della chiesa parrocchiale di S.to Nicola “della Piazza”, confine le case che erano appartenute ai Corigliani, le case di Lorenzo Larosa, l’orto degli eredi dell’olim Francischello de Cola, vinella mediante, ed altri fini che, a quel tempo, risultava “deteriorata” a causa “dell’antepassati terremoti”, e che era gravata “imperpetuum”, dall’annuo peso di un carlino alla chiesa parrocchiale di S.to Nicola “della Piazza” (ASCZ, Notaio G.M . Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 124-125). 22.07.1645. Il Rev.o D. Prospero Meo di San Mauro, “hic Policastri Beneficiatus”, vendeva al Rev.o D. Paris Ganguzza di Policastro, la domus posta “in convicinio, et Parocchia” di S.to Nicola “de Platea”, consistente “in tribus divisa membris, cum Cisterna”, confine la domus di Laurensio Derosis, i “Casalena” che erano appartenuti a quelli della “familia de Corigliano”, l’orto di Francisco de Cola, vinella mediante ed altri fini, “cum Onere tantummodo” annuo, di un carlino alla detta chiesa parrocchiale in perpetuo (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 091-093).

[vii] “Que prima caeteris forma, et vetustate praestantior, Matricis titulo gaudet suumque habet Rectorem Archipresbiteri praerogativa insignorem.” AASS, 24B, fasc. 1. Il primato di San Nicola della Piazza, a volte fu contrastato da altri parroci. Il 24 marzo 1655, D. Lelio Scandale di Policastro, parroco e rettore di Santa Maria Magna, faceva istanza e protestava, minacciando di rivolgersi al papa, perché alla detta chiesa non erano stati assegnati, come invece era stato solito nel passato, “Preiti, e Clerici” in numero sufficiente per gli uffici della Settimana Santa e per fare “li sepolcri”, così come invece era in uso alla chiesa arcipretale. In questa occasione, il vicario foraneo rispose al parroco, che i preti ed i clerici avrebbero potuto officiare nella sua chiesa, solo dopo averlo fatto in quella “Matrice” di San Nicola “della Piazza”. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 063-064.

[viii] Nel marzo del 1196, Gimarka, vedova di Johannes Mélèta, assieme ai figli Andrea e Bonos Phèllèos, vendevano a mastro Guillelmo, figlio del quondam mastro Martino, una casa di legno ereditata dal detto Johannes, posta nella terra (άστεως χώρας) di Policastro, in convicino (ένωρίαν) di S. Nicola de Tzagparanoi (Αγίον Νικωλάου του Τζαγπαράνων), ovvero “in s(anc)to nicolao de zapparuni”, confinante ad est con la casa del quondam Leone Koupellos, a ovest con la casa dell’acquirente, a nord con l’akroterio pubblico (άκρωτήριον τώ διμωσιακών) ed a sud con l’abitazione di Marotta Phousara. Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 66-70.

[ix] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, Abbazia di San Giovanni in Fiore, 2001, pp. 047-049.

[x] Guillou A., Les Actes Grecs, cit., pp. 63-65.

[xi] 18.08.1541. “Alla uni.ta de pulic.o et per essa luca Cipparrone sindico have venduto alla regia Corte per ser.o dela regia frabica tt.a 6000 de Calce ad ragione de ducati sedechi lo migliaro condutta in ditta regia frabica per tutto lo mise de ottobro p.imo deli quali have receputo manual.r in parte de quella ducati sexanta sey et tari uno Como appare Cautela fatta per mano de not.o ant.no xillano de Cotroni d. 66.1.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 49v. 03.04.1542. “Ad luca chepperrone m(ast)ro jurato de polic.o have receputo scuti dece, et sono in parte delo legname neces.o delo ponti et porta delo castello de cotroni d. 11.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 5, f. 12. 03.04.1542. “Ad Luca chepparroni mastro jurato de pulic.o consignati scuti deche q.ali so in parti de lo ligname necessario per lo ponte del castello de Cotroni d. 11.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 235v. 02.05.1542. “Alla uni.ta de polic.o et per essa luca chepperroni deputato u(nive)rs(ali) deve dare tt.a 4000 de calce et c.i 30 de pet.a alla p.a r.e conducta ut s(upra) per tutto lo misi de junio.” ASN, Fs. 196 fslo 4, f. 4. 02.05.1542. “Alla uni.ta de polic.o, et per essa luca chepperroni deputato sindico deve dare tt.a Quatt.o mila de calce, et canne trenta de pet.a alla alla retroscritta r.e, condutta ut ret.o per tutto lo misi de junio p.mo, have receputo in parte de pagam.to como appare cautela in potere de not.o gregori melle de Cotroni d. 50.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 5, f. 45. 02.05.1542. “Alla Uni.ta de pulic.o et per essa luca chepparroni deputato sin.co deve dari tt.a 4000 de Calce et Canni 30 de petra alla ditta ragione condutta ut s.a. per tutto lo mese de junio p.o have recep.to in parte de pagam.to Como appare Cautela in potere de not.o gregorio mele de Cotroni d. 50.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 278.

[xii] ASCZ, Notaio Ignoto, Cutro, busta 12, prot. 32 ff. 151-152.

[xiii] 23.01.1607. Joannes Fran.co Circhiono e sua moglie “Virardina Cipparrone”, assieme a “Dianora Cipparone”, madre di detta Virardina, vendevano a Joannes Fran.co Schipano di Policastro, il “casalenum” posto dentro la terra di Policastro, “in convicinio s.te Marie Nove ditte terre” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 007-007v). 12.03.1608. Per consentirgli di pervenire all’ordine sacerdotale, Joannes Fanele di Policastro donava al chierico Marco Ant.o Fanele, suo figlio, la “possessionem arboratam” posta nel territorio di Policastro loco detto “gorrufi”, che era appartenuta a Joannes Fran.co Circhiono “et Berardina Cipparune” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 063v-064). 08.07.1608. “d. Virardina Cipparrone”, vedova del quondam Joannes Fran.co Circhione, assieme a “d. Dianora Cipparrone”, sua madre vedova, vendevano a Joannes Fran.co Schipano, un “Casalenum” posto dentro la terra di Policastro, in convicino della chiesa della “s.me Annuntiate nove” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 088v-089v). 06.03.1609. Nel suo testamento, Fran.co Amannito dichiarava di essere debitore di ducati 7 nei confronti di “dianora Cipparrune” per l’affitto di “Zaccarella” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 161-162v). 26.12.1625. Julia Circhiune di Policastro, vedova del quondam Joannes Faraco, donava a Filippo Faraco, suo figlio, un vignale posto nel territorio di Policastro loco “scardiati”, confine il notaro Jacinto Richetta, i beni di Gio: Fran.co di Rose e “le terre ditte di cipparrone”. Inoltre, donava a detto Filippo, i frutti delle “terre delli chiane di scardiati ditti di cipparrone”, durante la vita di detta Giulia (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 186v-187v). 01.05.1632. Davanti al notaro comparivano Vicensa Amannito di Policastro e Berardino de Franco di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Tra i beni appartenenti alla dote, la futura sposa prometteva anche i ducati 25 concessi da Gorio Bruna, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, che il futuro sposo avrebbe dovuto investire comprando uno stabile sicuro. Di tali ducati 25, ducati 20 li dovevano a detta cappella Gio: Battista Pinello e Gio: Fran.co Fanele, per l’affitto della gabella di “Zaccarella”, appartenuta alla quondam “Dianora Cipparrone” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299, ff. 049v-051). 24.07.1645. Mario Tronga di Policastro, prendeva in prestito dal Rev.o D. Prospero Meo di San Mauro, al presente “incola” e “Beneficiato, cum Domo” in Policastro, 60 ducati al 10 %, cedendo al detto reverendo la propria “parte, et portione” della “Continentia Terrarum” di circa 5 salmate, posta in “districtu” di Policastro loco detto “Zaccarella”, che egli possedeva in comune ed indiviso con Scipione e Marcello Tronga suoi nipoti, confine le terre del dottore Mutio Jordano dette “de Ciarvellino”, le terre del SS.mo Sacramento di Policastro “quae fuerunt de Dominio Cipperronis” ed altri fini (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 093v-096).

[xiv] “… il sacerdote D. Pietro Carvelli comprò per ducati 815 la gabella Cipparrone della medesima Chiesa e Confraternita.” Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 256. Prima del Decennio Francese, risultavano venduti: “della Chiesa Madre: Galioti, Leuci, Gualtieri, Cipparrone, Marrarello, Mangiacardone, Cannarozzo, Chiusa di Caputo, S. Caterina Vecchia”, Ibidem, p. 257.

[xv] AASS, 24B fasc. 3.

[xvi] 21 agosto 1443: “Per alias litteras mandatum fuit Guberto, Episcopo Sancti Leonis, ut de Archidiaconatu ecclesiae Sanctae Severinae, quae est dignitas maior post pontificalem et cui canonice adnextae sunt parochialis ecclesia S. Nicolai de Policastro et s.c. ecclesia SS. Coronatarum Sanctae Severinae, vac. per ob. Nicolai Bartonii Archidiaconi, provideret Guillelmo de Lappadya. Sed cum ipse Guillelmus dubitet de forma canonica suae provisionis, Papa ab omni irregularitate eum absolvit et dictam provisionem apostolica auctoritate confirmat.”. Russo F., Regesto II, 10741.

[xvii] 30 aprile 1455: “Alexandrinen. et Umbriaticen. Episcopis ac Officiali Sanctae Severinae mandat ut parochialem ecclesiam S. Mariae de Francis, S. Severinae dioc., vac. per liberam resignationem factam coram Mattheo de Parisio, laico Cusentin. dioc., Notario, a Nicolao Coppa, Rectore ecclesiae S. Nicolai de Plateis de Policastro conferant Johanni Bovario, dictae dioc. S. Severinae presbytero.”. Russo F., Regesto II, 11377. 6 maggio 1455: “Episcopo Strongulen. mandat ut inquirat de Nicolao Coppa (cfr. 11377), qui se gerit pro presbytero et rectore parochialis ecclesiae S. Nicolai de Platea, terrae Policastri, S. Severinae dioc., et de pluribus accusatur et, si res ita se habeant, ipsum amoveat et dictae parochiali ecclesiae provideat de persona Antonii Contello de Policastro, presbytero dictae S. Severinae dioc.”. Russo F., Regesto II, 11380.

[xviii] ASN, Fondo Ferrara Pignatelli di Strongoli, Prima Parte n.o Busta 51. Il documento è segnalato in Mazzoleni J., Fonti per la Storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, p. 377.

[xix] “R.to da D: Colantonio Galete de Policastro per S(an)to Nicola della piazza di detta t(er)ra per x.a d. 1.1. …”. AASS, 2 A.

[xx] “… questo Clero di Policastro distinto in tutta la diocesi per virtù, per ritiratezza, e portamento sacerdotale ancor’à due dignità; quella dell’Arciprete come capo di tutti; e del Cantore …”. Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[xxi] AASS, 3A.

[xxii] 2 ottobre 1546: “Octavianus de Cittadinis, litterarum aplcrum scriptori, providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai de Policastro, S. Severinae dioc., vac. per cessionem Io. Bernardini Ioffredi, clerici Cusentin.” Russo F., Regesto IV, 19166. 1 dicembre 1546: “Io. Bernardino Ioffredo, clerico Cusentin., providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai, terrae Policastri, S. Severinae dioc., vac. per resignationem Federici Paltroni, clerici Umbriaticen., cui collata fuerat, per ob. Stephani Apa rectoris, de mense augusti ex R.C. def.” Ibidem, 19186. 6 dicembre 1547: “Io. Bernardinus Ioffredus, clericus Cusentin., cui nuper de parochiali ecclesia, archipresbyteratu forsan nuncupato, S. Nicolai de Policastro, S. Severinae dioc., tunc c.m. vac., aplca auctoritate, provisum fuit, presens consensit cessioni gratie huiusmodi in favorem Octaviani de Cittadinis, Litterarum aplrum Scriptoris, cui de illa, cum forsan annexis, provideri conceditur, per supplicationem …” Ibidem, 19304. 16 agosto 1548: “Lucae Antonio Callaia de Policastro providetur de parochiali ecclesia S. Nicolai de Platea de Policastro, S. Severinae dioc., vac. per cessionem Io. Bernardini Ioffredi, clerici Cusentin., cui reservatur annua pensio 15 duc. super fructibus eiusdem.” Ibidem, 19412. 9 ottobre 1548: “Io. Bernardinus Ioffredus, clericus Cusentin. consensit cessioni ecclesiae S. Nicolai de Platea de Policastro, S. Severinae dioc., in favorem Lucae Antonii Callaia de Policastro, qui per Io. Petrum Grandopolum laicum S. Severinae dioc., procuratorem suum, consensit reservationi pensionis annue 15 scut. super fructibus eiusdem ecclesiae praedicto d.no Io. Bernardino, prout in supplicatione …” Ibidem, 19430. 5 novembre 1548: “Io. Bernardinus Ioffredus, clericus Cusentin., cui als annua pensio 15 scut. super fructibus archipresbyteratus S. Nicolai de Policastro S. Severinae dioc., quem Lucas Antonius Callia obtinet, reservata fuit, consensit cassationi et extinctioni dictae pensionis, prout in supplicatione …” Ibidem, 19438.

[xxiii] Ancora durante la prima metà del Seicento, risultano documente le terre o vignale di “Santo Bartolimei”. 15.07.1633. D. Peleo Scillano di Policastro, vendeva al Cl.o Ottavio Vitetta di Policastro, il pezzo di terra della capacità di una tomolata, posto nel territorio di Policastro loco “Andriuli, seu lo muscarello”, confine la gabella detta “de Catanzaro”, le terre degli eredi del quondam Joannes Berardino Blasco, le terre di “Santi Bartoli mei” ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 042-042v). 11.08.1636. I coniugi Joannes Petro Rizza e Hijeronima Scalise di Policastro, vendevano al presbitero D. Parisio Ganguzza di Policastro, la “Continentiam terrarum” della capacità di circa 13 tomolate, posta nel territorio di Policastro loco detto “lo passo delli Straneri”, confine la gabella di Polita Zurla via mediante, “la terra della pizzuta” di detto D. Parisio, il vignale di “San Bartoli Mei”, la gabella detta della Mensa Arcivescovile della città di Catanzaro ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 095v-096v). 22.03.1638. Il R.o D. Parisio Ganguzza di Policastro, vendeva al R.o D. Propsero Meo di San Mauro, il “petium seu continentiam terrarum” di 5 salmate, posto nel territorio di Policastro loco detto “la pezzotella”, assieme alle terre che detto D. Parisio aveva acquistato da Joannes Petro Rizza e figlio, confine il “vallonem qui dicitur di Comito”, le terre di Ippolita Zurlo, “via delli straneri” mediante, il vignale di “Santo Bartolimei”, le terre del Cl.co Ottavio Vitetta dalla parte superiore, la gabella di Camillo Campana, terre volgarmente dette “l’umbro di salusto”, il vignale della R.ma Mensa Episcopale di Catanzaro ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 035-036v).

[xxiv] AASS, 16B.

[xxv] “Policastro è terra Regia, qual’essendo stata venduta dal Conte di S. Severina fù fatta di demanio con l’opra, e patrocinio del Cardinale di S. Severina, è habitata da tre milia anime incirca vi sono quattro chiese parocchiali, e nella matrice è l’Arciprete, e Cantore con venti altri preti, quali per il più vivono delloro patrimonio, et elemosine che ricevono dal servitio delle chiese, e confraternità, …”. ASV, Rel. Lim. 1589. “Policastro è terra Regia habitata da tre milia anime incirca. Vi sono quattro chiese Parocchiali, e nella Maggiore è l’Arciprete il Cantore e vinti altri Preti, quali p(er) il più vivono di loro patrimonio, et elemosine che ricevono dal serv.o delle chiese, e Confratie …”. AASS, 19B.

[xxvi] 09.09.1617, ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 040-041.

[xxvii] In alcuni casi, gli atti riportano anche la dizione “in convicinio, et Parocchia” di S.to Nicola “de Platea”, ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 091-093.

[xxviii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 048-050.

[xxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 57-58.

[xxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 185-186.

[xxxi] 16.08.1617. Dietro la richiesta di Gianni Pettinato, il R.do D. Gio: Filice Oliverio esibiva “uno libro in quarto foglio dove stanno notati le parrocchiani di essa matrice di lui desponsate”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 035v-036.

[xxxii] 08.06.1559: “R.do Arciprete d. Jo: ger.mo gallea”, AASS, 16B. Attraverso un atto del 12.11.1623, sappiamo che il 14.02.1593, D. Gerolimo Callea era ancora l’arciprete di Policastro, ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, ff. 117-118.)

[xxxiii] 5 dicembre 1603 (sic, ma 1604): “Marcello Monteleone, de terra Cutri, providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai de Platea, terrae Policastri, S. Severinae dioc., vac. per ob. Io. Thomae Giordano.” Russo F., Regesto V, 25966. Dicembre 1604: “De parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai de Platea, terrae Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus XXIIII duc., vac. per ob. Io. Thomae Iordani, de mense Septembris def., providetur Marcello Monteleone, clerico diocesano.” Ibidem, 26115. 29 maggio 1605: “Pro Marcello Monteleone, de terra Cutri, confirmatio provisionis de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai de Platea, terrae Policastri, S. Severinae dioc., a Clemente VIII, sub dat. Nonis Decembris an. XIII, per ob. Thomae Giordani, ei concessae.” Ibidem, 26138.

[xxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 058-059.

[xxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 073v-074v, 184-185, 188v-189v, 189v-191.)

[xxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 061 e 071; prot. 289, ff. 033v-034v.

[xxxvii] 16.08.1617. Il R.do D. Gio: Filice Oliverio, vicario foraneo di Policastro ed “economo della chiesa matrice di essa” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 035v-036). 23.09.1617. Tra i Testimoni dell’atto figura D. Gio: Filice Oliverio vicario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 053-054v). L’undici febbraio 1618, “Jo(ann)es Filix oliverius Vicarius for.s Policastri, et dico Roccabernarde”, scrisse l’albarano relativo ai capitoli matrimoniali tra Joannes Laurentio Corigliano di Policastro e Feliciana Scoleri, nel quale risulta tra i testimoni: “D. Jo(ann)e Felice oliverio Capp.no, Vicario, et Archipresbitero” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 081v-083).

[xxxviii] Agosto 1618. “Io. Paulo Blasco providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai della Piazza, oppidi, civ. nuncupati, Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus XXIIII duc.” Russo F., Regesto VI, 28030.

[xxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 292, ff. 008v-009v; Busta 79 prot. 295, ff. 040v-054, 059-060; 093v-094, 154v-155v, 155v-156v; Busta 79 prot. 296, ff. 173v-174v; Busta 79 prot. 297, ff. 025-025v, 135v-136v, 170-172v, 185-186; Busta 79 prot. 298 ff. 046v-047v, 059v-060, 060v-061; Busta 79 prot. 300, ff. 042v-043v, 047v-048, 057-058; Busta 80 prot. 302, ff. 105-106; Busta 80 prot. 303, ff. s.n., 093v-095v, 134-138v; Busta 80 prot. 304, ff. 057-058v; Busta 80 prot. 305 ff. 017v-020, 056-061, 062-062v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 043v-044, 094v-096; Busta 182 prot. 802, ff. 026-027. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 046v-048. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 805, ff. 046-053. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 064-067v.

[xl] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 038v-043v.

[xli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 063-063v.

[xlii] AASS, 26A.

[xliii] 28 gennaio 1653: “Io. Vincentio Natali providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai della Piazza, civ. Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 24 duc., vac. per ob. Franc. Pauli Blasco.” Russo F., Regesto VII, 36931.

[xliv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 048-050. L’assunzione della carica di arciprete da parte di Joannes Vincentio Natale, risulta documentatata da altri atti di questo periodo. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 055-055v; Busta 196 prot. 880, ff. 142-150 e 177-178.

[xlv] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 802, ff. 088v-089v e 108-109v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 048-050.

[xlvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 042v-043.

[xlvii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 802, ff. 078v-084.

[xlviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 008-008v.

[xlix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 143v-144.

[l] ASN, Tesorieri e Percettori Fs. 550/4154 ff. 121-123v.

[li] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 171-17.

[lii] AASS, 16B.

[liii] “per manutenzione dell’orologio D.i 7.” Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 137.

[liv] Ibidem, p. 138.

[lv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 59v-60v; Busta 78 prot. 287, ff. 013v-015, 201-201v, 167v-168; Busta 78 prot. 289, ff. 023v-024v; Busta 78 prot. 291, ff. 101-102, 119-119v; Busta 78 prot. 292, ff. 053v-054; Busta 79 prot. 293, ff. 061v-069; Busta 79 prot. 294, ff. 071-072; Busta 79 prot. 296, ff. 055v-056v, 058-059, 126-127v; Busta 79 prot. 300, ff. 002-002v; Busta 80 prot. 302, ff. 020-020v; Busta 80 prot. 304, ff. 050v-052; Busta 80 prot. 305, ff. 043v-045v; Busta 80 prot. 306, ff. 135-135v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 100-101v; Busta 182 prot. 806, ff. 021-023. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 071-073v; Busta 196 prot. 877, ff. 052v-053; Busta 196 prot. 879, ff. 003-005.

[lvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 117v-119v, 119v-120v, 144v-145v, 155v-156, 158-158v, 189-190v; Busta 78 prot. 287, ff. 019v-020, 027-028, 031v-032v, 034v-035, 063-063v, 085-086v, 093-094v, 104v-105, 106-107, 107-107v, 108-108v, 176-178; Busta 78 prot. 288, ff. 009-011v, 087v-088, 097v-098, 103v-104, 104-105; Busta 78 prot. 289, ff. 002v-002(bis)v, sciolti s.n., ff. 027v-028; Busta 78 prot. 290, ff. 023-025v, 029-030, 102v-103, 120v-121v, 135v-136v; Busta 78 prot. 291, ff. 064-065, 068-073, 092-093, 093-093v, 097v-098; Busta 78 prot. 292, ff. 032-032v, 063-064, 064-064v; Busta 79 prot. 293, ff. 004-006v, 021v-022v; Busta 79 prot. 294, ff. 017v-018, 019-019v; Busta 79 prot. 295, ff. 013v-014v, 040v-054, 058v-059, 167v-168; Busta 79 prot. 296, ff. 017v-018v; Busta 79 prot. 297, ff. 012v-013v, 029-032; Busta 79 prot. 299, ff. 010-011, 011-011v, 044v-045v; Busta 79 prot. 300, ff. 010v-011, 048-049; Busta 80 prot. 302, ff. 041v-043, 044-045; Busta 80 prot. 303, ff. 037v-042, 042v-048; Busta 80 prot. 305, ff. 077-078, 107v-108v; Busta 80 prot. 306, ff. 084-085, 119v-124v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 023-032v, 044-045, 052-053v, 125v-128v; Busta 182 prot. 802, ff. 029v-031; Busta 182 prot. 803, ff. 065-066v; Busta 182 prot. 804, ff. 175v-179. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 009-011v, 046-047, 051-052, 059-060v, 085v-086v; Busta 196 prot. 875, ff. 043-045; Busta 196 prot. 876, ff. 019v-020v, 080-081.

[lvii] ASN, Fondo Ferrara Pignatelli di Strongoli, Prima Parte n.o Busta 51.

[lviii] Il 30.09.1630, davanti alla chiesa matrice, si congregavano i confrati della confraternita di Santa Caterina (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 170-172v). Come apprendiamo da un atto del 11.04.1644, il giorno precedente, al suono della campana, i componenti del clero secolare di Policastro, tra cui l’arciprete D. Gio: Paulo Blasco, si erano congregati all’interno della chiesa matrice, alla presenza del M. Rev.o D. Gio: Antonio Leuci, vicario foraneo di Policastro, per deliberare in merito ad un capitale di ducati 500 dato in prestito ad alcuni particolari (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 031v-043v). Il 12.04.1646, al suono della campana, i RR. preti del clero secolare di Policastro, si erano congregati “in publico parlam.to” nella chiesa “Matrice” di S.to Nicola “della Piazza”, per discutere e deliberare in merito al legato lasciato per testamento dal “già” chierico Gio: Francesco Cerasari (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 805, ff. 046-053).

[lix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 113v-115.

[lx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 119v-120.

[lxi] “Prefata Archiep(iscopa)lis ecc.ia habet tam in Civi.te s(anc)tae s(everi)nae que in omnibus aliis t(er)ris et locis sue diocesis jus mortuorum tam denariorum que luminarium et candelarum”, AASS, 18B.

[lxii] “habet que dicta Archiep(iscopa)lis ecc.ia jus quarte in omnibus aliis ecc.iis et monasteriis quibus sepelliuntur mortui luminarium faciendorum super eis”, AASS, 18B.

[lxiii] “Et habet dicta archiep(iscopa)lis ecc.ia jus sepolture tam de legantibus in sepultures Archiep(iscopa)lis ecc.ie que de decedentibus ab intestatis tarenorum sex”, AASS, 18B.

[lxiv] 17.05.1545: “Da donno Jacobo faraco vic.rio de policastro p(er) dicto Conto ducati cinque tari quatro et grana diece d. 5.4.10”, “Dalo Cap.lo de policastro d. 0.1.10”. 1545: “De donno tonno de pol.tro d. 1.3.0”, “Da lo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 2.0.0. Da lo Sup.a dicto vic.rio per iure mortuorum in alia d. 2.0.0”, “Da donno nicola coriglano de policastro per iure mortuorum d. 0.4.4 ½”. “Dinari reciputi de iure mortuorum de lo predicto anno 1546”: “17 maii Dalo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 2.0.0. 22 junii Da donno nicola curiglano per iure mortuorum d. 1.0.0. 25 sectembris Da donno fran.co curiglano per iure mortuorum et candile d. 1.3.0”. “De lo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 3.0.0”. “Dinari reciputi de iure mortuorum del retroscripto anno 1547”: “Da lo vic.rio de policastro d. 2.0.0”. 1566: “Lo Jus mortuorum de policastro si fa per la ec.a quanto frutta”. AASS, 3A.

[lxv] “1654 Ius mortuorum Policastro sol(vit) per l’Arcip.e carl. 10, per d. Callea carl. 9, per li Communeri carl. 23, e per d. Parisi”. “Da D. Parisio Ganguzza per la rottura dell’Astraco per seppellire il P(ad)re dell’Arcip.te di Polic.o nella Matrice di d.ta Terra d.ti tre d. 3.0.0”. 1654: “Ius sepulturae. Policastro d. 3 per la rottura dell’astraco nella matrice, dove fù sepellito il padre dell’Arciprete”. AASS 035A.

[lxvi] 22.09.1604. Testamento di Minica Cepale di Policastro, nel quale stabiliva che dovesse essere seppellita “nella venerabile chiesa di santo nicola della piazza”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 54v-55). 03.10.1604. Testamento di Elisabetta Corigliano di Policastro, nel quale stabiliva che dovesse essere seppellita “nella venerabile chiesa matrice di santo Nicola della piazza”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 57-58). 27.11.1604. Testamento di Diana Caccurio della terra di Mesoraca, moglie di And.a Caruso, abitante in Policastro, nel quale disponeva di essere seppellita nella chiesa di “santo nicola della piazza” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 223v-224). 18.03.1605. Testamento di Gloria Massa di Policastro, nel quale disponeva di essere seppellita nella chiesa di “santo nicola della piazza” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 231-231v). 28.12.1605. Testamento di Petro Pipino di Policastro, nel quale stabiliva di essere seppellito nella venerabile chiesa di “s.to Nicola della piazza” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81, ff. 2-3). 11.01.1609. Testamento di Laura Taranto di Policastro, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa matrice di S.to Nicola “della piazza” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 159v-160). 15.05.1610. Testamento di Caterina Gerardi di Policastro, nel quale disponeva di essere seppellita nella chiesa matrice di S.to Nicola “della piazza” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 203-203v).

[lxvii] 07.12.1640. Testamento della “Sororis” Laurae Guarano, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, nella sepoltura che avrebbe scelto Delia Callea sua “Cognata” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 002-003). 01.10.1645. Testamento di Anastasia Priola, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del SS.mo Sacramento (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 079-080). 05.02.1652. Testamento di Salvatore Carcello nel quale disponeva di esse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” di Policastro (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 002v-003). 15.03.1652. Testamento di Joannes Dom.co Lamanno de Berardino, nel quale disponeva di essere seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” di Policastro (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 003-004). 21.09.1654. Testamento della vedova Ippolita Cavarretta, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 121-122). 16.01.1655. Testamento di Isabella Schipano moglie di Jo: Dom.co Poleo, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 005-006).

[lxviii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 043v-045.

[lxix] 07.12.1640. Testamento di Joannes Vittorio Fanele, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Nicola “della Piazza”, “nella sepoltura delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 001-002). 03.05.1641. Testamento di Isabella Campana di Policastro vedova del quondam Jo: Dom.co Luchetta, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito “nella chiesa dello SS. Sacram.to” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 010v-012). 23.05.1641. Testamento di Fran.co Lomoio, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Nicola “della Piazza” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 012-013). 27.01.1645. Testamento di Joannes Dom.co Lamanno, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 063-063v).

[lxx] 16.12.1640. Testamento di Julia Lanzo di Policastro, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” nella sepoltura “delle Consoro”. Lasciava al procuratore della Cappella del SS.mo Sacramento grana 25 per la sepoltura (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 004-005). 03.05.1644. Testamento di Feliciana Cavarretta di Policastro moglie di Philippo Schipani, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, nella “sepoltura delle Consoro” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 048v-050). 19.04.1645. Testamento di Narda Calendino, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, nella sepoltura “delle Consoro” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 066-066v). 09.09.1653. Testamento di Lucretia Caruso, nel quale disponeva di essere sepolta nella chiesa del SS.mo Sacramento nella sepoltura delle “Consoro” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 067-067v). 18.01.1655. Testamento della vedova Julia Mazzuca, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, nella sepoltura delle “Consoro” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 007v-008v). 18.05.1655. Testamento della vedova Catharina Coco, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, nella sepoltura delle “Consoro” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 073-073v).

[lxxi] 17.08.1604. Testamento di Rosa Bianchi di Policastro, nel quale stabiliva che dovesse essere seppellita “nella venerabile chiesa di santo nicola della piazza dentro lo coro”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 41-41v) 12.11.1604. Testamento di Andriana de Conte di Policastro, nel quale disponeva di essere seppellita “nella Chiesa del s.mo sacramento dientro lo coro” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 220-220v) 20.05.1605. Testamento di Hijeronimo Zidattolo di Policastro, nel quale disponeva di essere seppellito “dentro lo coro” della chiesa matrice di S.to Nicola della Piazza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 234-234v).

[lxxii] 12.08.1604. Testamento di Vittoria Palatio di Policastro, nel quale stabiliva che dovesse essere seppellita “nella venerabile chiesa di santo Nicola della piazza dientro lo coro dove è sepolta sua nanna”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 40-41). 27.08.1604. Testamento di Vespesiano Zupo di Policastro nel quale stabiliva che, dopo la sua morte, dovesse essere seppellito “nella venerabile chiesa di santo Nicola della piazza et che l’abbiano de sepellire nella sepoltura che se sepelli suo patre”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 45v-46v).

[lxxiii] 17.12.1630. Testamento di Portia Nicotera di Policastro, moglie del q.m magister Filippo Schipano, nel quale disponeva di essere sepolta nella matrice di S.to Nicola “della piazza”, nella sepoltura che avrebbe scelto suo marito (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 188v-189v).

[lxxiv] 19.08.1604. Testamento di Berardina Campana di Policastro, nel quale stabiliva che dovesse essere seppellita “nella venerabile chiesa di santo Nicola della piazza nella Cappella di tutti santi”. Lasciava a monsignore ed al cappellano la loro spettanza (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 42-42v). 09.11.1627. Il Cl.o Joannes Thoma Campana di Policastro, deteneva un suo “benefitio seu Cappella”, “seu oratorio”, posto dentro la matrice di S.to Nicola “della piazza” ed “intitolato sotto il nome di tutti santi”, con il peso di 2 messe la settimana, dotato dagli “antiCessori di esso di Campana” con i seguenti beni: un pezzo di terra posto nel territorio di Policastro loco “la sulleria”, ed un altro pezzo di terra posto nel territorio di Policastro in loco “la pizzuta”, il cui “serv.to” era stato affidato al presbitero D. Joannes Thoma Caccurio. Al presente, non essendo detto Cl.o Gio: Thomaso pervenuto agli ordini sacerdotali e non potendo quindi servire egli stesso le dette ebdommade, le intitolava “per Cappellano di detta Cappella” al detto D. Gio: Thomaso, in maniera che questi potesse affitare le dette terre e disporne di sua volontà, corrispondendogli i frutti e pagando il solito peso annuale al procuratore del Seminario di Santa Severina e “la decima papale” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 168-169).

[lxxv] 30.09.1630. Testamento di Hijeronimo Amannicto di Policastro, nel quale disponeva di voler essere sepolto nella sepoltura di Gorio Bruna posta nella matrice di S.to Nicola “della piazza”. Se questi, invece, non avesse acconsentito, disponeva di essere sepolto nella chiesa di S.ta Caterina, nella sepoltura dei confrati (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 174-175). 05.10.1644. Testamento di Joannes Dom.co Launetto, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Nicola “della Piazza”, nella sepoltura del quondam Gregorio Bruno (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 055v-057). 25.10.1655. Testamento di Catharina Accetta, moglie di Michel’Angelo Benevento, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS.”, nella sepoltura del quondam Gregorio Bruno (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 177-178).

[lxxvi] 24.08.1646. Testamento di Sebastiano Grosso, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Nicola “della Piazza” nella sua sepoltura (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 098v-099v).

[lxxvii] 02.07.1616. Dietro consiglio dell’arcivescovo di Santa Severina, Vespesiano Pantisano confermava, con le stesse condizioni, la donazione nei confronti di D. Gegnacovo de Aquila fatta negli anni passati, quando aveva donato post mortem, con il peso di una ebdommada la settimana, alla cappella del suo “avo” Giulio Lamendolara, intitolata a “Santa Maria dello Reto”, posta dentro la venerabile chiesa matrice di S.to Nicola “della piazza”, la “possess.ne arborata” con più e diversi alberi fruttiferi, posta dentro il territorio di Policastro loco detto “Commeriati”. Possessione che aveva acquistato da diversi particolari con il proprio denaro. Il detto Vespesiano stabiliva che, durante la sua vita, la possessione sarebbe dovuta permenere nel possesso di donno Gegnacovo Durante. Stabiliva inoltre, che se dopo la morte di detto D. Gegnacovo de Aquila, non si fosse ritrovato nessun prete o chierico discendente da Cassandra e da Lica “dellamendolara”, avrebbero dovuto provvedere ad eleggere il nuovo cappellano, i suoi parenti discendenti dalle dette Cassandra e Lica (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 107-109). 15.07.1644. Testamento di Camilla Carcello, vedova del quondam Joannes Antonio Puglise, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to”, “nella sepoltura di mendolara” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 052-053).

[lxxviii] 05.10.1625. Joannes Baptista Callea di Policastro, essendo debitore nei confronti dell’arciprete D. Joannes Paulo Blasco di Policastro, per il “servim.to” di una ebdommada lasciata dal q.m D. Aniballe Callea suo zio che, per 3 anni continui, era stata servita nell’altare maggiore della chiesa di S.to Nicola “della piazza”, cedeva al detto arciprete, il vignale in loco “Santo Cesario” “seu porcili”, territorio di Policastro, che possedeva come erede di suo zio Aniballe, a cui era stato venduto da Andriana Venturio (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 155v-156v). 10.04.1644. Testamento di Joannes Baptista Callea, nel quale disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa del “SS. Sacram.to” nella “sepoltura delli Callei”, dove stava sepolto Aniballe Callea suo zio. Confermava le ebdommade lasciate dai suoi “antecessori di Casa Callea”, lasciate ed ipotecate sopra tutte le sue robbe. Disponeva che subito dopo la sua morte fossero dati ducati 20 al R. Arciprete, ma se fosse comparsa scrittura da parte di detto Arciprete contro il testatore ed i suoi eredi, disponeva di non dargli il denaro. Disponeva che nel caso ci fosse stato impedimento ad essere seppellito nella chiesa del SS.mo Sacramento, fosse seppellito nel monastero di S.ta Maria della Spina nella sua sepoltura (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 046v-048).

[lxxix] 05.04.1633. Il dottor Marco Ant.o Guarano di Policastro, essendo morto suo figlio Fran.co Maria, lo faceva seppellire “loco dipositi”, dentro la chiesa di S.to Nicola “della piazza”, avendo in animo di traferire successivamente il “Caldavero” in un’altra chiesa. L’atto è stipulato “inanti” la detta chiesa di S.to Nicola (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 020). 30.12.1642. La sig.a Ippolita Zurlo, madre del quondam Flaminio Blasco, “inansi la Parochiale Matrice Chiesia di Santo Nicolò della Piazza”, dichiarava che, seppure al presente il “Cadavero” di suo figlio entrava in detta chiesa accompagnato dal clero, “non ostante la detta entrata”, voleva che dopo aver ricevuto i divini offici, fosse seppellito nel monastero di Santa Maria delle Manche, “nella sepoltura di suoi antepassati” (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 131v-132).

[lxxx] 14.05.1604. Nel suo testamento, Minico Pollizzi di Policastro, lasciava carlini 5 al SS.mo Sacramento con la Confratria (ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 7-8). 01.06.1629. Nel suo testamento, il C. Gio: Thomaso Campana di Policastro, dichiarava di dover ricevere ducati 18 da Gio: Fran.co Carnalevare della Roccabernarda e li lasciava al procuratore del SS.mo Sacramento (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 036-037v).

[lxxxi] 06.10.1604. Nel suo testamento, Julia Gerardi di Policastro lasciva al SS.mo Sacramento una tovaglia di tela “accattatizza” bianca lavorata. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 58v-59.

[lxxxii] 01.09.1634. Camilla Fimia di Policastro, vedova del q.m Joannes Matteo de Falco, donava a Ferdinando Cappa di Policastro, durante la vita di detta Camilla, la domus palaziata posta dentro la terra di Policastro nel convicino di S.to Nicola “de platea”. Dopo la sua morte il bene sarebbe andato al SS.mo Sacramento. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 136-136v.

[lxxxiii] 27.08.1604. Nel suo testamento, Vespesiano Zupo di Policastro nominava erede universale e particolare di tutte le sue robbe mobili e stabili “al figlio ò figlia che nascerà”. Disponeva che morendo l’erede senza figli, l’eredità dovesse andare metà a sua moglie Vittoria Grandinetto, mentre l’altra metà si sarebbe dovuta dividere tra “la nuntiata de fora, et il santiss.mo sacram.to” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 45v-46v). In un suo testamento successivo del 15.10.1604, lo stesso Vespesiano Zupo disponeva che suo fratello facesse celebrare in vita, una hebdommada sopra tutte le robbe dell’eredità nella cappella del SS.mo Sacramento. Disponeva inoltre che, dopo la morte del fratello, l’eredità passasse al SS.mo Sacramento che così gli avrebbe fatto celebrare una messa la settimana (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 59v-60v). 14.08.1645. Nel suo testamento, Hijeronimo Romano istituiva erede sua figlia Rosa Romano, assieme a Gianni, Catarina e Diana Misiano suoi nipoti, in eguale porzione. Morendo gli eredi senza discendenti, sarebbero successi la Cappella del SS.mo Sacramento e Giacomo Romano suo nipote. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307 ff. 072v-074; foto 326-327). 17.12.1630. Nel suo testamento, Portia Nicotera di Policastro, moglie del q.m megister Filippo Schipano, istituiva eredi il Cl.o Lupantonio e Isabella Schipano suoi figli. Disponeva che, morendo entrambi senza figli, sarebbe succeduta la Cappella del SS.mo Sacramento che avrebbe dovuto provvedere a far servire una ebdommada la settimana in perpetuo. Lasciava a detta Cappella la metà del suo orto con “gisterna” posto dentro la terra di Policastro, nel convicino di “s.to petro” che possedeva in comune ed indiviso con Paulo Nicotera suo fratello. Lasciava ducati 5: metà alla Cappella del SS.mo Sacramento e metà “alla Cappella della nativita di N. Signore Jesu Cristo altare privileggiato” posto dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 188v-189v).

[lxxxiv] 14.06.1618. Hijeronimo Scandale di Policastro, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, cautelava il notaro Joannes Fran.co Accetta di Policastro al quale, “in platea publica”, mediante l’atto del vicario generale di Santa Severina del 05.03.1618, aveva incantato per la somma di 30 ducati, la “possesionem seu vineam et vinealem” lasciata alla detta cappella dalla quondam Laura Condopoli. Beni posti nel territorio di Policastro, nel loco detto “la petra insellata”. Il detto notaro s’impegnava a pagare alla detta cappella un censo annuo di carlini 30 (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291 secondo ff. 097v-098; foto 012). 16.02.1621. Joannes Dom.co Falcune di Policastro, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento nel presente anno, previo l’assenso arcivescovile, provedeva a mettere all’incanto la domus palaziata del quondam Thomaso Taranto che l’aveva lasciata a detta cappella (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 293 ff. 006v-008). 27.06.1635. Il presbitero D. Joannes And.a Romano, procuratore della cappella del SS.mo Sacram.to, previo assenso della Corte Arcivescovile di Santa Severina, vendeva ad annuo censo al Cl.o Joannes Berardino Accetta di Policastro, il casaleno posto dentro la terra di Policastro, nel convicino di detta Cappella “loco nuncopato vitilli” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 302, ff. 060-061).

[lxxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 289, ff. 012-013.

[lxxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 097v-098.

[lxxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 293, ff. 006v-008.

[lxxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299, ff. 049v-051.

[lxxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 302, ff. 060-061; Busta 80 prot. 303, ff. 111v-112v; Busta 80 prot. 305, ff. 068-069v.

[xc] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 306, ff. 058v-059v.

[xci] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 117-121v.

[xcii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 117-121v; Busta 182 prot. 803 primo, ff. 026v-030.

[xciii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 049-050v; Busta 196 prot. 876, ff. 021v-023; Busta 196 prot. 877, ff. 015v-017v; Busta 196 prot. 878, ff. 002-003v, 014-015v, 059-060; Busta 196 prot. 879, ff. 057-058v, 075-077v, 139-141.

[xciv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 064-065v.

[xcv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 007v-008v e 039v-040v; Busta 79 prot. 297 ff. 062-062v e 167v-168v; Busta 80 prot. 303 ff. 025v-026V; Busta 80 prot. 305 ff. 074v-075v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 163v-164v.

[xcvi] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 117-121v; Busta 182 prot. 802, ff. 109v-111; Busta 182 prot. 806, ff. 016-017.

[xcvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 59v-60v; Busta 78 prot. 287, ff. 167v-168.

[xcviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 026-027; Busta 79 prot. 295, ff. 013v-014v; Busta 79 prot. 298, ff. 077-077v; Busta 80 prot. 304, ff. 099v-100v.  ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 077-079.

[xcix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, ff. 072-073; Busta 79 prot. 295, ff. 071-073; Busta 79 prot. 296, ff. 165v-166v; Busta 80 prot. 302 ff. 104v-105.

[c] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 064-065; ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 086-087.

[ci] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 062v-063v.

[cii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 111v-112v.

[ciii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 068v-070.

[civ] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 017v-018v; Busta 80 prot. 306, ff. 058v-059v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 093v-096 e 181-185v.

[cv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 037-037v; Busta 78 prot. 289, ff. 012-013; Busta 78 prot. 290, ff. 081-082v; Busta 79 prot. 295, ff. 133v-135; Busta 79 prot. 297 ff. 165-166. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 047-049v; Busta 182 prot. 806, ff. 135-137v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 039v-041; Busta 196 prot. 876, ff. 015-015v e 057-058v; Busta 196 prot. 877, ff. 050v-052.

[cvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 009-011; Busta 80 prot. 306, ff. 021v-022; e 025v-027v.

[cvii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 071-073v.

[cviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 039-040.

[cix] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 201v-202v.

[cx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 005v-009; Busta 78 prot. 291, ff. 062-062v; Busta 79 prot. 293, ff. 075v-076v; Busta 79 prot. 296 ff. 162-163; Busta 80 prot. 301, ff. 009-010 e 144v-146; Busta 80 prot. 306, ff. 028-029.

[cxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 298, ff. 041v-042; Busta 80 prot. 302, ff. 044-045.

[cxii] 23.04.1614. Davanti al notaro ed alla presenza del parroco, si costituivano Isabella Ammannito di Policastro, vedova del quondam Silvestro Commeriati e Scipio Lanso di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. La futura sposa prometteva al futuro sposo i diritti che gli competevano relativamente ai ducati 40 sopra “le terre seu gabella di galioti” del SS.mo Sacramento, lasciati dal quondam notaro Antonino Amannito, “Zio Carnale” della futura sposa, così come gli era stato promesso nei capitoli matrimoniali relativi al suo primo matrimonio, dal reverendo donno Joannes Dom.co Catanzaro, a quel tempo procuratore di quella venerabile cappella (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 289 ff. 012-013; foto 257-259). 30.08.1621. Davanti al notaro compaiono Dianora Ammannito, “Virgine in capillo” di Policastro, figlia del quondam Marco Ammanniti, assieme a Joannes Caccurio di Gio: Luise, di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Tra le altre cose, la detta Dianora prometteva al futuro sposo ciò che le spettava in relazione al legato fatto dal quondam notaro Antonino Amannito, per la gabella lasciata alla cappella del SS.mo Sacramento, circa il maritaggio delle femmine della sua famiglia (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 293 ff. 051-052).

[cxiii] AASS, 72A.

[cxiv] 01.05.1632. Davanti al notaro comparivano Vicensa Amannito di Policastro e Berardino de Franco di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Tra i beni appartenenti alla dote, la futura sposa prometteva anche i ducati 25 concessi da Gorio Bruna, procuratore della Cappella del SS.mo Sacramento, che il futuro sposo avrebbe dovuto investire comprando uno stabile sicuro. Di tali ducati 25, ducati 20 li dovevano a detta cappella Gio: Battista Pinello e Gio: Fran.co Fanele, per l’affitto della gabella di “Zaccarella”, appartenuta alla quondam Dianora Cipparrone (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299, ff. 049v-051). 01.04.1634. Davanti al notaro comparivano Isabella Anmannito di Policastro, vedova del q.m Scipione Lanzo, assieme a Joannes Dom.co Berardo di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Joannes Dom.co e Minica Lanzo, figlia di detta Isabella e del detto q.m Scipione. La detta Isabella prometteva i ducati 20 del legato del q.m Alessandro Circhione che doveva ricevere dal SS.mo Sacramento, dei quali ducati 15 per adornare la futura sposa e ducati 5 sopra la casa che aveva comprato da Gianni Caccurio (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301 ff. 054-056).

[cxv] 16.08.1638. Davanti al notaro comparivano il R.do D. Joannes And.a Romano di Policastro ed Antonio de Strongolo di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Antonio e Camilla Romano, nipote del detto reverendo. Appartenevano alla dote, ducati 15 relativi al legato del quondam Alessandro Circhiune che assegnava la cappella del SS.mo Sacramento di cui il detto reverendo era procuratore (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 068-069v). 21.06.1642. Nel suo testamento, Berardina Vallone di Policastro, dichiarava che ducati 15 le erano stati promessi nei capitoli matrimoniali dal procuratore del SS.mo Sacramento (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 020-021v). 27.11.1642. Joannes Berardino Accetta di Policastro, procuratore della venerabile cappella del SS.mo Sacramento di Policastro nel presente anno, vista la copia del decreto della corte arcivescovile di Santa Severina, secondo cui, dietro la richiesta presentata da Caterina Caira, madre di Lucretia Grano, ai coniugi Antonio Cozza della terra di Zagarise e Lucretia Grano, dovevano essere pagati i ducati 15 che, ogni anno, la detta cappella donava “à Donne povere p(er) Causa di Maritaggi”, in virtù del legato di Alessandro Circhione, assegnava ai detti coniugi la detta somma. Considerato però che la cappella non disponeva di denaro “p(er) causa delle fabriche, et spese fatte da essa, et suoi Procuratori p(er) Causa di terrimoti”, ma possedeva soltanto, in virtù di un legato pio fatto dal quondam C. Francesco Cerasaro, “Una Casa, seu Vascio di essa terrana”, posta dentro la terra di Policastro “nel convicino di detta Cappella”, assegnava loro detta casa. Essendo questa stata stimata da “Mastro” Francesco Bruzzise e da Aloisio Vallone, del valore di ducati 18, i detti coniugi s’impegnavno a restituire la differenza di ducati 3 alla cappella (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 117-121v). 10.04.1644. Ai capitoli matrimoniali stipulati tra Julia Mingaccio “Virginis in Capillo”, figlia Marco Mingaccio di Policastro e Vincentio Jerardo de Thoma di Policastro, risulta allegato l’atto dell’11.04.1644, attraverso il quale, Jo: Berardino Accetta, procuratore della venerabile cappella del “ss.mo”, avendo appreso dell’effettuazione del matrimonio, assegnava alla sposa ducati 15 in qualità di “donna povera”, come soleva fare ogni anno (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 026v-030). 16.04.1645. Davanti al notaro comparivano i coniugi Leonardo Greco e Adriana Russo di Policastro, assieme a Lupo Mauro di Policastro, figlio dell’olim Marcello, per la stipula dei capitoli matrimoniali tra Anastasia Greco “Vergine in Capillo, et povera”, figlia di detti coniugi ed il detto Lupo. I genitori della futura sposa le promettevano i ducati 15 che le erano stati assegnati dal procuratore della cappella del “santiss.mo di detta Città” Gio: Berardino Accetta. La somma doveva essere impiegata per l’acquisto di un bene stabile in maniera che, venendo a morire la detta futura sposa senza figli, il Monte dei Maritaggi sarebbe potuto rientrare in possesso del denaro rivalendosi sopra il bene (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 052-057). 03.01.1647. Davanti al notaro comparivano Julia Lanzo di Policastro, madre di Catherina de Maijda, assieme a Salvatore Faraco di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detta Catherina e detto Salvatore. Apparteneva alla dote di ducati 40, la somma di ducati 15 che soleva assegnare la Cappella del SS.mo Sacramento per il lascito del quondam Alessandro Circhione (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 005v-007). 16.12.1648. Davanti al notaro comparivano Leonardo Levato, fratello di Marta Levato “Virginis in Capillo”, assieme a Joseph Ammannato di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detta Marta e detto Joseph. Oltre alla dote, il detto Leonardo prometteva anche ducati 15 che soleva dare la Cappella del SS.mo Sacramento per elemosina e “maritaggi di povere” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 124v-126v). 21.03.1649. Davanti al notaro comparivano la vedova Julia Garrapecta madre di Catharina Sicilia, assieme a Laurenso Caruso di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detta Catharina e detto Laurenso. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della venerabile cappella del SS.mo Sacramento, prometteva ducati 15 per l’elemosina dei maritaggi che detta Cappella soleva fare ogni anno (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 021v-023). 25.02.1652. Davanti al notaro comparivano la vedova Elisabetta Jerardo, madre di Dominica Polla “Vergine in capillo”, assieme a Dom.co d’Adamo “delli Cotronei”, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detta Dominica e detto Dom.co. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, prometteva ai futuri sposi ducati 15 che soleva assegnare la detta Cappella “per maritaggio de poveri” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 015v-017v). 05.01.1653. Davanti al notaro comparivano Prospero Cepale di Policastro e Hyeronimo Poerio, padre di Innocentia Poerio, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Prospero e detta Innocentia. Il detto Hyeronimo prometteva a sua figlia “il Jus che li tocca de maritaggi del Pio monte di S.to Gregorio lasciato dal q.m Gregorio bruno a tempo, che li toccherà”, mentre il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento prometteva ducati 15 per il lascito del quondam Alessandro Circhione, che soleva fare detta Cappella ogni anno “quando li toccherà” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 002-003v). 03.02.1653. Davanti al notaro comparivano la vedova Catherina Suprano, madre di Anastasia Grosso “virginis in Capillo”, assieme a Joannes Dom.co Cavarretta de Masi, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detta Anastasia e detto Joannes Dom.co. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, prometteva ducati 15 che soleva assegnare per maritaggi detta Cappella per legato del quondam Alessandro Circhione (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 014-015v). 01.09.1653. Davanti al notaro comparivano Catharina Ponteri “Virgine in capillo” di Policastro e Dom.co Lombardo di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, per il legato lasciato dal quondam notaro Alessandro Circhione, prometteva ai futuri sposi lo jus dei maritaggi che soleva fare ogni anno la detta cappella, senza pregiudizio per coloro a cui era stato promesso prima (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 059-060). 08.06.1654. Davanti al notaro comparivano Joannes Vittorio de Mauro, padre di Ippolita de Mauro “Virginis in Capillo”, assieme a Thomaso Caruso, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detti Ippolita e Thomaso. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del “SS.”, prometteva ai futuri sposi “l’elemosina” che soleva dare la detta cappella (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 057-058v). 02.08.1654. Davanti al notaro comparivano da una parte, i coniugi Alfonso Vallone e Catarina de Martino e, dall’altra, Marco Tuscano della terra di Mesoraca, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Marco e Maria Venuto “Vergine in Capillo”. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del “SS.”, prometteva ducati 15, in relazione al lascito del quondam Alessandro Circhione (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 075-077v). 19.10.1654. Davanti al notaro comparivano la vedova Marta Converiati, madre di Elisabeth Rotella, assieme a Stephano Ven’incasa della terra di Cutro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detti Elisabeth e Stephano. Il R. D. Parise Ganguzza, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, prometteva ai futuri sposi ducati 15 che soleva assegnare detta Cappella in relazione al legato lasciato dal quondam Alessandro Circhione (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 139-141). 01.04.1655. Davanti al notaro comparivano la vedova Francesca Traijna e suo figlio Andrea Schipano, rispettivamente madre e fratello di Catharina Schipano “Virginis in Capillo”, assieme ad Anbrosio Vercillo del casale di “Paterni” ma “habitante in montespinello”, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detti Catharina e Anbrosio. Pietro Curto, procuratore della cappella del “SS.”, prometteva ai futuri sposi i ducati 15 che soleva assegnare ogni anno detta cappella (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 064-065v). 31.10.1655. Davanti al notaro comparivano Joannes Parente di Policastro e la vedova Livia Castagnino, madre di Vittoria Lopinazzo, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detti Vittoria e Joannes. Pietro Curto, procuratore della cappella del SS.mo Sacramento, in relazione al legato del quondam Circhiune, prometteva i ducati 15 che soleva assegnare annualmente detta cappella per il maritaggio di povere (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 179-180v).

[cxvi] Il pagamento annuale della quarta beneficiale all’arcivescovo di Santa Severina, da parte del parroco di San Nicola di Policastro, risulta documentato anche durante la prima metà del Seicento, come compare il 16 ottobre 1630 dall’“Introito di danari essatti dal Rev.do D. Marco Clarà delle rendite della Mensa Arciv.le”, quando “Il Paroco di Santo Nicola della Piazza di Policastro”, pagò i 3 ducati dovuti e come comapre relativamente alle annualità dei pagamenti degli anni 1654 e 1655. AASS, 035A.

[cxvii] Alla metà del Cinquecento, tra le entrate della chiesa arcivescovile risulta: “Rx.s Archipresbiter … policastri tenetur Comp(arere) personaliter Cum presente Carlenorum tribus d. 0.i.i0”. AASS, 18B.

[cxviii] Sinodo 1564: “R.dus Archipresb(ite)r cap(ito)lum et clerus terrae Policastri cum p(rese)nti carolenorum trium comparvit p(ro) eo et pro cap(ito)lo et solvit presb(iter)o”. Sinodo 1579: “R.s Archip(res)b(ite)r Clerus et Cap(ito)lum T(er)rae Policastri Cum Censu car(olenorum) trium”, comparvero l’arciprete e D. Joannes Pet.o Papaianni “pro Clero”, pagando d. 0.1.10. Sinodo 1581: “R.s Archipresb(ite)r Clerus, et Cap(ito)lum T(er)rae Policastri cum p(rese)nti carolenorum trium”, comparvero l’arciprete e D. Antonuccio Papasodero “pro Clero” e pagarono. Sinodo 1582: “R.s Archipresb(ite)r Cl. et Cap(ito)lum T(er)rae policastri Cum Censu Car.m trium”, comparve e pagò i tre carlini. Sinodo 1584: “Rev.s Archipresb. et clerus Polycastri Cum Censu Carolenorum Trium”, comparve. Sinodo 1587: “R.dus Archipresb. clerus et cap(ito)lum Terre Polycastri cum censu carolenorum trium”, comparve detto arciprete e pagò assieme con D. Joanne Thoma Caccurio “Comunerio”. Sinodo 1588: “R.s Archipresb. clerus et cap. Terrae Polycastri”, comparve e pagò carlini tre. Sinodo 1590: “Rev.s Archip. clerus et cap.lum Terrae Polycastri cum censu Car. trium” comparvero il R.do Hier.o Callea “Archip.” e D. Joannes Pet.o Crogliano “Comuneris”. Sinodo 1591: “R.dus Archipr.s clerus et cap(ito)lum T(er)rae Policastri cum censu carolenorum Trium”, comparve e pagò. Sinodo 1593: “L’Arciprete e clero di Polic.o col p(rese)nto di tre carlini”. Sinodo 1594: “L’Arcip.te et Clero di Polic.o col p(rese)nto di tre carlini” comparve e pagò. Sinodo 1595: “Il R.s Arcip(re)te et Clero di Polic.o con lo prisento di tre Carlini”, comparve e pagò. Sinodo 1596: “Il R.do Arcipreite et Clero di Polic.o con lo prisento di tre Carlinj”, pagò. Sinodo 1597. “R.s Archipresbyter et Clerus t(er)rae Policastri cum Cathedratico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1598: “R.s Archipresbyter et Clerus t(er)rae Policastri cum Cathedratico Carolenorum trium”. Sinodo 1600: “R.dus Archipresb(yte)r et Clerus terrae Policastri cum cathedratico carolenorum trium”, comparve. Sinodo 1601: “R.s Archipresb(yte)r T(er)rae Policastri cum cathedratico carolenorum trium”, comparve con tre carlini. Sinodo 1602: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri cum cathedratico carolenorum trium”, non comparve. Sinodo 1603: “R.dus Archipresbyter t(er)rae Policastri cum cathedratico carolenorum trium”, comparve. Sinodo 1604: “R.dus Archipresb(yte)r terrae Policastri cum cathedratico carolenorum trium” comparve. Sinodo 1605: “R.dus Archipresbiter terrae Policastri cum cathedratico carlenorum trium”, comparve. Sinodo 1606: “R.s Archip(res)b(ite)r t(er)rae Policastri cum cathedratico carulenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1607: “R.s Archipresbyter terrae Policastri et clero Cum Cathedratico Carlenorum trium”, comparvero e pagarono. Sinodo 1608: “R.s Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum Cathedratico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1609: “R.s Archipresbyter Terrae Policastri et clerus Cum Cathedratico Carlenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1610: “R.s Archipresbyter Terrae Policastri et clerus Cum Cathedratico Carlenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1611: “R.s Archipresbyter Terrae Policastri et clerus Cum Cathedratico Carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1612: “R.s Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum cathedratico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1613: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum cathedratico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1614: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum cathedratico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1615: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum cathedratico Carolenorum Trium”, comparve e pagò. Sinodo 1616: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus Cum Catedratico Carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1617: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum catredatico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1618: “R.dus Archipresbyter Terrae Policastri et clerus cum catredatico carolenorum trium”, “Comp.t cler.” e pagò. Sinodo 1619: “R.s Archipresbyter et clerus Terrae Policastri Cum Catredatico carolenorum trium”, comparve e pagò. Sinodo 1634: “Ex Policastro. R.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis – Comparvit Io. Paulus Blascus Archipresbyter et obtulit”, Scalise G.B. (a cura di), Siberene cit., p. 24 e sgg. Sinodo 1635: “Ex Policastro. R.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, offerti da Jo: Paulo Blasco archipresbitero. Sinodo 1636: “Ex Policastro. R.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, comparve il R.o Joannes Paulo Blasco archipresbitero ed offrì tre carlini. Sinodo 1637: “Ex Policastro. R.s Archipresbyter et Clerus cum tribus car.nis”, comparvero il R.o Joannes Paulo Blasco, archipresbitero, ed il presbytero Fran.co Gardo “Com.s”, ed offrirono tre carlini. Sinodo 1638: “Ex Policastro. R.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, comparvero il R.o Joannes Paulo Blasco archipresbitero ed il presbytero Fran.co Gardo “Com.s” ed offrirono tre carlini. Sinodo 1639: “Ex Policastro. R. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, il R.o archipresbitero Blasco offrì detti tre carlini. Sinodo 1640: “Ex Policastro. R. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, non comparvero. Sinodo 1642: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus Carolenis”, il Rev.o Jo: Paulo Blasco “modernus” archipresbitero comparve ed offrì . (26A, parte prima, foto 051). Sinodo 1643: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum Tribus Carolenis”, comparve e non offrì . Sinodo 1644: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus Carolenis”, comparve per esso e per detto Clero lo stesso con mandato. Sinodo 1645: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus Carolenis”, comparve l’archipresbitero Blasco ed offrì. Sinodo 1646: “Ex Policastro. Rev.s Archipresb.r et Clerus cum tribus Carolenis”, comparve per sé stesso ed offrì. Sinodo 1647: “Ex Policastro. Rev.s Archipresb.r et Clerus cum tribus carolenis”, comparve ed offrì l’archipresbyter Blasco. Sinodo 1648: “Ex Policastro. Rev.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, comparve ed offrì. Sinodo 1649: “Ex Policastro. R.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, per sé stesso il R.o Joannes Paulo Blasco. Sinodo 1651: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbiter et Clerus cum tribus carolenis”, per sé stesso offrì l’archipresbitero Joannes Paulo Blasco. Sinodo 1653: “Ex Policastro. Rev.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, il Rev.o Salvatore de Mayda “Comm.rius” offrì. Sinodo 1655: “Ex Policastro. R.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, comparve per sé stesso ed offrì. Sinodo 1656: “Ex Policastro. Rev.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis” comparve per sé stesso ed offrì. Sinodo 1658: “Ex Policastro. R.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”. Sinodo 1661: “Ex Policastro. R. Archipresbiter et Clerus cum tribus carolenis seu librae Cerae”, comparve ed offrì d. 0.1.10. Sinodo 1662: “Ex Policastro. Rev.s Archipresbyter et Clerus cum tribus carolenis”, comparve ed offrì tre carlini d. 0.1.10. Sinodo 1663: “Ex Policastro. Rev.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, non comparve e fu condannato alla terza parte dei frutti del suo beneficio, “jnst.e comparvit, et solvit d. 0.1.10”. Sinodo 1664: “Ex Policastro. Rev.s Archip.r et Clerus cum tribus carolenis”, comparve e pagò d. 0.1.10. AASS, 6A e 26A.

[cxix] “… nell’anno trent’otto del caduto centinaio che successe la sua rovina per quel terribil Terrimoto di tutta la Calabria, accaduto à 27 Marzo nella Domenica delle palme à 21 ora.” Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[cxx] “… la notte seguente, verso le cinque in sei ore, da più orribile terremoto furono abbatute alcune Città, Terre e Castelli (…) Policastro città fu abbattuta dalle fondamenta”. Boca G., Luoghi sismici di Calabria, 1981, p. 220.

[cxxi] “… che Policastro per essere d’alto sito, ed arenoso, fosse il più danneggiato nella Comarca in trecento cinquanta tre tra Templi, Palaggi, e Case atterrati, secondo il Conto di Luzio Orsi.” Mannarino F. A., cit.

[cxxii] “… nell’anno mille seicento trent’otto sol nelle fabriche fu daneggiata in più di quaranta mila docati d’oro, il che appare dalla Relazione che nè fà l’Avvocato Fiscale della Regg.a Provinciale Audienza, delegato della Camera per tall’effetto, e da Sua Eccellenza di Napoli; per li quali danni, e rovine furno concesse à Cittadini cinque anni di franchezze …” Mannarino F. A., cit.

[cxxiii] “… nella parte orientale di detta Città demolita dal Tremuoto del 38.” Mannarino F. A., cit.

[cxxiv] AASS, 37A.

[cxxv] Pesavento A., Clero e società a Petilia Policastro dal Cinquecento al Settecento, www.archiviostoricocrotone.it

[cxxvi] AASS, 37A.

[cxxvii] “Die 20 m.s 9bris 1673 relaxatae fuerunt l(icte)rae Pat.les pro deput.ne Vicarii sive oeconomi Archipresbiteralis Ecc.ae Policastri in personam Rev.s Parochi D. Dom.ci Cepale.” AASS, 4D, fasc 3.

[cxxviii] “In Civitate Policastri est Ecc.a Archipresbyteralis sub titulo Sancti Nicolai Pontificis, quae tribus ab hinc Annis vacat propter tenuitatem reddituum, Curam Animarum exercet Vice Parochus, sed, Deo adiuvante, curabo, ut eidem Ecc.ae Archipresbyteralia uniatur alia Ecc.a Parochialis sub titulo Sancti Petri Apostoli dictae Civitatis; quae propter tenuitatem reddituun etiam vacat. Presbyteri simplices inserviunt dicte Ecc.ae in sollemnioribus diebus festivis tantum; Vivunt in Communi, et inter eos aequali parte distribuuntur onera, et stipendia Missarum pro fidelibus qui legaverunt. (…) Intus Ecc.am Archipresbyteralem est Cappella SS.mi Sacramenti, cui est annexa alia Confraternitas laicalis.” ASV, Rel. Lim. 1675.

[cxxix] AASS, 29A.

[cxxx] “È questa chiesa appunto situata dentro il Circulo della stessa Parocchia immediatamente Posta à mezzo giorno, à differenza dell’altra chiesa dell’Annunziata detta di Fuora, che diroccatasi l’anni passati proprio nel fine del caduto secolo con tutte le sue pertinenze per ordini di Monsig.r Berlingieri è stata mutata di sito, e dà sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città è stata trasportata nell’antica di Santa Maria delli Francesi, che smantellata tutta la vecchia, con nuovo è più bel modello refabricatasi da fondamenti, apparisce più vasta.” Mannarino F. A., cit.

[cxxxi] AASS, 011D fasc. 6.

[cxxxii] AASS, 72A.

[cxxxiii] Agosto 1697: “De parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai, loci Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 50 duc., vac. per ob. Iacobi de Curtis, de mense Maii def., providetur Io. Francisco Scandale, pbro oriundo, approbato in concursu.” Russo F., Regesto IX, 47700.

[cxxxiv] Maggio 1709: “De parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S. Nicolai, loci Policastro, S. Severinae dioc., vac. per ob. Ioannis Francisci Scandalis, de mense iulii praeteriti anni def., providetur Ioanni Paulo Grano, pbro.” Russo F., Regesto X, 51323.

[cxxxv] AASS, 011D fasc. 6.

[cxxxvi] AASS, 24B, fasc. 1.

[cxxxvii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 200.

[cxxxviii] AASS, 24B, fasc. 1.

[cxxxix] Come risulta evidenziato in un breve di papa Pio VI del 10 settembre 1777, mediante cui fu elevata alla dignità di arciconfraternita: “Confraternitas SS. Sacramenti de anno MD in matrici ecclesia S. Nicolai de Platea oppidi Policastri, S. Severinae dioc., canonice, ut asseritur, erecta et subinde in ecclesia S. Francisci de Paula, eiusdem oppidi, translata, ob eius antiquitatem et bonorum operum exercitium, titulo Archiconfraternitas cum omnibus gratiis et privilegiis, decoratur.”. Russo F., Regesto XII, 67117. Il Sisca riferisce che la confraternita del “SS. Sacramento”, “fu aggregata all’Arciconfraternita del SS. Sacramento di S. Maria sopra Minerva in Roma, ad istanza dell’Arcivescovo Santoro”, informandoci che “Resistono ancora all’ingiuria del tempo due pergamene del 1577 in cui si elencano le indulgenze e i privilegi concessi dalla Primaria di S. Maria sopra Minerva alla nostra Arciconfraternita.”. Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 225.

[cxl] AASS, 011D fasc. 6.

[cxli] “In questa chiesa si è posta in piedi una arciconfraternità, cioè l’istessa antica del SS.mo Sacramento eretta nell’anno mille settecento, e quattordici in tempo del mio primo Corso Quaresimale, contribuendovi io le Patern’esortazioni dal Pulpito, à congregarsino con bella unione, e ferverosa Carità sotto il vesillo dell’altissimo umiliato nell’azzomi; e loro l’opra, mentre fur bastevole dette insinuazioni a movere gli animi de’ nobili inclinatissimi ad’opre di splendida Pietà; sicchè con felicissimo riuscimento si trova numerata di fratelli del primo Ceto, e dà loro insignemente beneficiata.” Mannarino F. A., cit.

[cxlii] AASS, 011D fasc. 6.

[cxliii] AASS, 24B, fasc. 1. “Confraternitas SS.mi Sacram.ti, seu Corporis Xpti erecta in dicta Ecclesia S(an)cti Francisci de Paula cum suis sacris, insignibus, et ministris.” ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1765.

[cxliv] “la Congregaz.ne del SS.mo Sacram.to ch’è Filiale dell’Arcipretura”, AASS, 086A.

[cxlv] Mannarino F. A., cit.

[cxlvi] Pesavento A., Clero e società a Petilia Policastro dal Cinquecento al Settecento, www.archiviostoricocrotone.it

[cxlvii] “Policastrum 2820 Animarum Parochi tres gubernant…”, ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1725.

[cxlviii] “Ai giorni nostri di questa chiesa (parrocchia di S.to Pietro nella chiesa di S.ta Caterina ndr.) non rimane che il ricordo in quanto abbattuti i ruderi, l’area è servita per ampliare il Palazzo Municipale con vari uffici. I grandi quadri di S. Pietro e della Vergine del Carmelo, con altri arredi sacri, erano stati portati alla Chiesa Matrice; l’artistico pulpito di noce intarsiato (e forse anche l’organo) alla chiesa di S. Francesco. Il titolo (solamente onorifico) di Abate, trasmesso dalla badia cistercense di S. Maria di Cardopiano al parroco di S. Pietro, è ora conferito all’arciprete «pro tempore»”. Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 201.

[cxlix] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 200.

[cl] AASS, 25A.

[cli] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991.

[clii] ASN, Catasto cit., ff. 70v-71.

[cliii] ASN, Catasto cit., f. 76.

[cliv] ASN, Catasto cit., f. 73v.

[clv] ASN, Catasto cit., f. 70.

[clvi] Nel documento sono elencati i beni stabili e non, sulla cui rendita si fondava il beneficio. “In prius Una Chiusa alborata di quercie, e Castagne nel luogo detto Gorrufi. Più un V(i)g(na)le alborato di Celzi neri sotto le Rupi di q.ta Città nel luogo detto l’Annunciata di fuori. Più un altro V(i)g(na)le alborato di Celzi neri nel luogo detto il Ringo. Più un V(i)g(na)le alborato di Celzi neri, ulive ed altri alberi fruttiferi nel luogo detto li Porcili. Più due altri V(i)g(na)li anche alborati di Celzi neri nel luogo detto le Scalille. Più due altri V(i)g(na)li alborati di Celzi neri ed altri alberi fruttiferi nel luogo detto le Scalille, li med.mi che comprò dalla Ved.a di Tomaso Ceraldi. Più quattro Castanitelli, cioè tre nel luogo detto Trentademone, altro nel luogo detto li Crocetti, uno delli q(ua)li è comune col R.do D. Salvat.e Maijda. Più un olivetello nel Terr.o delli Cotronei comprato da Salvadore Pascale, e poi venduto a Vespasiano Rizzuti, il q(ua)le del prezzo ne corrisponde annui carlini trent’uno, e mezzo. Più un Cap(ita)le di d.ti quindeci colla sua annualità di carlini quindeci sop.a le case di Vespasiano Vivacqua che present.e si possedono da Lucrezia Rizza vedova d’Ant.o Rizza. Più un’altro Cap(ita)le di d.ti cinque colla annualità di carlini cinque sop.a li beni si Salvad.e Grano Colletto, e Sorelle, quali ora si possedono da Gennajo Caruso. Più una Vigna nel luogo detto Catrivare. Più una casa palaziata con casaleno contiguo dove al p(rese)nte abbita il Comp.e. Più una vigna con terre adjacenti pervenuta dall’Eredità Paterna, e Materna, alberate d.e terre di quercie, di olive, nel luogo detto le Pianette. Più alcune terre nel luogo detto le Scalille pervenute come Sop.a. Più una chiusa nel Terr.o delli Cotronei pervenut’anche dall’Eredità come Sop.a, alberata di quercie, olive ed altri alberi fruttiferi, nomata S. Vennera. Più un pezzetto di terre entro il Terr.o di questa Città, nel luogo detto Cerratullo pervenuto dall’Eredità come Sop.a. Più una Camera, e mettà di casa, contigua un’all’altra con alto e bassi, e trappetto di fare oglio, pervenute dall’Eredità come Sop.a. Più un Vaso di Spezeria consistente in tanti Barattoli di Fajenza, lambicco di rame, e due mortari di bronzo a morte però del Mag:o Gio: Batt(ist)a Grossi germano F(rate)llo del Comp.e. Più un Credito di d.ti cinquanta sette deve conseguire il Comparente dall’Eredi del q:m D. Alfonzo Campitelli Seniore per tante messe celebrate nella sua Cappella. Più tutti l’altri beni, che si troveranno esistenti in tempo della morte del Comp.e, inclusi tutti li mobbili, grani pannam.ti, oro, danari, argenti, vini, ogli, ed ogn’altro che vi si trovasse. Finalm.e Capre al num.o di cento cinquanta, le med.e che presentem.e tiene in affitto Pietro La Vigna.” AASS, 24B, fasc. 1.

[clvii] Dalla copia dell’atto in questione, estratta dal suo originale dal notaro policastrese Leonardo Prospero, possiamo leggere che, il 5 giugno 1667, si erano costituiti presso il notaro Francesco Cerantonio, il presbitero Leonardo Riccio, procuratore della venerabile cappella di San Giacomo di Policastro da una parte, e dall’altra, il chierico coniugato Gio: Battista Grosso, Petro Joannes Rizia e Jo: Andrea Morano, tutti di Cotronei, agenti in solido. In tale occasione i beni oggetto dell’ipoteca risultavano così descritti. Gio: Battista Grossi, possedeva due chiuse arborate con sicomori, viti ed altri alberi fruttiferi, poste nel territorio di Cotronei. La prima nel luogo detto “Santa vennera”, la seconda nel luogo detto “lo catuso”. Egli possedeva anche un ortale arborato di sicomori, posto nel territorio di Cotronei “in loco ubi dicitur sotto la taverna”, ed una casa terranea posta nella terra di Cotronei. Pietro Giovanni Rizia possedeva una vigna posta in territorio di Cotronei “in loco ubi dicitur fontana”, mentre Gio: Andrea Morano possedeva una vigna posta in territorio di Cotronei “in loco ubi dicitur la carusa”, ed una continenza di case posta nella terra di Cotronei. AASS, 24B, fasc. 1.

[clviii] AASS, 24B, fasc. 1.

[clix] “… ex ultimis Calabriae Terraemotibus …”, ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1744. Russo F., Regesto XI, 60660, 60674. Scionti V., Galli P., Nuovi dati sulla sismicità della Calabria nei secoli del Viceregno, in Rogerius, anno VIII, N. 2 anno 2005, pp. 65-76.

[clx] 30 giugno 1747: “Archiep.o S. Severinae. Petro Ant.o Ferrari civ. Policastri, S. Severinae dioc., conceditur facultas aperiendi et retinendi fenestram corrispondentem in matrici ecclesia civ. de Policastro, pro cuius constructione et refectione, post terraemotum anni praecedentis, unam partem suae domus concessit, ut ipse et eius familia Sancti Sacrificii Missam audire possit, appositis tamen in ea cratibus lignae et ferrea et cum declaratione quod domus eius contigua immunitate ecclesiastica minime gaudeat.” Russo F., Regesto XI, 61570.

[clxi] AASS, 24B, fasc. 1.

[clxii] “Matricem Ecclesiam oppidi Policastri, à praeteritis pariter terrae quassationibus attritam, sollecitudo indeficiens sacerdotis D. Joannis Dominici de Martino Procuratoris jam defuncti, nedum instauravit, sed oppidani Populi frequentiae illam ampliando exaequavit, duobus novis sacellis plastico opere, lapideisque fornicibus, ornatis adauxit, novumque chorum testudinata, elegantique forma vel ab ipso extructum, stallis expolivit affabre elaboratis, adeo ut eniteat nunc in ea debitus decor domus Dei, ipsaque Caelesti Regi tanquam sponsa cernatur compte parata.” ASV, Rel. Lim. Santa Severina., 1756.

[clxiii] Il 14 dicembre 1743, Benedetto XIV aveva concesso a Salvatore Maida, la dispensa per l’esercizio degli ordini, relativamente al “defectu” del dito pollice della sua mano sinistra. “14 dicembre 1743. Archiep.o S. Severinae. Pro Salvatore Maida, pbro terrae seu loci de Policastro, S. Severinae dioc., dispensatio super defectu digiti pollicis manus sinistrae, ad exercitium ordinum.” Russo F., Regesto XI, 60552.

[clxiv] “Ecclesia Matrix T(er)rae Policastri sub titulo S. Nicolai de Platea regitur circa curam Animarum pro districtu ad eam pertinente per R(everen)dum D. Salvatorem Mayda Archipresbyterum Curatum, et Caput totius Cleri Policastrensis, circa vero temporalia per sacerdotem quotannis deputandum à Clero, eo quia ad instar Collegialis regitur, et in ea conveniunt pro Sacris functionibus peragendis omnes de Clero, etiam Parochi, qui tantum sacramenta administrant suis respectivis plebibus in propria unusquisque Paroecia, sed prò solemnitatibus celebrandis ad Matricem cum aliis accedunt. Septem sunt Altaria in ea erecta praeter majus, in quo SS.ma asservatur Eucharistia, et fontem Baptismalem cum Sacris oleis.”. ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1765.

[clxv] Nel 1697, D. Dom.co Rocca e D. Ferrante Giordano, andavano a Santa Severina per assistere alla funzione della consacrazione “dell’ogli Santi” “quali serbono p(er) la Chiesa Parochiale”. Oli che gli erano consegnati dal R.do tesoriere di Santa Severina. AASS, 010D fasc. 5.

[clxvi] “Mons pietatis pro mutuanda pecunia quibuscumque indigentibus cum sola cautione pignorum. Fundatus per q.m R.dum D. Annibalem Callea, regitur per Administratores Eccl(esiati)cos à me eligendos. Mons pietatis pro Collocandis honestis puellis, et praecipue propinquioribus sanguine q.m Gregorio Bruno fundatori, regitur per Procuratorem à me eligendum.” ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1765.

[clxvii] “febbraio 1781. De parochiali archipresbyteratu nuncupato, oppidi Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 24 duc., vac. per ob. Salvatoris Maida, de mense Maii anni praeteriti def., providetur Hieronimo Carvelli, pbro, I.U.D., in concursu approbato.” Russo F., Regesto XII, 67482.

[clxviii] Vivenzio G., Istoria e Teoria de Tremuoti in generale ed in particolare di quelli della Calabria e di Messina del 1783, Napoli 1783, p. 326.

[clxix] “Policastro, che fu in gran parte distrutta dal temuoto del dì 28 e il restante fu fracassato, ma non morì alcun cittadino”. De Leone A., Giornale e Notizie dè Tremuoti accaduti l’anno 1783 nella provincia di Catanzaro, 1783.

[clxx] AASS, 24B fasc. 3.

[clxxi] ASCZ, Cassa Sacra, Segreteria Pagana, Busta 50, fascicolo 784.

[clxxii] ASCZ, Cassa Sacra, Atti Vari 308/3.

[clxxiii] “Possiede un territorio alberato di quercie nel luogo detto L’Insarco, di circa tumulate otto confinante dalla parte inferiore colle terre delli Sig.ri Martino, e dalla parte sup.e colle terre delli Sig.ri Cajvano, e da di rendita cioè, Oggi che si ritrova dato in semina annui d. 9:00 Quando si da in erba annui d. 3:00 Tra fertile, ed infertile da d. 6:00. Vi sono le gliande le quali non sempre danno frutto, e si pagano annualm.e durante il p(rese)nte affitto ad un carlino il tumolo, e tra fertile, ed infertile giusta la carica donano annualm.e circa d. 1:00. Possiede un altro territorio aratorio nel luogo detto il Feudo Grande, sito entro il Feudo del Sig.r Principe della Rocca d’Aspidi, di circa tt.e tre, e tanto in semina che in erba dona di rendita annui d. 3:00. Possiede un altro pezzo di terra aratoria nel luogo detto la Salinara, confinante alle terre del Sig.r Mannarino dalla parte superiore, e dalla parte inferiore colle terre del Sig.r Portiglia, di capacità di tum.e tre circa, e tanto in semina, che in erba da di rendita annui d. 3:00. Più un altro pezzo di terra aratoria nello stesso luogo della Salinara, sito dentro le terre dello stesso Sig.r Mannarino, di circa tt.e due, e così in semina che in Erba dona di rendita annuale d. 1:50. Possiede un altro pezzo di terra aratoria nel luogo detto lo Salito, di tum.e due circa confine dalla parte superiore colle terre dette di S. Ant.o, e dalla parte inferiore colle terre della Camera Principale, e da di rendita, cioè Oggi che si è dato in erba d. 2:50 Dall’anno venturo che stà dato in semina da in grano tt.a 3 q: 2, in danaro d. 4:20 Tra fertile ed infertile da d. 3.35. Possiede tre altri vignali di terre aratorie nel luogo detto S. Elia, o sia Cropa della capacità di tt.e sei, confinanti dalla parte superiore colle terre del Sig.r Cantore Coco, e colle terre di S. Giacomo, e del Sig.r Rotella dalle parti laterali, da di rend.a cioè Oggi che stanno affittati in Erba d. 3:00 Quando si donano in semina d. 6:00 Tra fertile ed infertile donano d. 4:50. Ha parimenti il jus arandi nelle terre dette li Cursi di Ginò in territorio di Mesoraca, dalle quali terre, quando si seminano, tanto si percepisce quante tumulate se ne seminano alla raggione di un quarto per ogni tumulata di robba. In quattro anni altro non si è introitato, che solo tumula due di grano, e mezz.o tum.o di orzo, che in danaro sono docati 3:00. Enfiteusi. Diviso in anni quattro sono per ogni anno d. 00:75. Esigge dal Sig.r D. Carlo Tronca per Emfiteusi annuale sopra l’Aricella d. 04:60. Dal Sig.r D. Michelangelo Ferrari per Emfiteusi annuale sopra la Gabella di Campana d. 00:50. Dalli Sig.ri Scandale per Emfiteusi annuale sopra la Gabella delli Jeni d. 01.20. Sono in tutto d. 29:40 Decima e jussi di stola 36:00 totale 65:40. Possiede d.a Arcipretura un altro pezzetto di terra nel luogo detto Sabaristi sito entro la terra del Sig.r D. Michelangelo Ortale della capacità di tumolate tre, della quale in anni quattro, niente si è percepito dal presente Arcip.e anticam.e dava di rendita carlini diece annui. Possiede un altro pezzetto di terra nel luogo detto Attalione confine alle terre delli Sig.ri Cajvano per una parte, ed a quella del R.do Clero dall’altra, della capacità di tumolate tre, le quali da più tempo si sono ritrovate occupate, ed attualm.e niente si esigge; anticam.e davano di rendita annui carlini sette. Vi è poi un Abbadia annessa a d.a Arcipretura sotto il Titolo di S. Maria di Cardoplano, e possiede un Territorio alberato di castagne di circa tum.e quattro, la terra è libera, ed ogni cittadino può seminarla perché comune, e dalle castagne ne percepisce il d.o Arcip.e come Abbate annui d. 4:50.” AASS, 24B fasc. 3.

[clxxiv] AASS, 24B fasc. 3.

[clxxv] “dovrebbe anche la Menza esigere le quarte beneficiali da seg.ti Par.ci, ed Arcip.ti, ma si è sospesa l’esaz.ne, dovendosi liquidarese nell’assegnam.to della Congrua à Parrochi stessi fatta siano state loro tali quarte beneficiali bonificate” “Dall’Arcip.te di Policastro d. 9”. AASS, 82A.

[clxxvi] Le partite di censi assegnati all’arciprete di Policastro “dalla Cassa Sacra in oggi abbolita”, ascendevano a d. 46:18, mentre altri ducati 31:00, “furono assegnati sopra alcuni vignali propri della Parocchia di S. Pietro, unita all’Arcipretura” (AASS, 086A.): Da Bruno Donato, e per esso d’Antonino Caccuri di Policastro per canone “sopra li casaleni contigui alla chiesa di S. Fran.co”, oggi si pagano da Antonino Pace, annui d. 3:50; Da D. Ant.o Coco ed Elisab.a Pasquale per canone “sopra altri casaleni in d.o luogo” annui d. 1:50; Da Vito, figlio ed erede di Luca Ierardo per canone sul “casaleno nel luogo detto il Palazzo” annui d. 0:84; Da Paolo figlio ed erede di Dom.co Milea per canone “sopra un altro casaleno in d.o luogo” annui d. 1:24; Da Dom.co di Paola e per esso da Tomm.o Curto, per canone sopra “un altro casaleno in d.o luogo, oggi da D. Pietro Ierardo” annui d. 0:60; Da Fran.co Raymondi e per esso da Gaetano Gangale per canone “sopra un altro casaleno in d.o luogo” annui d. 0:60; Da Vittoria Rotella per canone sopra il vignale detto “Spinello” annui d. 2:10; Da Ant.o Madia per canone sopra “i celsi del Ringo” annui d. 5:40; dalla cappella di “S. Giacomo” per canone sopra “la destra del Mortilletto” annui d. 4:00; Da D. Carlo Tronca per capitale di ducati 200, annui d. 5:00; Dallo stesso per capitale di ducati 80, annui d. 4:00; Dallo stesso per capitale di ducati 35, annui d. 1:75; Da Onofrio Mannarino per capitale di ducati 20 “pagava 1:68 poi li fu bassato d.o censo, paga oggi” annui d. 1:00; Da D. Clemente Madia ed altri eredi di Angelo Madia per capitale di ducati 40, annui d. 2:00; Dal Sig. Antonino per capitale di ducati 90, annui d. 4:50; Dallo stesso per capitale di ducati 43, annui d. 2:15; “vignali liquidati dalla Cassa Sacra, propri della Parocchia di S. Pietro” annui  d. 31:00” (AASS, 24B fasc. 3).

[clxxvii] AASS, 086A.

[clxxviii] AASS, 24B fasc. 3.

[clxxix] Alcune di queste vendite sono ricordate anche dal Sisca: “Il 12 luglio 1791 D. Domenico Galati, di Belcastro, quale amministratore della Cassa Sacra, vendette al Sig. G. B. Portiglia due porzioni (40 tomolate) del fondo Volta di Leuci, appartenente alla Chiesa Madre (cappella del SS. Sacramento) per il prezzo di ducati 1233, grana 35, cavalli 6; più un vignale detto di Caputo (estensione tre tomolate) appartenente alla Confraternita del Sacramento per il prezzo di D.i 125.” “Il 9 aprile 1792, per rogito del notaro Caliò di Catanzaro, D. Michelangelo Ferrari” comprò alcuni fondi, tra cui “Cannarozza (porzione della Chiesa matrice) per ducati 17.29.” “Il 17 luglio 1795, per il medesimo Notaro, D. Antonio De Martino acquistò … la gabella Galioti della Chiesa Madre (o cappella del Sacramento) per ducati 2670; il sacerdote D. Pietro Carvelli comprò per ducati 815 la gabella di Cipparrone della medesima Chiesa e Confraternita.” Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 255-256.

[clxxx] “S. Cesario Gabella comune con la Chiesa Madre per la metà di q.o Luogo Pio, affittata a D. Leonardo Carvello per d. 75 che maturano in mulerà d. 37.50.” “Il Sud.o per annualità sop.a la Gabella d.a Volta di Leuci, venduta per ducati 1800, che tiene detto Luogo Pio comune colla Chiesa Madre per rata spettante a q.o sud.o Luogo Pio deve nel venturo Aprile d. 36.00.” AASS, 24B fasc. 3.

[clxxxi] AASS, 72A.

[clxxxii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 257.

[clxxxiii] 27 settembre 1820: “Nicola Luchetta, I.U.D., archipresbytero terrae Cotronei, providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, oppidi Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 23 duc. cum incertis 60, vac. per ob. Hieronimi Carvelli, de mense novembri 1818 def.” Russo F., Regesto XIII, 71651. 02.02.1831: L’ “Arcp.e Curato” Niccolò Luchetta, certificava di trovarsi nel pacifico possesso della “Arcipretura Curata di Policastro sotto i titoli di S. Pietro Apostolo e S. Nicolò Pontefice” del Comune di Policastro, a tenore del real decreto dell’11.01.1820. AASS, 053A.

[clxxxiv] AASS, 24B fasc. 2.

[clxxxv] 8 marzo 1854. “Archiepiscopo S. Severinae. Francisco Carvelli, terrae Policastri, S. Severinae dioc., conceditur ad decennium administratio beneficii iurispatronatus suae familiae, ex rescripto Congr. Conc.” Russo F., Regesto XIV, 77744.

[clxxxvi] AASS, 24B fasc. 2.

[clxxxvii] “Chiesa Matrice. Dalla parte di nord-est a partir dalla porta Giudaica, la parte di sinistra scendendo su la rotabile che va Cutro fino al ponte di Tacina. Anche comprende la parte di sinistra seguendo la strada rotabile che mena a Mesoraca, fino a contrada Santo Francesco inclusive. Dal ponte di Tacina della strada rotabile (estremo limite) risalendo verso Nord, giunge all’altro ponte del detto fiume Tacina presso Cotronei. Di là, ritornando verso il paese, comprende tutte le contrade chiuse nei su detti limiti avvertendo che appartengono alla Chiesa matrice tutte quelle che si trovano dalla parte sinistra della rotabile fino al Ponte Gallina dove l’una e l’altra parte appartiene alla Chiesa Matrice.” AASS, 034B.

[clxxxviii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 247.

[clxxxix] AASS, 034B.

[cxc] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 199-200. La chiesa attuale è descritta da Filottete Rizza: Un patrimonio d’arte nella chiesa di Petilia, Il Crotonese n. 71/1998.

[cxci] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 200.

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Il convento dei frati minori osservanti di Isola intitolato a Santo Nicola

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Isola Capo Rizzuto (KR), in evidenza il monastero di Santo Nicola.

“Subba Santu Nicola mina ventu/ la naca d’oro e le corde d’argentu/ mina lu ventu e li fa spampinari/ d’oru e d’argentu la fa straluciri”.

Il convento di Santo Nicola era situato su un pianoro collinare in luogo ameno e ventilato. Esso era dominante sulla città di Isola, dalla quale non era molto distante.

 

Il giardino di Santo Nicola

In un ”Inventario” di documenti riguardanti la mensa vescovile di Isola vi sono tre atti riguardanti il giardino di Santo Nicola. Dalla loro concisa descrizione sappiamo che il giardino entrò in pieno possesso del vescovo di Isola Annibale Caracciolo nel 1584, dopo una vertenza con il barone di Isola Antonio Ricca. L’anno dopo il vescovo ampliò il possesso del giardino per la donazione fattagli da Donna Camilla Pagliaro. Nessun documento fa riferimento alla donazione fatta dal vescovo al monastero di Santo Nicola.[i] Sempre il vescovo di Isola possedeva il vicino comprensorio di terre dette il corso di Santa Barbara, dove era situata la chiesa omonima.[ii]

 

La chiesa di Santo Nicola de Cruno

L’esistenza di un luogo di culto dedicato a Santo Nicola de Cruno vicino alla chiesa di Santa Barbara è documentata fin dal periodo normanno. Il re Ruggero II nel 1145 confermò ed ampliò a Luca, vescovo di Isola, i privilegi già concessi dal duca Ruggero. In questa occasione furono enumerate le proprietà della chiesa e descritti i loro confini. Da questo documento, tramandatoci in copia, troviamo richiamate alcune chiese dedicate a Santo Nicola, che erano sotto giurisdizione vescovile: San Nicola di Salica, San Nicola di Vermica, San Nicola de Cruno e San Nicola di Massanova.

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Isola Capo Rizzuto (KR), processione della Madonna Greca.

Per quanto riguarda l’oggetto di questo studio, particolarmente importante è la posizione della chiesa di Santo Nicola di Cruno. Questa e la vicina chiesa di Santa Barbara costituiscono i punti di confine settentrionali della proprietà vescovile, che si estendeva sulla pianura, che dalla cattedrale arrivava alla collina, dove sono situate le due chiese (“… deinde ascendit ad fondamenta Sanctae Barbarae et post haec venit ad Santum Nicolaum de Cruno ubi est pars septemtrionalis, ad huc deinde venit, via et ferit in catusis, quae sunt versus partem occidentis, et deinde descendit via, quae vadit ad vadum cupi …”).[iii]

 

Origine del convento

Secondo il Fiore il convento dei frati minori osservanti di Isola intitolato a Santo Nicolò fu fondato con Bolla di papa Sisto IV nell’anno 1478.[iv]

Di questo convento non abbiamo ulteriori notizie, anche se a ricordo rimase la chiesa di San Nicola. È certo che un nuovo convento di frati minori osservanti, dedicato sempre al santo, fu “fundatum… constructum et fabricatum” nella città di Isola nella seconda metà del Cinquecento.

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Arme del vescovo Annibale Caracciolo (1562-1605).

Nella “Relatio status ecclesiae Insulan.” dell’anno 1600 si legge che il monastero fu fondato “pro sua divotione, et pro augendo divino cultu”, dal vescovo Annibale Caracciolo nel 1588. L’edificio, costruito e dotato a spese del vescovo nella chiesa di Santo Nicola, alla fine del Cinquecento non era ancora stato completato, esso era situato lontano dalla cattedrale e dal borgo.

“Adest monasterium sub titulo Sancti Nicolai ab ipso moderno Ep.o duodecim iam anni pro sua devotione et pro augendo divino cultu fundatum et propriis impensis constructum et fabricatum, quod dedit fratribus minoribus reformatis S. Francisci de Assisio et licet non sit perfectum adsunt necessaria pro complenda fabrica”.[v]

In una relazione del Seicento si legge che “Il convento … fu principiato per palaggio di Monsignor Annibale Caracciolo Vescovo di detta città, qual poi fu dato per Convento alli PP. Reformati, e poi alli frati dell’Osservanza da 60 anni in circa perché non se trova scrittura nessuna della sua fundatione”.[vi] Si deduce che il vescovo aveva costruito un suo palazzo accanto alla chiesa ed al giardino di Santo Nicola, ritenendo il luogo più salubre della città e lontano dalla marina, infestata dai Turcheschi. In seguito aveva donato il tutto ai frati.

Anche se ancora in costruzione il monastero è già attivo alla fine del Cinquecento. Nella visita effettuata nel 1594 alla diocesi di Isola dal decano catanzarese Nicola Tirolo, troviamo che il “Rev. dus Donnus Nicolaus de Leone Decanus Cathedalis” è addetto alla amministrazione economica del monastero, egli infatti ha l’incarico di “Proc.r Monasterii S.ti Nicolai”.[vii]

 

Il Seicento. Crisi economica. Terremoti. Liti.

Il monastero dei frati minori osservanti, era stato costruito nella chiesa di San Nicola vescovo, che era anche il patrono della città. Il luogo religioso nei primi decenni del Seicento era abitato da otto frati ed era particolarmente amato dai cittadini, i quali lo arricchirono con elemosine “per tante messe”[viii] e beni.[ix]

Unico convento esistente nella diocesi di Isola, sarà abitato di continuo da sei o sette frati, tra i quali vi erano quattro sacerdoti, che quotidianamente celebravano nella loro chiesa.[x]

Al tempo del vescovo Francesco Biblia (1631-1633) in un “Apprezzo” del feudo di Isola così è descritto il convento: “… In oltre fora detta Città per distanza d’un miglio è un convento de frati Zoccolanti, reformati di Santa Vita osservantissimi della Regola, la loro Chiesa è bella, e con comoda habitatione e con giardino. Il Convento ha un cenzo, e per la Confessione l’aria istessa di detto convento reposto migliore di quella della Città, per star in alto e sollevata, et posta a venti, e si chiama l’ecclesia preditta di S. Nicolò …”.[xi]

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Isola Capo Rizzuto (KR), in evidenza il monastero di Santo Nicola.

Dopo una prima fase positiva, sia economica che religiosa, seguì nella seconda metà del Seicento un periodo di decadenza. Situato lontano “à Civitate et à suburbio”, il convento è abitato da pochissimi frati, i quali non osservano la regola.[xii]

“Per medium milleare à moenibus distans conspicitur in clivo Monasterium unicum fratrum Minor. S.ti Francisci de observantia sub invocatione S.ti Nicolai, in quo solent commorari quatuor vel quinq. fratres”.[xiii]

Come anche altri conventi dello stesso ordine, situati vicini (Crotone, Policastro, Casabona e Cariati), dovette subire danni dai terremoti, specie quello del 1638. Allora fu inviato il frate Antonio da Scigliano a visitare i luoghi religiosi della zona. Egli aveva ampia facoltà di vendere ed alienare tutti i pochissimi beni del convento (terreni, case e rendite da legati) e di utilizzare il denaro per la sacrestia e l’edificio conventuale.[xiv]

In seguito seguì la sorte dei vicini monaster i dell’Osservanza. “Per li lochi, et Monasteri della provin.a s’intendono dell’altri scandali et mali governi per li q.li si perde, anzi è persa la devot.ne, et li populi manchano dalla solita charità. In tanto che per essere la Regola rilassata tanto, che tutta quasi la provin.a si desidera il castigo per le cose passate alli delinq.ti et la Riforma per le cose future, la q.le Riforma si deve per serv.o di N.S. Iddio”.[xv] La crisi economica ed il pericolo turco colpiscono duramente le campagne, dove sono situate le chiese fuori le mura: “Adsunt circa dictam Civitatem multae ecclesiae quasi dirutae, et sic discopertae, nempè ecclesia S.ti Basilii, Sancti Francisci, Sancti Antonii, Sanctae Barbarae, et nonnullae aliae …”.[xvi]

 

Economia del Convento

I frati avevano poche terre composte da un vignale e da un orto. All’interno del convento vi era poi una cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, la quale possedeva alcune capre, che dava in fitto. Il pagamento era fissato al tempo della fiera di Mulerà ed era parte in ducati e parte in “ciarvelli”.[xvii] Il convento inoltre affittava parte del giardino e delle terre con pagamento in denaro.[xviii]

La situazione sia economica che religiosa non mutò come evidenziano le relazioni dei vescovi di Isola della fine del Seicento e dei primi decenni del Settecento: “… habet sub titulo S. Nicolai, ubi degunt fratres Minores S. Francisci de Observantia nuncupati; sed qua Regulae observantia, qua populi aedificatione, Deus novit”.[xix]

 

Una lunga lite con il vescovo di Isola

Spesso i frati danno scandalo ed entrano in lite con il vescovo di Isola. I frati furono occasione di una aspra lite, che oppose l’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri (1679-1719) ed il vescovo di Isola Francesco Marino (1692-1716). Il vescovo accusava i frati di aver occupato alcuni beni della sua mensa e di ostacolare la sua giurisdizione sul convento.

In una supplica inviata alla Congregazione dei Vescovi, il vescovo di Isola fa presente che “volendo fare la Visita Apostolica del Convento de’ Padri di minore osservanza della med.a Città dell’Isola, non essendovi de’ Padri il numero sufficiente, secondo il Decreto della sa: mem: d’Innocenzo Decimo; li si oppose Vincenzo Infusino Arcidiacono di Santa Severina, come preteso conservatore di detti Padri con Lettere Monitoriali, Citationi, e pene comminate per impedirgli la Visita; onde l’Or.e dichiarò Juris ordine servato, scommunicato d.o Arcidiacono, in vigore della Bolla in Coena D.ni contrà usurpantes ecclesiasticam jurisditionem; e perche Mons.re Arciv.o di S.ta Severina Metropolitano ha fatto levar via li Cedoloni, ed ha fatto, e fà celebrare la Messa allo scomunicato, anche con scandalo di quei Popoli; il med.o Or.e humil.te supplica le EE.VV. degnarsi ordinare, che d.o Arcidiacono sia trattato da scommunicato per non essere stato Legitimam.te assoluto …”.[xx]

La lite si trascinò per diversi anni. L’arcivescovo fu accusato di proteggere il guardiano ed il procuratore del convento, di ostacolare l’azione dei funzionari del vescovo e di non permettere a quest’ultimo di rientrare in possesso dei beni e dei diritti usurpati.[xxi]

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Arme del vescovo Francesco Marino (1682 -1716).

La soppressione

“Ex Regularibus nullus extra claustra degit, nec in mea Diocesi esercitia suis superioribus reperiunt. Aliqui ex praedictis Minoribus observantibus scandala commiserunt, qui tamen juxta praedicti Conc. Trid. Dispositionem, me instante eor. Superioribus remissi fuerunt, nec in p.nti occurit cum eisdem offendiculum circa exercitium jurisd.nis Delegatae”.[xxii]

Privati di esercitare la cura delle anime,[xxiii] essi sono sotto la vigilanza e la giurisdizione vescovile.

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Il convento ed il territorio di Isola nella ”Carta” di A. Rizzi Zannoni (1808).

Il terremoto del 1783 non fece gravi danni alla città di Isola , il cui abitato fu “sano, e salvo” e “non patì alcun danno nelle fabbriche”. Da quanto scrive il Vivenzio i frati presenti allora nel convento erano otto.[xxiv]

Così è descritto il convento dal vescovo di Isola poco prima della sua soppressione: “Unicus adest conventus in hac Civitate Fratrum strictioris observantiae Sancti Francisci, qui nullam exercent animarum curam, qui extra claustra non admiserunt, nec cum iisdem aliquod habeo offendiculum in exercitio meae iurisdictionis”.[xxv]

 

Il convento e la cassa sacra

Dopo il terremoto del 1783 il convento fu soppresso ed i suoi beni l’anno dopo furono amministrati dalla Cassa Sacra.

Dalla relazione del vescovo di Isola del nove giugno 1785 sappiamo che il convento aveva cessato definitivamente di esistere; i frati avevano scelto di abbandonare l’ordine, il convento e la chiesa erano stati chiusi e lasciati in abbandono, i beni sacri dispersi nelle varie chiese e l’orto ed il vignale dati in fitto. “Unum aderat hic coenobium Fratrum Minorum de Observantia non spernenda structura compositum, cui hortum adiacebat, et hoc quoq. confiscatum fuit cum omnibus mobilibus, quae ibi reperiebantur, fratres inhabitantes expulsi, qui tamen elegerunt statum ecclesiasticorum secularium; calices, pixis, ostensorium bene elaboratum, crux argentea, et omnia sacra utensilia. Coenobium et ecclesia clausa sunt, deserviunt pro habitando munium, avium nocturnarum, atque repotilium, et in dies deperiunt. Una cum picturis sacrarum imaginum recentibus quidem sub egregie depictis. Nullum ex iis lucrum consequitur discus praeter annua ducator. Sexdecim monetae huius Regni, quae horto locatione percipiuntur, quae certo in posterum minuent”.[xxvi]

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Il “casino” di San Nicola (foto di G. Valente).

In amministrazione della Cassa Sacra

Il 30 giugno 1790 il convento fu consegnato al regio amministratore Gian Tommaso Bisciglia. Risale a quella data la descrizione delle fabbriche e dei beni del convento.

“Convento de PP. Riformati della Città dell’Isola

Nella entrata manca mezza porta.

Nella prima stanza a mano sinistro nel corritojo in piano terre vi manca la porta.

Nella seconda stanza di detto corritojo vi manca la serratura.

Nella terza stanza dello stesso corritojo vi manca la serratura e la porta è vecchia, ed ha bisogno d’accomodo.

Nella quarta stanza vicina all’anzidetta, vi manca la serratura e la porta è logora, ed ha bisogno d’accomodo. Esiste nella medesima un botticino della capienza di circa di circa quattro barrili, e sedeci doghe di botti.

Segue il secondo corritojo, che introduce alla cucina, il quale è inparte scoverto, mancando il pavimento, e le tavole, e tre travi.

Nell’entrata che conduce a detta cucina, e all’appartamento supriore non vi è porta, a mano sinistra vi esiste una stalla, colla porta senza mascatura.

A mano destra vi è la stanza ove si faceva fuoco, e vi manca la porta, siegue quindi un’altra stanza per uso di cuccina, in cui vi esistono due porte, ed una finestra senza le mascature; Dalla cucina si passa ad un’altra stanza in cui vi sono due porte una verso la Città, e l’altra che corrisponde al corritojo, mancando in quest’ultima la serratura; A detta stanza siegue l’altra che servi per refettorio, in cui vi esistono i sedili di fabbrica, e sei banconi di pietre sostenute da quattordici pilastri di pietre, mancano due parte di finestre, e nella porta dell’entratura vi esiste la mascatura senza chiave.

Nel corritojo a prospettiva al primo vi esistono quattro stanze, nella prima delle quali attualmente attrovasi uno stipo di legno, ed un barile vecchio, vi sono due porte una che comunica col refettorio, e l’altra con una stanza successiva, e le porte istesse sono vecchie, e senza fermature. Nella seconda stanza vi è una botte della capienza di circa dodeci barrili, e vi manca la porta.

Nell’appartamento supperiore vi sono tre corritoj coverti a lamie e due a tetto. Nel primo corritojo a prospettiva alla gradiata vi sono sei stanze abitabili, colle rispettive porte, e finestre, senza le mascature.

Nel secondo corritojo a mano sinistro vi sono cinque stanze anche abitabili colle rispettive porte, e finestre, e in due di esse porte vi sono le mascature.

Il terzo corritojo a lamia è in parte diruto, e minaccia rovina. Vi sono due stanze abitabili colle di loro finestre, e porte chiuse con chiave, e tre altre stanze che minacciano rovina, in una delle quali vi esiste la porta senza serratura, in un’altra vi è la porta cadente, e vecchia, e nell’altra vi manca intieramente la porta.

I due corritoj coverti a tetto sono in parte scoverti, e minacciano rovina.

La chiesa è nello stato in cui era in tempo della suppressione, e solo tre lapidi delle sepolture sono rotte.

Nell’orchesta vi esiste un piccolo organo”.[xxvii]

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Epigrafe nel Casino San Nicola (foto G. Valente).

Beni stabili

“Stato attuale delle rendite, e de’ Pesi del Convento de’ Minori osservanti della Città dell’Isola . Stato delle Rendite. 1 Beni Stabili. Il Convento degli Osservanti sotto il titolo di S. Nicola della Città dell’Isola non possiede altro, che un Orto, ed un vignale uniti insieme, che servivano per uso de’ frati, ed una casetta, che è per comodo del Giardiniere, quali tutti sono apprezzati in proprietà Duc. 465. 23.11 che danno l’annua rendita di duc. 16.60 giusta l’ultimo affitto (Non ha pesi di sorte alcuna e perciò tutta la rendita avanza a beneficio del Sacro Patrimonio)”.

 

Rendite in danaro

“Per affitto di fondi: Orto e vignale, uniti insieme, in contrada “l’Osservanza”, poco discosto dalla Città, della estensione di tom. 2 ½ di terra atta alla semina: vi esistono 5 olivi di stato e 39 di aumento, 42 fichi, 2 aranci amari, 1 gelso bianco, 1 percoco, 6 granati, 1 palma; confina col corso di S. Barbara della Mensa Vescovile, è circondato di mura in fabrica con una casetta scoverta; si trova affittato al can.co Castelliti mercè obligo stipulato dal not. Alessio Preite per estaglio di duc. 19.

Per censi enfiteutici: censo sul vignale attaccato all’orto sopra descritto, da pagare in agosto da parte di Gius. Aspro duc.1. 25.

Per Legato: da parte di don Silvestro Spatafora duc. 40.”

Note a margine: Con atto del 1791 l’orto fu affidato a d. Giuseppe Soda, nel 1793 l’ebbe in fitto il mag.co Giuseppe Cavallo.[xxviii]

 

L’orto ed il vignale

In seguito il convento fu annoverato come un semplice luogo pio. Così i “Padri Osservanti” compaiono nell’elenco delle cappelle e luoghi pii esistenti nella città di Isola, redatto nell’agosto del 1825.[xxix]

Pochi anni come luogo pio il convento può contare sulle rendite del vignale e dell’orto affittati all’arciprete Oliverio e su due censi.[xxx]

Alla metà dell’Ottocento la chiesa risulta “diruta” ed è usata come luogo di sepoltura.[xxxi]

 

I Berlingieri

Dopo l’Unità il convento divenne proprietà della famiglia Berlingeri “i quali, appunto nel Convento, opportunamente adattato stabilirono la loro residenza almeno per i periodi di più intensa attività agricola, quali quelli della semina, che proseguiva con l’altro, invero più lungo, della raccolta e della lavorazione delle ulive. Il Convento, allora, venne come isolato in un parco, detto comunemente il boschetto, dotato di cavallerizza, steccati, siepe, pianaforte per l’ippica, fontane, viali e belvederi, sull’esempio di Versailles, nel quale pascolavano intoccabili daini che attraverso un sottopassaggio avevano libero pascolo in un oliveto recintato da mura ben alte”.[xxxii]

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Il casino dei Berlingieri.

Note

[i] Instrum.tum capturae possessionis viridarii S.ti Nicolai in favore E.pi Insulani in anno 1584. Assenso Reggio per lo giardino di S. Nicola in favore del vescovo dell’Isola con l’essecutorii del Reggio Conseglio contro il mag.co D. Antonio Ricca per l’immissione del possesso dell’istesso giardino nell’anno 1584. Istrum.to di donatione per il Giardino di Santo Nicolò di Donna Camilla Pagliaro a favore del vescovo dell’Isola et sua Chiesa nell’anno 1585. Inventario e note delle scritture pertinentino al Sacro Episcopato dell’Isola …. Inventario delle scritture fatta dal tesoriere Santo Milioni il 5 marzo 1648.

[ii] Dalla visita del decano Nicola Tiriolo sappiamo che la chiesa di Santa Barbara era situata nel distretto della città di Isola ed era di grande devozione del suo popolo. Allora fu trovata bruciata in parte della copertura e piena di tegole e di calcinacci caduti per l’incendio. La chiesa aveva un quadro nuovo “in tabula” con l’immagine della santa, che era stato portato da Napoli dal vescovo Annibale Caracciolo (1562-1605). Il quadro per maggiore sicurezza era conservato nella cattedrale. AVC, Visita del decano Nicola Tirolo, 1594, f. 44.

[iii] AVC, Privilegio dello Sacro Episcopato della Città di Isola, In Processo Grosso, ff. 212v-213.

[iv] Fiore G, Della Calabria Illustrata, II, 400.

[v] S.C.C. Relazioni di Visita ad Limina Insulanen., 1600, ff. 343-346. “…ubi est Coenobium Tertiariorum S. Francisci ab Episcopo Caracciolo conditum”, Ughelli F., IX, 505.

[vi] Carnì M., Il “sindaco apostolico” chierico in ambito francescano osservante tra autorità religiosa e governo episcopale, in Angelicum, Vol. 85, p. 1204.

[vii] AVC, Visita del decano cit, f. 60.

[viii] “Adest in Civitate monasterium Sancti Nicolai patroni eiusdem Civitatis in quo manent octo patres ordinis Sancti Fran.ci de observantia, magna relligione et devotione viventes de elemosynis Civium”, S.C.C. , Relazioni di Visita ad Limina, Insulanen., 1606, f. 200; L’arciprete delle Castella Gio. Domenico Crocco il 20 giugno 1697 lascia per testamento ducati dieci “alli PP. di S. Nicolò dell’Isola per tante messe”. AVC,114.

[ix] La confraternita del SS. Sacramento di Isola nel 1594 “tiene in comune et indiviso con il R.o Monasterio de S.to Nicola de detta Città comune herede del q. Camillo Ganguzza alias Cutulo, due tumulate de terra, similmente in comune et indiviso con le terre del m.o Gio, Dom.co Ganguzza de Cutro e fratelli posti nel territorio de d.ta T.ra de Cutro nello Curso del S.r Duca di Nocera in loco ditto Manche de Mustica”. AVC, Visita Nicolai Tiriolo, 1594, f. 29v.

[x] S.C.C., Relazioni di Visite ad Limina, Insulanen., 1625, 401, f. 103.

[xi] Carnì M., Isola di Capo Rizzuto in età moderna. Nuove prospettive da un “apprezzo” inedito del 1633, in Quaderni Siberinensi, 2009, p. 53.

[xii] S.C.C., Relazioni di Visite ad Limina, Insulanen, 1635, 401, f. 259.

[xiii] S.C.C. Relazioni cit.,Insulanen., 1667.

[xiv] ASCz, not. G. A. Protentino, B. 119, fs. 1646, ff. 112-113.

[xv] AASS, 010A, Instruttioni …, ff. 7-9.

[xvi] S.C.C. Relazioni cit., Insulanen., 1648.

[xvii] ASCz, Not. G. S. Bonello, 15.9.1669, f. 43r.

[xviii] ASCz, Not. G. S. Bonello, 26.9.1669, f. 47r.

[xix] S.C.C., Relazioni cit., Insulanen., 1692.

[xx] AASS., fondo arcivescovile, vol. 57, ff. nn.

[xxi] “Mons.r Marini Vescovo dell’Isola havendo per sospetto Mons.r Berlingeri Arcivescovo di S. Severina suo Metropolitano nella Causa delle Censure contro il P. Guardiano Papanici per l’usurpatione di alcuni Beni della sua Mensa, e nell’altra pure delle Censure contro il S.r Arcidiacono Infusino per l’usurpatione della giurisd.e, adduce in specie cinque cause. La p.ma per haver d.o mons.re Arciv.o assoluto detti Guardiano, ed Archidiacono dalle censure sod.e riservate alla Santa Sede, e per essersi volsuto astenere coll’appellationi interposte citra consensum, ed allegationi di sospetto, con cause expresse, che si danno in publica forma. 2.a per haver fatto levare li cavalli al Pro.re del Promotor fiscale del Vescovo dell’Isola, che col Notaro andiede ad interporre L’appellat.e, ed allegar sospetto il Metropolitano, che parim.te si giustifica anco con la Confess.e dell’istesso Metropolitano nella sua l.ra responsiva alla Sac.a Cong.ne de Vescovi. La 3.a per haver anni sono sottoposta all’interdetto eccl.co La Chiesa de P.P. Riformati della terra di Cutro sua Diocesi, mandato tutti di quel clero à levare il S.mo, e detto nel Cedolone per haver quei Padri alzato Baldacchino a Mon.s Vesc.o dell’Isola, quando non poteva, né doveva ciò fare, e questo convitato da med.i P.P. per la festa di S. Antonio di Padoa, vi era stato sotto il Baldacchino alzatogli, con la sedia al suolo senza alcun gradino perilche nella sagra Cong.e de Vescovi, alla quale ne fecero ricorso li P.ri, mon.r Arciv.o ne fu ripreso, e tacciato, dandosi à conoscere di haver astio con mons.re Vesc.o dell’Isola come apparisce in Segretaria. La 4.a per haver sin dall’anno 1607 nella causa contro il Guardiano, e PP. Min.i Osservanti dell’Isola di quel tempo per l’occupatione d’altri Beni della med.a Mensa Ep.ale voluto, non ostante la sospett.e allegata procedere con sententiare contro la mensa, e di più con far passare in giudicato sotto banca la sentenza senza farla ratificare al Promotore, ò Pro.re dell’istessa Mensa Ep.ale in tanto grave pregiuditio, a discapito della medema, che perciò con tal’esempio ha giusto motivo di sospettione nelle sod.e altre due cause, che ha contro il med.o convento e contro il S.r Arcidiacono Infusino. La 5.a poi è per essere d.o mons.re Arciv.o interessato nelle differenze, e cause contro la Città di Cotrone sua Patria e Cotronesi tutti, che ha havute, et ha mons. Vesc.o dell’Isola per la tenuta, e macchia di Salica spettante alla sua Mensa ep.ale, sopra la quale li Sig.ri Cotronesi pretendono havere il jus pascendi, et lignandi senza pagare La Gabella alla Mensa, per cui ne sono nati alcuni disordini, vi fu constretto à pagarla anche col danno dato il fratello dell’istesso mons.re Arciv.o, e pende hora la lite avanti l’A.C. per gl’atti del mazzeschi sopra l’articolo principale, in che non volse conoscerla la Sag. Cong.ne dell’Immunità dell’anno 1694. Per la cognit.e delle cause di sospettione si nominorno da mons.r vesc.o dell’Isola per Arbitri, mons.r Chrispini vesc.o di Squillace, e mons.r Gori vesc.o di Catanzaro nell’allegationi fatte fare avanti mons.r Arciv.o che perciò molto più haverebbe questo da dar mano, che si conoscessero le cause dalla Sagra Cong.e, che è il lor proprio canale, senza permettere la sudelegat.e di altro non sospetto alle Parti, mentre ciò risultarebbe in pregiuditio della sua giurisd.e metropolita, che servirebbe per esempio à gl’altri suffraganei.”

[xxii] S.C.C., Relazioni cit., Insulanen., 1768. (Angelo Monticelli 1766-1798).

[xxiii] “.. quibus nulla animarum cura demandata est, nec cum ipsis aliquod nunc occurrit offendiculum”, S.C.C. , Relazioni cit. Insulanen., 1768.

[xxiv] Vivenzio G., Istoria de’ tremoti, Vol. I, p. 255, II, p. XCVI.

[xxv] S.C.C. Relazioni cit., Insulanen., 1781.

[xxvi] S.C.C. Relazioni cit., Insulanen., 1785.

[xxvii] “Il convento aveva in un’ala la Chiesa con tre cappelle dedicate a S. Antonio, S. Nicola e l’Addolorata. Soppresso nel 1784 per devolverne i beni alla Cassa Sacra istituita per soccorrere i danneggiati del terremoto dell’anno prima, molti degli oggetti sacri furono trasferiti nella Chiesa di Santa Domenica, ov’era possibile vedervi il quadro e l’altare di Sant’Antonio”, Valente G., Isola di Capo Rizzuto, Ed. Frama Sud, pp. 94-95. Stato attuale delle fabbriche de monasteri, conventi … che si consegnano al Reg.o Amministratore D. Gian Tommaso Bisciglia li 30 Giug.o 1790, ASCz, Cassa Sacra, Lista di carico n. 19, 20, ff. 212v-213v.

[xxviii] AVC., Riassunto della Lista di carico della giunta di Casa Sacra, 1790.

[xxix] AVC, Le cappelle, Luoghi pii nella città di Isola sono li seguenti: Padri Osservanti .., Isola li 3 Ag. 1825.

[xxx] AVC. Introito de’ Luoghi Pii di q.a Collegiata d’Isola fatto dal Sig. can.co D. Gius.e Lattari nel maturo del 1832. Convento de Padri Osservanti: Per il vignale ed orto fittati al sig.r arciprete Oliverio 20:00, D. Ant.o Aspro censo 1:00, Er. di Silvestro Spatafora 08:32 (non paga per mancanza di titolo).

[xxxi] Il 22 gennaio 1843 il vicario foraneo di Isola fa presente al Vicario generale di Cotrone “che dopo il permesso di aprire la chiesa di Santa Caterina ad oggetto di dar sepoltura ai cadaveri che giornalmente si avevano per morbo corrente, i medici hanno osservato che per la situazione della detta chiesa entro l’abitato nonché per esser la stessa scoverta di tetto, il seppellimento da cadaveri sviluppa una continuata maldaria che degenera l’aria e rovina la salute degli abitanti che la circondano. Perciò chiede di utilizzare la diruta chiesa di S. Nicola come quella che è più lontana dall’abitato (AVC, 139).

[xxxii] “Verso il 1870 il Convento veniva adattato ad abitazione civile, ed un po’ alla volta la famiglia Berlingieri vi si trasferiva dal palazzo costruito in Isola”, Valente G., Isola cit., pp. 7-8; 94-95.

 

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Dalla chiesa di Santa Maria “Francorum” a quella di San Francesco di Paola di Policastro

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Petilia Policastro (KR), In evidenza il luogo in cui esisteva la chiesa di Santa Maria dei Francesi.

L’esistenza di una chiesa dedicata alla Vergine, all’interno delle mura dell’antico abitato medievale di Policastro, risulta documentata verso la fine del dominio normanno, da un “Instrume(n)tum Grecor(um) abatia Santi A(n)g(e)li de Fringillo” del luglio 1187 (a.m. 6695), quando “Nicolas Charbatos”, morta sua moglie “Marotta”, per la somma di un nomismata e quattro tari, vendette a “Nicolas”, figlio del defunto “Thèrsos Kampellènos”, la casa ricevuta in eredità da suo padre, con il legname, le piccole pietre ed il terreno edificabile.

La casa era posta nella terra (χώρας) di Policastro, in convicino (ένορίαν) della chiesa dedicata alla “Théotokos de Thrakèsès” (Θεοτόκον τοϋ Θρακήση), e risultava così confinata: a est la casa di “Nicolas Phétzarès”, a ovest la via e la detta chiesa, a nord la casa di Johannes, genero di Pietro, ed a sud la casa acquistata da “Théodore Xantos” e la casa di “Bonos Kannoulos”.[i]

Durante il Medioevo, l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo ebbe diversi possedimenti in Policastro, ed ancora agli inizi del Seicento, come si poteva riscontrare in una “platea veteri”, deteneva alcuni antichi censi “in Terra Policastri” e nel suo “Territorio”, anche “alla Par.a di S.ta Maria” ed “in loco d.o Strata nova, iuxtam la porta nova di d.a Terra”,[ii] luogo dove si trovava al tempo la chiesa parrocchiale di Santa Maria dei Francesi.

 

Santa Maria “delli francesi”

La chiesa parrocchiale di “S. Mariae de Francis”, compare alla metà del Quattrocento quando, essendo vacante per libera rassegnazione fatta da Nicolao Cappa, rettore della chiesa di “S. Nicolai de Plateis”, la Santa Sede la conferì a Johannes Bovario, presbitero della diocesi di Santa Severina.[iii]

Ritroviamo “S(an)ta Maria delli francesi” alla metà del secolo successivo, in un elenco relativo al pagamento della decima dovuta alla Santa Sede, da parte dei membri del clero della diocesi di Santa Severina, quando era un benefecio “Curato”: “R.to da D: Gio: Batt(i)sta Cansoneri per S(an)ta Maria delli francesi per x.a d. 0.1.0”.[iv] Periodo in cui “Donno bap.ta classidonte” ed il cappellano “donno bap.ta Canzoneri”, pagavano annualmente all’arcivescovo di Santa Severina, 2 tari a titolo di quarta beneficiale “per s.ta m.a de li francisi”, come appare documentato nel “Libro de tutte l’intrate de lo arcivescovado de’ s(a)nta Anastasia”, durante il quadriennio 1545-1548 e nel 1566.[v]

 

La chiesa alla metà del Cinquecento

Il 9 di giugno del 1559, a conclusione della sua visita alle chiese esistenti nell’abitato di Policastro, il cantore della chiesa di Mileto Giovanni Tommaso Cerasia, vicario dell’arcivescovo di Santa Severina Giovanni Battista Ursini, dopo essere stato nella chiesa di Santa Caterina, si portò alla chiesa parrocchiale di “s.tae Mariae deli francesi” di cui era cappellano D. Battista Conzonerio. Qui, entrato nell’edificio e pronunciata l’orazione davanti all’altare, il vicario cominciò la visita. La chiesa possedeva un altare maggiore di fabbrica con altare portatile con tre tovaglie, un “coperimento” d’altare di “piczo”, tre vestimenti sacerdotali di tela completi, tre “plumacios”, un messale, un paio di candelabri di ottone, una “pacem” ed una “Conam” in tela con sopra un “lintheamen” di tela. Dentro un’arca furono rinvenuti: un “plumacium piczum”, sei tovaglie ed un’altra vecchissima, lacera e consunta, un mandile, tre altre tovaglie, una casula di tela, un calice di peltro con patena d’argento e corporali. Vi era una campana piccola che “stantae paupertatae ecc.ae p.tae”, fu comunque detto di riparare mentre, oltre l’altare maggiore, vi erano altri tre altari che bisognavano di tutto il necessario.[vi]

 

Il luogo agli inizi del Seicento

Alla fine del Cinquecento, a seguito dello stato generale di povertà, il numero delle parrocchie di Policastro fu ridotto, come riferisce la relazione del 1589, prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani per la Santa Sede.[vii] In questa occasione, tra le quattro chiese parrocchiali rimaste, non risulta più quella di Santa Maria dei Francesi che, in seguito, comparirà tra i benefici uniti a quello della chiesa matrice di San Nicola della Piazza.

Alcuni atti notarili della prima metà del Seicento, evidenziano che, il luogo caratterizzato dalla presenza della chiesa di Santa Maria delli Francesi, individuato in questi documenti, in qualità di “convicinio” o “convicino” della detta chiesa[viii], si estendeva nell’estremità orientale dell’abitato di Policastro, dove si trovava la “porta nova”: un accesso di più recente costruzione, che muniva la sommità della timpa o “rupam oleastri”.

Qui, all’interno dell’abitato, confinante con le “rupas oleastri, et viam quod escitur fories dittam terram”, si trovava la casa terranea posta “in Convicinio  Ecclesie s.te Marie de Frangisi”, che Isabella Misiano, vedova del quondam Joannes Dom.co Priolo, assieme con i figli Horatio e Joannes Baptista Priolo, vendette ad Angelo Cropanese.[ix]

Quest’ultimo, in seguito, acquisì anche altri stabili vicini dei detti de Priolo, beni confinanti con l’orto e la domus del dottore Hyeronimo Poeri,[x] che si trovavano in prossimità di orti ed altre possessioni poste fuori le mura, nei luoghi detti “santo aloe” e  “la timpa dell’ogliastro”,[xi] presso “la porta nova di detta Citta”.[xii]

Per quanto riguarda, invece, il luogo interno alle mura prossimo alla “porta nova”, altri documenti evidenziano che la casa di Angelo Cropanese sorgeva vicino a quella di Joannes Francesco Mendolara.[xiii] Dopo che il detto Joannes Francesco ebbe venduto al Cl.co Joannes Hyeronimo Mendolara, la propria parte di detta domus che i due possedevano in comune,[xiv] troviamo che la domus di quest’ultimo, risultava individuata presso la porta Nova.[xv]

 

Un beneficio senza rendita

Alla metà del Seicento, la chiesa di “S. M.a de Francesi” risultava ancora uno dei benefici di Policastro che, nell’antica misura, pagavano la “4.a” all’arcivescovo di Santa Severina,[xvi] anche se perdurava il suo stato di poverta già evidente alla metà del secolo precedente, e la chiesa si trovava priva di qualsiasi rendita, come si riferisce in occasione della visita ai luoghi della diocesi, compiuta dall’arcivescovo Francesco Falabella nel 1660.

Il 7 ottobre di quell’anno, dopo aver visitato la chiesa di Santa Maria delle Grazie, e prima di proseguire il suo cammino presso la chiesa dell’Annunziata Vecchia, posta fuori le mura, la visita dell’arcivescovo continuò presso la chiesa di “S. Maria vulgo Li Francesi”, dove egli visitò l’altare posto nella parte orientale dell’edificio, coperto da un pallio di seta di colore rosso con tre tovaglie, comandando che venisse infisso e fabbricato un “Lapide Sacrato”. Qui egli riscontrò la presenza di “Carta Secretorum”, “Tabella Inprincipii”, croce e quattro candelabri di legno. Sopra l’altare vi era una “Icona in tela depicta cum Imaginibus B.M.V. S. Elisabeth, et Sanctorum Joachim, et Joseph” mentre, sopra questa, si trovava un baldacchino di legno. In una arca di legno conservata all’interno della chiesa, furono trovati: una pianeta di seta rossa, una “Alba”, un calice con patena e con i suoi ornamenti ed un messale.

La chiesa, che non possedeva alcuna rendita, aveva l’onere di celebrare due ebdommade, una per l’anima del quondam Joannes Baptista Zurlo seniore e l’altra, per l’anima del quondam Livio Zurlo, mentre le elemosine relative a dette messe, erano pagate annualmente da Joannes Baptista Zurlo iuniore.[xvii]

L’esistenza di questi legati, si rileva in un atto del 25 settembre 1630. Quel giorno, il notaro si portava nella domus palaziata di Livio Zurlo di Policastro, consistente in più e diversi membri, posta dentro la terra di Policastro nel convicino di Santa Maria “delli fransisi”, confine la domus di Franceschina Callea, le vie pubbliche da tre lati ed altri fini, per stipulare il suo testamento.

In questa occasione, il testatore istituì erede suo figlio Gio: Battista Zurlo, e fra le altre sue disposizioni, legò annui ducati 5 a Santa Maria “delli Fransesi” per una ebdommada, che avrebbe dovuto servire D. Blasio Capozza, così come avveniva già per l’altra lasciata dal quondam Gio: Baptista Zurlo suo padre.[xviii]

 

La cappella della Visitazione, ovvero di Santa Maria “Francorum”

Secondo quanto riferisce il Mannarino, al tempo dell’arcivescovo Carlo Berlingieri (1679-1719), negli ultimi anni del Seicento, la chiesa “dell’Annunziata detta di Fuora” fu diroccata, e dal suo sito che si trovava “sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città”, fu trasferita in quello dell’antica chiesa di “Santa Maria delli Francesi”. Sempre secondo le affermazioni del Mannarino, quest’ultima fu completamente “smantellata”, così da poter essere rifabbricata “da fondamenti” in forma più vasta.[xix]

Confermano le parole del Mannarino, le informazioni che ci fornisce una epigrafe fatta alla fine del Seicento dal cantore D. Michel’Angelo Coco,[xx] che oggi ritroviamo sopra la porta laterale della chiesa di San Francesco di Paola. Questo testo, che riassume le vicende dell’antica chiesa di Santa Maria “FRANCORUM”, titolo che si riteneva discendesse da una famiglia oriunda di Francia, riferisce che, quella che era stata la parrocchiale cinquecentesca (1521), era ormai “COLLAP.A” nel 1690, e che, al tempo in cui fu diroccata la chiesa dell’Annunziata (1697), posta fuori la porta della Piazza, il suo beneficio fu trasferito nella chiesa matrice, dove fu eretta la relativa cappella (1704). Su luogo dove era esistita l’antica parrocchiale, fu invece trasferita la chiesa dell’Annunziata, la cui prima pietra fu posta il 19 aprile 1698. In questo luogo detto la Rupe dell’Oleastro, furono così eretti i sacelli di San Francesco di Paola, dove fu posta l’antica statua del santo, e di Santo Aloe:

A. G. P.

PRO HIC ECCL.A S. M. FRANCORUM PAROC.A MDXXI.

PARISCE EX FAM.A E GALLIA ORIUN. COLLAP.A MDCXC.

EST CAP.A IN MATR. DOT.A BENEFICIO MDCCIV.

TENP. D. ANNVNCIATAE EX.A P.M PLATEAE DIR. MDCXCVII

PIET.E BENEF.M IN P.O LAP.E FVND. XIX APR.S MDCXCVIII

CVM SACEL.S PATRE DE PAVLA ANTIQ. SIMULACRI &

S. ALOEI CVIUS FANVM OLIM SVP. FIIS RVPIEM OLEASTRI

VBI SVPERSTITIO IMMOLABAT DESUPER FALSO IOVI

TRANS.A ICONE IN M. CVM SACRO IN SACRES.A MDCCIII

SVP.O VALVIS VETVSTIS EX SAECVLORUM TRADIT.E

IAM NOSTRI EPISCOPATVS S. CESARII REFECIIT

C.R D. M. ANG.S COCO HAC RECENTER MEM. P.P.P.P.P.P.P.P.P.

policastro epigrafe

Petilia Policastro (KR), epigrafe posta sopra la porta laterale della chiesa di San Francesco di Paola.

L’erezione nella chiesa matrice, della cappella relativa all’antica parrocchiale, risulta testimoniata da alcuni documenti.

Il primo gennaio 1705, infatti, dietro la richiesta dei fratelli D. Ant.o Ferrari, arcidiacono della cattedrale di Santa Severina, e Francesco Ferrari, chierico coniugato, l’arcivescovo Carlo Berlingieri approvava l’erezione di “un perpetuo Semplice Beneficio Eccl(esiati)co all’Altare della S.ma Vis.e sotto l’invocaz.ne di S. M.e delli Francesi posto dentro la V(enera)b(i)le Chiesa Matrice”, ovvero “ad Altare S.mae Visit.e, seu S. M. Francorum positum intus V(enera)b(i)lem Ecclesiam Matricem in loco Policastri”, compreso di una messa cantata nel giorno della S.ma Visitazione della Vergine.

Come appariva dallo strumento di dotazione fatto in Policastro il 12 settembre 1704, il beneficio risultava dotato in annui ducati 25, provenienti da alcuni stabili posti nel distretto di Policastro: una continenza di terre in loco detto “la Valle delli Cancelli”, confine i beni della cappella di San Gregorio, del vignale di Santa Caterina, ed altri fini, dalla quale si percepiva la somma di d. 10, un’altra continenza di terre dette “S. Marco”, arborata di olive, dalla quale si percepiva la somma di d. 10, un orto posto “dentro d.o luogo di Policastro”, dal quale si esigevano annualmente d. 3, ed un annuo canone di carlini 28 per un capitale di ducati 40 alla ragione del 7 %, dovuto dal clerico Antonino Carcello.

Il 21 giugno 1705, nel palazzo arcivescovile di Santa Severina, lo stesso arcivescovo firmava l’atto mediante il quale, il “Clerico” Joannes Dominico Ferrari di Policastro, in qualità di cappellano, era immesso nel reale possesso della “Cappellaniam, seu Beneficio in Altare, seu ad Altare sub invocatione Sanctiss.mae Visitationis inctus Ecclesiam Matricem loci Policastri”, fondato “p(er) Rev.m D. Antonium, et Clericum Coniugatum Franciscum fratres de Ferrariis cum reservatione Juris patronatus, et praesentandi Rectorem”. Al sacerdote Joannes Dominico, il 10 giugno 1717, succederà, in qualità di cappellano, il “Cl.m” Nicolao Ferrari,[xxi] mentre, alla metà del Settecento, il semplice beneficio di “S. Maria de Francesi”, juspatronato della famiglia Ferrari, risultava provvisto al clerico Giuseppe Faraldi.[xxii]

 

La cappellania di San Carlo Borromeo

Anche le vicende relative alla cappella di San Carlo Borromeo, circoscrivono agli inizi del Settecento, la transizione che, dall’antica chiesa della SS.ma Annunziata “di fuora”, condusse all’erezione della nuova chiesa di San Francesco di Paola.

Il 23 luglio 1717, Carlo e Dom.co Tronca di Policastro, anche in esecuzione di una “pia esposit.ne” del quondam D. Gio: Tomaso Tronca, presentavano alla curia arcivescovile, un memoriale relativo all’erezione e fondazione di un semplice beneficio ecclesistico di juspatronato perpetuo della loro famiglia “Tronga”, sotto l’invocazione di “S. Carlo Borromeo” e con l’altare dentro la venerabile chiesa della “SS.a Annunziata di fuora d.a Terra di Policastro”.

Lo strumento di fondazione, stipulato il 26.05.1717, prevedeva che, nel caso il rettore fosse stato della famiglia Tronca, quest’ultimo avrebbe avuto il peso perpetuo di celebrare, o far celebrare, 50 messe basse ogni anno “in altare ad sua lib.a”, oltre l’onere giornaliero del “notturno de morti”.

Qual’ora invece, il rettore non fosse stato di famiglia, le dette funzioni, si sarebbero dovute celebrare “nell’altare erigendo” dentro la detta chiesa. In questo caso, frattanto che non fosse stato costruito il detto altare, le messe si sarebbero dovute celebrare in quello del glorioso S. Francesco di Paola dentro la medesima chiesa, con il di più di una di una messa cantantata ogni anno in perpetuo, “nel giorno di S. Carlo Borromeo”. Allo scopo, i detti de Tronca avevano assegnato al beneficio annui ducati 25, riservandosi lo “jus praesentandi, e nominandi” ed obbligandosi a pagare il cattedratico nel giorno del sinodo di Santa Anastasia, nella misura di una libra di cera. Il 9 aprile 1718, l’arcivescovo Carlo Berlingieri concedeva il beneficio al clerico Dom.co Tronca.[xxiii] Gli atti del sinodo diocesano di quell’anno, testimoniano che fu chiamato in sinodo il “Rector et fund.r Simplicis Beneficii sub tit.o S. Caroli Borromei cum lib. Cerae albae elaboratae”, come continua ad essere documentato anche successivamente.[xxiv]

I documenti testimoniano che anche in seguito, questo beneficio rimase ai discendenti di casa Tronca. Nel gennaio del 1738, morto ormai Dominico Tronca da più di quattro mesi, il semplice beneficio di “S. Caroli Borromei”, esistente nella chiesa di “S. Francisci de Paula”, fu provvisto al clerico Scipione Tronca, suo unico figlio.[xxv]

Nel 1756, ne era rettore il cantore D. Tomaso Tronca, mentre sappiamo che, verso la fine del secolo, “La Semplice laical Cappellania sotto il tit.o di S. Carlo Borromeo di Juspatronato della famiglia di Tronca”, possedeva una gabella detta “la Caracciolella” di circa 5 tt.e che rendeva d. 5, un pezzetto di terra chiamata “il Ringo” che, dedotta la cultura, rendeva d. 00.50, due piedi d’olive nel luogo detto “Basilea”, che rendevano d. 00.80, ed un pezzo di terra detto “la Volta di Tacina”, confinante con “Serra rossa”, che rendeva d. 5.00. I pesi che sopportava, erano rappresentati dall’originario onere di 50 messe e dal pagamento di “Cattedratico, e fiscali”.[xxvi]

 

La chiesa di San Francesco di Paola

Al tempo in cui il Mannarino scrisse la sua cronaca (1721-1723), quando “Santa Maria delli Francesi” si trovava unita alla chiesa matrice,[xxvii] l’edificio di una nuova chiesa era già stato costruito presso il luogo in cui era esistita l’antica parrocchiale. Questo, però, non era stato eretto sotto l’antico titolo dell’Annunziata ma, in ragione della fama del “gran Tamaturgo”, che ne faceva al tempo il “primo ornamento di Calavria”, in luogo della Vergine, era stato dedicato a San Francesco di Paola, come “vien chiamata dal volgo la nuova Chiesa”, in ragione delle innumerevoli grazie ricevute dalla popolazione.

In ragione di ciò, “nel destro fianco della chiesa”, erano state realizzate “due Capelle sfondate”, una per la Vergine, ed una per il Santo con la sua statua che, in precedenza, quando si trovava nell’antica chiesa dell’Annunziata, era invece posta in una “Nicchia” alla destra della Madonna, che teneva alla sua sinistra San Leonardo.

Accanto a queste opere, la vitalità della nuova chiesa in questi anni, risultava testimoniata anche dalla presenza della confraternita del SS.mo Sacramento che, da San Nicola della Piazza, era stata trasferita nella nuova chiesa dove, rispetto allo spopolamento che affliggeva la matrice, poteva ora godere di nuovi apporti, essendo “numerata di fratelli del primo Ceto, e dà loro insignemente beneficiata.”[xxviii]

Essa risultava anche discretamente dotata. Al tempo della compilazione del catasto onciario (1742), la “SS.ma Nunz.ta di Fuori oggi chiesa di S. Fran.co di Paula”,[xxix] poteva infatti contare, tra l’altro, sulle rendite derivanti dai seguenti beni: le terre dette “la destra della SS.ma Ann.ta” (d. 4), la gabella detta “L’umbro di Fiorillo (d. 4), un vignale “nel Ringo” (d. 3), un vignale “in S. Aloe” (d. 0.30), un vignale “in Cannarozza” (d. 0.10), un vignale “nel Pantano” (d. 0.30), le terre “in Pellecchia” (d. 3.), il vignale detto “Il Molino di Iuso” (d. 1), le “Castagne nel Monacello” (d. 0.60) ed un altro vignale “nel Pantano” (d. 0.10).[xxx]

A quel tempo, pur essendo sorta vicino al luogo in cui nel passato, era esistita la parrocchiale di Santa Maria dei Francesi, che era posta immediatamente all’interno delle mura di Policastro, in ragione dell’ampliamento dell’edificio preesistente, essa ora si trovava invece “Extra moenia”, in un luogo aperto detto “il largo della V(enerabi)le Chiesa di S. Fran:co di Paula”, che confinava con orti e vignali dove si trovavo gelsi neri,[xxxi] appezzamenti che caratterizzavano anche la limitrofa località fuori mura detta “S.to Aloi”, ovvero “la Conicella di S. Aloe” che, in un passato più remoto, aveva dovuto ospitare un luogo sacro dedicato a questo santo.[xxxii]

Tale situazione è posta in evidenza anche dalla relazione arcivescovile del 1765, prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Antonio Ganini (1763-1795), il quale riferisce che, la chiesa di “Sancti Francisci de Paula”, posta “Extra moenia”, aveva due altari oltre il maggiore, ed era retta da un procuratore ecclesiastico confermato dall’arcivescovo. In essa era eretta la confraternita del SS.mo Sacramento, ossia del Corpo di Cristo[xxxiii] che, il 10 settembre 1777, fu elevata alla dignità di arciconfraternita, come risulta da un un breve di papa Pio VI, riportato nei regesti vaticani.[xxxiv]

policastro s. francesco di Paola

Petilia Policastro (KR), chiesa di San Francesco di Paola.

 

La Cassa Sacra

Come possiamo rilevare nella Lista di Carico relativa ai luoghi pii di Policastro, alla fine del Settecento, la chiesa di “S. Fran.co di Paula”, possedeva le seguenti rendite: “Marrari seu Fiorillo” (d. 12.00), “Ringo” (d. 2.88), “S. Aloi venduto”, “Pantano” (d. 0.50) “piu 7.27 ½”, “Destre di Pellicchia” (10.52), “Blaschi” (d. 2.41), “Cannarozza” (d. 0.69), “Monacello” (d. 9.00), le case di Pietro Sottile (d. 3.00), le case di Bruno Berardi (d. 0.38), il censo enfiteutico che pagava la cappella di “S. Giacomo” (d. 3.00)[xxxv] ed altri censi (d. 5.44), per un totale di ducati 57.20.[xxxvi] Rendita che, per dimensioni, si situava al quarto posto tra quelle appartenenti ai luoghi pii di Policastro.[xxxvii]

Il 6 febbraio 1790, il “Prorazionale” Gian Fran.co Capurro asseriva “che avendo riscontrato le liste di Carico de Luoghi Pii Soppressi, e sospesi del Diparto di Mesuraca, e Policastro”, aveva trovato le seguenti rendite relative alla “Chiesa di S. Francesco di Paola” di Policastro: d. 2.40 per affitti di case, d. 11.55 per censi bullari e d. 49.65 per affitti di gabelle.[xxxviii]

A quel tempo, evidentemente a seguito delle ricostruzioni operate dopo il terremoto del 1783, quando Policastro “fu in gran parte distrutta, e nel resto conquassata”, risultando “parte distrutto, e parte cadente”[xxxix] dopo le scosse del 28 marzo di quell’anno,[xl] la chiesa di San Francesco di Paola passò ad essere inclusa nell’abitato di Policastro.

Se infatti, nell’elenco che menziona i “Luoghi e Terreni d’affittarsi della abbolita Chiesa di S. Fran.co di Paola”, compilato il 2 agosto 1790, risultava ancora un “vignale attaccato a d.a Chiesa”,[xli] in seguito, l’area circostante l’edificio sacro divenne edificabile.

Alla fine del Settecento, infatti, tra i censi assegnati all’arciprete di Policastro, risultavano quello che spettava a Bruno Donato, e per esso ad Antonino Caccuri, per canone “sopra li casaleni contigui alla Chiesa di S. Fran.co” (d. 3.50), che all’attualità pagava Antonino Pace, e quello che pagavano D. Ant.o Coco ed Elisab.a Pasquale, per canone “sopra altri casaleni in d.o Luogo” (d. 1.50).[xlii] Successivamente, nell’inventario dei beni appartenenti ai luoghi pii del “Diparto di Policastro e Mesoraca”, compilato il 29 agosto 1796, troviamo questi censi enfiteutici, tra quelli appartenenti al “Convento dei PP. Osservanti”.[xliii]

Policastro S. Francesco di Paola

Petilia Policastro (KR), chiesa di San Francesco di Paola.

 

Affitti e vendite

Dopo l’abolizione della Cassa Sacra, le rendite della chiesa di San Francesco di Paola, derivanti da alcuni affitti e dalle somme che si percepivano relativamente al pagamento delle annualità dei “Fondi venduti”, sono elencate nell’inventario dei beni appartenenti ai Luoghi Pii del “Diparto di Policastro e Mesoraca”, compilato il 29 agosto 1796:

“Chiesa di S. Fran:co di Paola

D. Michele Ferraro per l’affitto del vignale Umbro di Marraro deve nel di 8 7mbre d. 12.00.

D. Gio: Battista Portiglia per l’affitto del vignale Pantano deve nel Sud:o di d. 00.50.

Pier Angelo Naturile per Sacco 1 di Fronda del Vignale dietro la Chiesa di d:o Luogo Pio d. 00.20.

Annualità de Fondi venduti

D. Michele Ferraro per annualità sul Fondo d:o Ringo venduto per D. 72, come per Istrum.to di N:r Larosa a 5 Feb:o 1793 deve d. 02.88.

Dom:co Piccolo per annualità sul Fondo Prosparello venduto per D. 181.87.6, come per Istrum:to di N:r Lerose a 14 Luglio 1791, deve in ogni Agosto d. 07.28.

D. Michele Ferraro per annualità sul Fondo Pellecchia venduto per D. 263, come per Istrum:to di N:r Caliò a 9 Aprile 1792 deve in d:o di d. 10.52.

D. Dom:co Venturo per canone sul Castagneto cedutoli da Giovanne Catalano, come per Istrum:to di N:r Lerose a 4 Luglio 1794 deve in 8bre d. 03.41.10.

D. Michele Ferraro per annualità sul Fondo Candarozzo venduto per D. 17.89.7, come per Istrum:to di N:r Caliò de 9 Aprile 1792, deve in d:o di d. 00.72.

M.o Gaetano Cota per canone sul Castagneto d.o Monacello, come per Istrum:to di N:r Lerose de 4 luglio 1794 deve in 8bre d. 09.00.

Pietro Sottile per annualità sulli D. 50 prezzo della casa vendutali dalla Giunta, deve in ogni Agosto come per Istrum:to di N:r Larosa de 28 Agosto 1796 d. 02.00.

Bruno Berardi per canone sulla casa censuitoli come per Istrum:to di Notar Lerose de 5 Feb.o 1793, deve in ogni Agosto d. 00.38.8.

Censi Enfitautici

La Cappella di S. Giacomo, e per essa il dilei Rett:re D. Pietro Paroco Grano per canone deve in ogni Agosto d. 03.00.”[xliv]

Policastro statua s. Francesco di Paola

La statua di San Francesco di Paola, santo protettore di Petilia Policastro.

 

Il “Protettore”

Il Sisca riferisce che tra i fondi che appartenevano ancora al clero nel 1810, la chiesa di San Francesco di Paola, possedeva quello denominato Umbro di Fiorillo e porzione di “Pantano” mentre, in precedenza erano stati venduti quelli denominati “Ringo”, “Annunziata di fuori”, “Prosperello”, “Peddicchia”, “Cannarozzo” ed “una casa”.[xlv] A quel tempo, la chiesa fu ampliata nelle forme attuali, andando a formare “tutt’un plesso col presbiterio di S. Francesco”.[xlvi]

Il 16 maggio 1946, San Francesco di Paola fu proclamato “Protettore di Petilia Policastro, ugualmente principale con S. Sebastiano”.[xlvii]

 

 

Note

[i] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 60-62.

[ii] AASS, 124B.

[iii] 30 aprile 1455: “Alexandrinen. et Umbriaticen. Episcopis ac Officiali Sanctae Severinae mandat ut parochialem ecclesiam S. Mariae de Francis, S. Severinae dioc., vac. per liberam resignationem factam coram Mattheo de Parisio, laico Cusentin. dioc., Notario, a Nicolao Coppa, Rectore ecclesiae S. Nicolai de Plateis de Policastro conferant Johanni Bovario, dictae dioc. S. Severinae presbytero.”. Russo F., Regesto II, 11377.

[iv] AASS, 2A.

[v] “Denari de le carte” (1545): “Donno bap.ta classidonte per la 4.a de santa m.a de li francesi d. 0.2.10” (sic). “Conto de dinari de le quarte exacti in lo predicto anno 1546”: “Da donno bactista clasidonti per s.ta m.a de li francisi d. 0.2.0”. “Conto de quarte exacte per lo R.do quondam Don jacobo rippa como appare per suo manuale q.ale sta in potire de notari mactia cirigiorgi et sonno de lo anno 1547”: “Da donno bap.ta Canzoneri da policastro per s.ta m.a de li francisi d. 0.2.0”. “Dinari q.ali se haverano de exigere de le quarte de lo anno vi ind(iction)is 1548”: “Da donno bactista clasidonti per la quarta de maria de li francisi d. 0.2.0”. “Denari delle quarte de tutti li benefitii della diocesa de s(a)ncta s(everi)na” (1566): “S(an)ta Maria delli francesi paga de quarta ongne anno d. 0.2.0.” AASS, 3A.

[vi] AASS, 16B.

[vii] “Policastro è terra Regia, qual’essendo stata venduta dal Conte di S. Severina fù fatta di demanio con l’opra, e patrocinio del Cardinale di S. Severina, è habitata da tre milia anime incirca vi sono quattro chiese parocchiali, e nella matrice è l’Arciprete, e Cantore con venti altri preti, quali per il più vivono delloro patrimonio, et elemosine che ricevono dal servitio delle chiese, e confraternità, …”. ASV, Rel. Lim. 1589. “Policastro è terra Regia habitata da tre milia anime incirca. Vi sono quattro chiese Parocchiali, e nella Maggiore è l’Arciprete il Cantore e vinti altri Preti, quali p(er) il più vivono di loro patrimonio, et elemosine che ricevono dal serv.o delle chiese, e Confratie …”. AASS, 19B.

[viii] ASCZ, Notaio Ignoto, Policastro, Busta 81, ff. 2-3, 17-18. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 161v-162v, 195-196, 196-196v, 208-208v, 232v-233v, 243-243v; Busta 78 prot. 287, ff. 032v-033v, 041v-042, 053-054, 086v-087v, 166-166v; Busta 78 prot. 290, ff. 145-146; Busta 78 prot. 292 ff. 058v-059v, 061v-062v; Busta 79 prot. 293, ff. 037v-038v; Busta 79 prot. 294, ff. s.n., 012v-013, 048v-049v, 058-059; Busta 79 prot. 295, ff. 040v-054, 070-071; Busta 79 prot. 296, ff. 108v-109v, 143-144, 172v-173v; Busta 79 prot. 297, ff. 166-167v; Busta 79 prot. 299, ff. 081-081v; Busta 79 prot. 300, ff. 042v-043v; Busta 80 prot. 301, ff. 144v-146; Busta 80 prot. 302, ff. 031-032, 036-037, 080v-081v; Busta 80 prot. 304, ff. 024-025v; Busta 80 prot. 305, ff. 031-031v, 039v-040v; Busta 80 prot. 306, ff. 028-029. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 105-106v; Busta 182 prot. 803, ff. 112v-113.

[ix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 161v-162v.

[x] 27.10.1606. In forza della lettera esecutoria emessa dalla curia su istanza di Joannes Laurensio Cervino, contro Isabella, Oratio e Joannes Baptista de Priolo, Angelo Cropanese acquistava all’incanto un “ortum arboratum sicomis, et gisterna et medium Casalenum”, posto dentro la terra di Policastro “in Convicinio Ecclesie sante Marie de Frangisi”, confinante con l’orto e la domus del dottore Hijeronimo Poeri, “iusta rupam oleastri” ed altri fini. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 208-208v.

[xi] 01.02.1615. Al fine di poter accedere agli ordini sacerdotali, Vergilio Caccurio, donava al chierico Joannes Fran.co Caccurio suo figlio, un “ortalem arboribus sicomorum arboratum”, posto nel territorio di Policastro loco detto “santo aloe”, confine i sicomori degli eredi della quondam Laura Coco, “ubi dicitur la timpa dell’ogliastro”, confine la possessione del chierico Joannes Marco Guidatciri e “iusta ripas orti U.J.D. Hijeronimi Poeri” ed altri fini. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 010-010v.

[xii] 16.09.1613. Il chierico Joannes Fran.co Arcomanno e Joannes Vincenso Callea, in qualità di eredi del quondam Michele Arcomanno, possedevano in comune alcuni beni, tra cui: il “petium terre arboratum sicomorum situm, et positum ante Januam Nove seu timpam oleastri viam publicam ex duobus lateribus et vinealem quod fuit q.m laure coco”, ossia “lo vignalicchio arborato di Celsi posto loco ditto porta nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 098-099v). 13.09.1633. Davanti al notaro comparivano il Cl.o Micaele Callea ed il presbitero D. Joannes Andrea Romano. Il q.m Joannes Vincensio Callea, padre del detto Cl.o Micaele, aveva pignorato al detto D. Joannes Andrea un “ortalem arboribus sicomorum arboratum”, posto nel tenimento di Policastro “ubi dicitur fora la porta nova di detta Citta”, confine i beni di Joannes Matteo Guidacciro, la “ripam oleastri” le vie pubbliche da due lati ed altri fini. Al presente, venuti ad un accordo, detto Cl.co Micaele lo vendeva a detto D. Joannes Andrea (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 063v-064v).

[xiii] 08.12.1622. Joannes Dom.cus Truscia di Policastro, permutava due “Casalenos”, di cui uno era suo proprio e l’altro l’aveva acquistato da Joannes Dom.co Campana, posti dentro la terra di Policastro, nel convicino di S.ta Maria “delli fransisi”, confine la domus del quondam Angelo Cropanise, la domus di Joannes Fran.co Mendolara, la via pubblica ed altri fini, con la domus palaziata di Joannes Pettinato di Policastro, posta dentro la terra di Policastro, nel detto convicino, confine la domus di detto Joannes Dom.co, la domus del Cl.o Scipione Callea, la domus della quondam Isabella de Fran.co ed altri fini. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, ff. 058-059.

[xiv] 11.10.1632. Joannes Fran.co Mendolara di Policastro, vendeva al Cl.o Joannes Hijeronimo Mendolara di Policastro, la propria metà della domus palaziata che i due detenevano in comune ed indiviso, posta nella terra di Policastro nel convicino di Santa Maria “delli fransisi”, confine i beni di Caterinella Truscia, l’orto di Livio Zurlo, la via convicinale ed altri fini. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299, ff. 081-081v.

[xv] 28.04.1635. Davanti al notaro comparivano Caterinella Truscia, vedova del quondam Joannes Petro Nati e Joannes Dom.co Campana di Policastro, per stipulare i capitoli relativi al loro matrimonio. Tra i beni che apparteneva alla dote, troviamo: la casa palaziata posta dentro la terra di Policastro nel convicino di Santa Maria “li fransisi”, confine la casa del Cl.o Gio: Gerolimo Mendolara, la via pubblica ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 302, ff. 036-037). 16.03.1638. Joannes Dom.co Campana vendeva al Cl.co Hyeronimo Mendolara, il “Casalino scoverto”, “et pp.o lo casalino, che vi e la porta al p(rese)nte”, posto dentro la terra di Policastro nel convicino della venerabile chiesa di Santa Maria “delli fransisi”, confine la domus di detto Hyeronimo, un altro casaleno di detto Joannes Dom.co dalla parte superiore, e la via pubblica  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 031-031v).

[xvi] “Introito di danari essatti dal Rev.do D. Marco Clarà delle rendite della Mensa Arciv.le” (16.10.1630): “Il Capellano di S.ta Maria delli Francesi d. 0.2.0”. “1654 4.a de Benefici Policastro” (…) “Capell.o di S. M.a de Francesi d. 0.2.” a margine: “sol.t”. “4.a de Benefici Policastro” (1655), “Cap.o di S. M.a de Francesi d. 0.2.” a margine: “sol.t”. AASS 035A.

[xvii] AASS, 37A.

[xviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 166-167v.

[xix] “È questa chiesa appunto situata dentro il Circulo della stessa Parocchia immediatamente Posta à mezzo giorno, à differenza dell’altra chiesa dell’Annunziata detta di Fuora, che diroccatasi l’anni passati proprio nel fine del caduto secolo con tutte le sue pertinenze per ordini di Monsig.r Berlingieri è stata mutata di sito, e dà sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città è stata trasportata nell’antica di Santa Maria delli Francesi, che smantellata tutta la vecchia, con nuovo è più bel modello refabricatasi da fondamenti, apparisce più vasta.” Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[xx] “Die 11 m.s Augusti 1695 Misuracae. Relaxatae fuerunt l(icte)rae Patentales in for.a Cantoris in personam Rev.s D. Michaelis Angeli Coco loci Policastri”. AASS, 4D, fasc. 3.

[xxi] AASS, 011D fasc. 6.

[xxii] AASS, 72A.

[xxiii] AASS, 011D fasc. 6.

[xxiv] AASS, 25A.

[xxv] Gennaio 1738: “De beneficio simplici S. Caroli Borromei in parochiali seu alia ecclesia S. Francisci de Paula, loci Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 5 duc., de iurepatronatus laicorum, vac. per ob. Dominici Tronca, a 4 mensibus et ultra def., providetur Scipioni Tronca, clerico oriundo, unici patroni filio.” Russo F., Regesto XI, 59231.

[xxvi] AASS, 72A.

[xxvii] “Quattro son oggi le Chiese Parocchiali. La prima è l’Arcipretale di San Nicolò Maggiore delli Latini fra la Tramontana, e Levante, alla quale stanno unite le Parocchie contermini antiche di Sant’Angelo alla Piazza, e di Santa Maria delli Francesi;” Mannarino F. A., cit.

[xxviii] “Se bene d’alcuni moderni nemici capitali della venerand’antichità è stata pregiudicata nel titolo, e la dove l’Altare Maggiore era eretto col la statua di detta Vergine Annunziata, adesso vi anno collocato quella del gran Tamaturgo della Santità e primo ornamento di Calavria San Francesco di Paola quale steva in una Nicchia nell’antica Chiesa à lato destro, con quella di San Leonardo nella sinistra, ed ora per questo Santo, e per detta Regina de’ Santi si sono perfezzionate due Capelle sfondate nel destro fianco ond’è, che per le continue e massime grazie che si ricevono dal Santo Paolano de’ Minimi, vien chiamata dal volgo la nuova Chiesa di San Francesco di Paola. In questa chiesa si è posta in piedi una arciconfraternità, cioè l’istessa antica del SS.mo Sacramento eretta nell’anno mille settecento, e quattordici in tempo del mio primo Corso Quaresimale, contribuendovi io le Patern’esortazioni dal Pulpito, à congregarsino con bella unione, e ferverosa Carità sotto il vesillo dell’altissimo umiliato nell’azzomi; e loro l’opra, mentre fur bastevole dette insinuazioni a movere gli animi de’ nobili inclinatissimi ad’opre di splendida Pietà; sicchè con felicissimo riuscimento si trova numerata di fratelli del primo Ceto, e dà loro insignemente beneficiata.” Mannarino F. A., cit. Un atto del 15 novembre 1743, evidenzia che la confraternita del SS.mo Sacramento si radunava nella chiesa di San Francesco di Paola. AASS, 24B, fasc. 1.

[xxix] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991, f. 139.

[xxx] ASN, Catasto cit., f. 72v.

[xxxi] Dai dati del catasto onciario del 1742, apprendiamo che il massaro quarantenne Matteo Naturile, possedeva un orticello di ½ tt.a, alberato di gelsi neri, nel luogo detto “S.to Fran.co”, ovvero “avanti la chiesa di S. Fran.co”, confinante con la “chiesa di S. Fran.co” e la via pubblica, nel quale si trovavano 2 piedi di gelso nero appartenenti al bracciale trentaduenne Giuseppe Salviati, che ne godeva l’usufrutto vita natural durante. ASN, Catasto cit., ff. 42v e 189. Antonino Floro o Florio di anni 50, custode di vacche, ovvero “Bestiamaro”, possedeva “un vignale nel luogo detto S. Fran:co alberato di Celzi neri Confine il largo della V(enerabi)le Chiesa di S. Fran:co di Paula”. ASN, Catasto cit., ff. 2v e 84-84v. La “Piazza San Francesco” si rileva nell’attuale stradario di Petilia Policastro.

[xxxii] La chiesa di San Francesco di Paola possedeva un vignale “in S. Aloe” (ASN, Catasto cit., f. 72v). Il chierico celibe Luca Francesco Poerio di anni 20, possedeva un vignale “in S.to Aloi”, ovvero in loco detto “la Conicella di S. Aloe” (ASN, Catasto cit., ff. 36 e 174v).

[xxxiii] “Extra moenia”, la “Ecclesia Sancti Francisci de Paula cum duobus Altaribus praeter majus, regitur per suum Procuratorem Eccl(esiasti)cum à me confirmandum.” “Confraternitas SS.mi Sacram.ti, seu Corporis Xpti erecta in dicta Ecclesia S(an)cti Francisci de Paula cum suis Sacris, insignibus, et ministris.” ASV, Rel. Lim. 1765.

[xxxiv] “Confraternitas SS. Sacramenti de anno MD in matrici ecclesia S. Nicolai de Platea oppidi Policastri, S. Severinae dioc., canonice, ut asseritur, erecta et subinde in ecclesia S. Francisci de Paula, eiusdem oppidi, translata, ob eius antiquitatem et bonorum operum exercitium, titulo Archiconfraternitas cum omnibus gratiis et privilegiis, decoratur.”. Russo F., Regesto XII, 67117.

[xxxv] Nella nota dei censi che furono assegnati a D. Antonio De Martino, defunto parroco di S.to Nicola dei Greci, e che ora si assegnavano al suo successore D. Francesco Pullano, tra i censi enfiteutici e bullari dovuti alla chiesa di San Francesco di Paola, risultava quello dovuto dal parroco “D: Pietro grani”, rettore della “Cappella di S. Giacomo”, “per canone in Agosto annui d. 3.00”.  AASS, 24B fasc. 3.

[xxxvi] AASS, 24B fasc. 3.

[xxxvii] 1796-1797: “Chiesa di S. Francesco di Paola duc.ti 57.94”, AASS, 086A.

[xxxviii] ASCZ, Cassa Sacra, Segreteria Pagana, Busta 50, fascicolo 784.

[xxxix] Vivenzio G., Istoria e Teoria de Tremuoti in generale ed in particolare di quelli della Calabria e di Messina del 1783, Napoli 1783, p. 326.

[xl] “Policastro, che fu in gran parte distrutta dal temuoto del dì 28 e il restante fu fracassato, ma non morì alcun cittadino”. De Leone A., Giornale e Notizie dè Tremuoti accaduti l’anno 1783 nella provincia di Catanzaro, 1783.

[xli] “Luoghi e Terreni d’affittarsi della abbolita Chiesa di S. Fran.co di Paola” risultavano: “Ringo”, “S. Aloe”, “Pantano”, “Prosperello”, “Destre di Pellecchia”, un “vignale attaccato a d.a Chiesa”, “Cannarozza”, ed una “Casa sita nella Contrada della Piazza”. ASCZ, Cassa Sacra, Atti Vari 308/3.

[xlii] AASS, 24B fasc. 3.

[xliii] “Bruno Donato, e per esso D. Antonino Caccuri, ed Eredi del med:o per canone sop:a alcuni casaleni contigui alla Chiesa di S. Fran:co, devono in ogni Agosto d. 03.50. D. Antonio Coco ed Elisabetta Pascquale per canone sop:a altri casaleni in d:o Luogo, devono in d:o tempo d. 01.50.” AASS, 24B fasc. 3.

[xliv] AASS, 24B fasc. 3. “Il 9 aprile 1792, per rogito del notaro Caliò di Catanzaro, D. Michelangelo Ferrari comprò dalla Cassa Sacra i seguenti fondi: Pellicchia di Calderari (della cappella di S. Francesco di Paola) per 263 ducati, vignale di Calderari (Cappella delle Pianette) per ducati 17.89, Callea (vignale dell’Annunziata) per ducati 25.92, Cannarozza (porzione della Chiesa matrice) per ducati 17.29.” Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 286.

[xlv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 257. I fondi “Umbro di Fiorello” e “Pantano”, risultavano amministrati dalla Civica Comuneria di Policastro ancora alla metà degli anni Sessanta. Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 290.

[xlvi] “Un altro edificio sacro, che pure è finito in breve lasso di tempo, è il Ritiro, attiguo alla chiesa di S. Francesco; in esso il rev. D. Giuseppe Vallone fondò un collegio di Missioni, quasi ad emulare il vicino Ritiro di Mesoraca. Nell’archivio dell’Arciconfraternita del SS. Sacramento si conserva una copia del R. Assenso di Ferdinando IV di Borbone, il quale sotto la data del 7 gennaio 1803 concedeva si ampliasse la chiesa, che adesso forma tutt’un plesso col presbiterio di S. Francesco.” Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 221.

[xlvii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 204.

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Il monastero dell’ordine di San Francesco di Paola della SS. Annunziata di Cirò

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San Francesco di Paola.

La chiesa dell’Annunziata di Cirò era situata fuori mura, sulla via che congiungeva l’abitato alla via costiera. Essa era all’origine una cappella rurale, che si amministrava come un semplice beneficio e si alimentava di piccole elemosine e lasciti.[i]

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In evidenza la località in cui sorgeva il convento. Particolare del foglio N. 27, della carta del Rizzi-Zannoni (1788).

La fondazione

“De anno 1579 ecclesia Sanctiss.ae Annunciationis sita extra muros in terra Cirò, cum de ea provisus existeret tanquam de Cappellania, et Rectoria beneficio seculari Praesbiter Thomas de Pace, per ordinarium loci fuit concessa sine consensu sedis Apostolicae coenobitis minimorum S. Francisci de Paula sub annua responsione trium librarum cerae pro concessione loci, non obstante protestatione tunc temporis possidentis in preiudicium sedis Apostolicae, et ordinariorum, quoad futuram collationem”. Così si esprimeva il vescovo di Umbriatico Alessandro Filaretto Lucullo (1592-1608), nella sua relazione del 1600.[ii]

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La Relazione del vescovo di Umbriatico Filareto Lucullo (1600).

Secondo una nota al “Regesto” di Francesco Russo il convento fu fondato dal principe Giuseppe Spinelli nel 1578 e aperto dal provinciale P. Domenico da Paola.[iii] Per il Fiore la fondazione avvenne alcuni anni dopo “fu fondato nel 1581 su richiesta di Giuseppe Spinelli, principe di Tarsia”.[iv] Per il Pugliese fu fondato nel 1582.[v]

Da quanto sopra riportato risulta che il convento fu fondato tra il 1579 ed il 1581 su intervento del feudatario di Cirò Giuseppe Spinelli ed il vescovo del tempo, o Vincenzo Ferreri (1578-1579) o Emiliano Bombini (1579-1592), concesse la chiesa dell’Annunziata, situata fuori le mura, previo il versamento annuo alla mensa vescovile di tre libbre di cera. Il convento fu aperto dal provinciale padre Domenico da Paola. Se l’anno esatto della fondazione rimane incerto, è sicuro che trovò in seguito l’opposizione dei vescovi successivi e di parte del clero locale.

Il Papa Gregorio XIII con breve del 28 agosto 1584, confermava l’erezione del convento: “Ad perpetuam rei memoriam. Confirmatur erectio conventus Fratrum Minim. S. Frac. De Paula in terrà Cirò, Umbriaticen. Dioc.”.[vi]

 

I primi documenti

Da alcuni atti notarili del notaio di Cirò Baldo Consulo risulta che nell’ottobre del 1579 il convento è già aperto anche se è in costruzione. Il 29 ottobre 1579 in Cirò, con atto del notaio Baldo Consulo, Francesco Iacobino e la moglie Caterina Marangola si offrono di entrare nel monastero e consegnano tutti i loro beni al monastero ed al reverendo padre Domenico Puglisio de Paula, padre provinciale dell’ordine di San Francesco di Paola e del monastero della SS.ma Annunziata della terra di Cirò. Lo Iacobino dice:“habere devotionem et se offerse cum dicta sua coniuge et cum omnibus suis bonis mobilibus et stabilibus obedientiae et servitiis dicti monasteri”. I beni del Puglisiio furono: “Alcuni vigneti (“quatuor petiis vinearum”) situati in località la valle de Alomia (“una cum arboribus olivetarum ficarum et aliarum arborum”) e una casa terranea in località la valle. Il monastero gli accoglie per tutta la vita ed il padre Domenico Puglisio promette dare ai due coniugi “victum vestitum et omnia alia necessaria et opportuna” dei beni del monastero.[vii] Sempre nello stesso giorno, Bartolo Ponterio dichiara di voler essere utile al monastero in tutti i servizi necessari come terziario e promette dare ogni anno denaro, alimenti e pietre per la riparazione della fabrica da farsi nel monastero”.[viii]

L’anno dopo si procede alla costruzione attorno alla chiesa dell’Annunziata. Infatti il primo settembre 1580 Francesco Malfitano di Cirò, per amore di Dio e per l’anima dei suoi genitori e antennati ed anche per l’anima sua, concede al padre Felice Altimare, correttore del convento di San Francesco di Paola nella chiesa della SS. Annunziata, per utile comodo e beneficio del convento, di poter fare passare un corso d’acqua attraverso la sua proprietà per mezzo di acquedotto, in modo da alimentare la fossa dove si fa la calce. “Incipiendo ab aqua superiori eius poss.nis dictae dela nuce sub urbanae usq. ad locum dicti conventi”.[ix] Sempre per aiutare i frati nella fabbrica del convento, alla quale è addetto il “magister Johannes Petrus de Parise de la terra di Cirò” (il mastro è ricordato anche per aver fortificato le mura dell’abitato ed il palazzo Alizio), era intervenuto anche il convento dei minimi di Crotone. Il 21 novembre 1582 il R.do padre Dominico Puglisio, correttore del venerabile monastero di S.to Francesco di Paula di Cirò, cede al magister Joannes Petrus de Parise, un casaleno sito nella terra di Cirò in loco “s.to Cathaldo”. Il casaleno era stato donato dal convento di Gesù e Maria di Crotone per aiutare i frati nella fabbrica del monastero.[x]

 

Inizia la formazione della mensa monacale

Ben presto la mensa conventuale aumentò con i beni portati dai nuovi professi, con offerte, donazioni, legati per messe ecc.

Il 25 luglio 1583 si radunano nel chiostro del convento il padre Gio Batt.a de Cosenza, correttore e vicario del convento, ed i frati: Petro de Psycrò, Francesco de Turano, Iacobo de Rossano e Gio. Batt.a de Psycrò. I frati rendono esecutivo un accordo che nei mesi precedenti era stato concordato tra Petro Antonio Calvo e Matteo Lamachia padre provinciale dell’ordine di San Francesco di Paola. L’accordo prevede la permuta di due “possessioni alberate” con ulivi e alberi fruttiferi vicine nel luogo detto la Santa Trinità.[xi]

Il 25 giugno 1591, nel convento di San Francesco di Paola fuori mura, si riuniscono capitolarmente, il reverendo padre Domenico de Paola, provinciale vicario dell’ordine di San Francesco di Paola ed i frati Bernardo Iacobino di Cirò, vicario locale, Antonio Antonio de Castellana, Giovanni de Neapoli e Giovanni Battista delo Cirò. I frati Clemente e Giovanni Battista Caputo, professi da poco, assieme alla vedova Glorianda Caputo dichiarano che possiedono una casa terranea in località la piazza detta di Santa Maria, una possessione alberata in località trappari, una continenza di terre in località lo fodareri, parte di una continenza di vigne in località la cutura. Essi decidono di donare questi beni al monastero di S.to Francesco di Paola, con la condizione che a Glorianda Caputo per tutta la vita, sia assicurato il vitto e vestito ed ogni anno le venga dato “tumulos frumenti octo, tumolum unum fabarum, salmarum … musti per vino cotto” e che possa detta Glorianda raccogliere e fare raccogliere una macina di olive e dalle vigne l’uva per sé “et pallam unam singulis duobus annis et quolibet anno duo pana”. Inoltre i frati devono tenere ed alimentare Minico Caputo, figlio di Glorianda, che servirà nel monastero e sepellire Glorianda a loro spese e con i lumini dentro la chiesa del convento e far celebrare delle messe.[xii]

Il 27 maggio 1593, Donna Elisabetta Salvata della terra di Cirò, erede di Jacobo Salvato, dichiara al frate Iacobo Iacobino, correttore del monastero di San Francesco di Paola sotto il titolo dell’Annunziata, di possedere una possessione di sicomori ed altri alberi fruttiferi, posta “extra moenia d(ic)tae t(er)rae” loco detto “Caricchia”. Poichè Jacobo Salvato per testamento aveva legato al monastero, ducati 50 per la celebrazione di due messe settimanali, dona la possessione al monastero.[xiii]

 

La grande occasione

Nel 1591 Gio. Domenico Vivacqua della terra di Cirò moriva a Napoli dove si era stabilito ed esercitava la professione legale. Il Vivacqua per testamento lasciò i tutti i suoi averi al convento di San Francesco di Paola di Cirò, gravandoli “di due annuali maritaggi di duc. 30 l’uno a pro delle discendenti delle sue cinque sorelle maritate in Cirò medesimo”.[xiv]

Il lascito del Vivacqua risultò più che sostanzioso e permise ai frati del convento dell’Annunziata di unirsi assieme a due altri conventi dei minimi, quelli di Cosenza e di Bisiniano, di trarre profitto dalle difficoltà, nelle quali si dibatteva l’università di Cirò verso il fisco.

È del 3 novembre 1594 un atto notarile contratto tra il convento e l’università di Cirò, rogato dal notaio Durande nel castello di Cirò. Il sindaco Gio. Tommaso Trugillo con gli eletti ed i “cives et homines” di Cirò, in presenza e con l’ assistenza del capitano della terra Nicola Godano, si obbligano con il frate Bernardo delo Cirò, dell’ordine di San Francesco di Paola, procuratore e vicario provinciale specialmente deputato a rappresentare i monasteri dell’ordine di San Francesco di Paola dell’Annunziata di Cirò, di Santa Maria de lo Aureto della città di Cosenza e di Santa Maria de Licorica della città di Bisignano, come da procura rilasciata dal provinciale dell’ordine, il Rev.do frate Petro Sambiase. I cittadini dispongono di alcune proprietà sulle quali chiedono un prestito di ducati 2407 e tre carlini, che devono versare a Gio. Giacomo Salerno di Cosenza. Non avendo altra possibilità, si impegnano a versare ai conventi un annuo censo del valore dell’otto per cento del capitale (per un totale di ducati 192 carlini 5 e grana 7) sulle rendite annuali dei loro beni.

La trattativa tra l’università ed i conventi proseguì anche nel mese seguente. Il 3 dicembre 1594 il vicario Fra Francesco di Castelnovo ed i frati del monastero dell’Annunziata di Cirò chiedono l’assenso a fare un istrumento censuale con l’università ed i cittadini di Cirò di ducati 1407 e 3 carlini, impiegando il legato del fu Gio. Domenico Vivacqua. Nello stesso giorno il correttore Fra Lorenzo de Malvito ed i frati del monastero di Santa Maria di Corica di Bisignano chiedono di fare un istrumento censuale con l’università di Cirò di ducati 500 per legato di Fafrizio Cimmino.

Il 14 dicembre 1594 in Cirò, in presenza di Vespasiano Spinello Marchese di Cirò, il frate Bernardo delo Cirò dell’ordine di San Francesco di Paola, procuratore di Petro Sambiasi, Provinciale dell’ordine e del sindaco Tommaso Trugillo in rappresentanza dei cittadini. Il frate Bernardo dichiara che nel mese di novembre fu stipulato un annuo censo di ducati 192 carlini 5 e grana 7 a favore dell’università ora vuole annullarlo.

Da ultimo dopo varie trattative si giunse all’accordo. Il 15 dicembre 1594, nel castello di Cirò, il sindaco Trugillo, convocati gli eletti e tutti i cittadini, ottiene il prestito di ducati 1507 e carlini 3 all’8%, dando in garanzia al convento un censo su tutti i beni dei cittadini (120 ducati 3 carlini e grana 7).[xv]

 

La costruzione della nuova chiesa

I frati continuarono ad aumentare le loro rendite attuando prestiti di capitali all’8%, obbligando i beni dei richiedenti. Il 9 giugno 1595, Andrea e Alfonso Carravetta di Cirò dichiarano di aver avuto dai frati ducati 100 all’8% sulla loro possessione in località Mro Ligori.[xvi]

Alla metà di dicembre del 1595 maturava un’annata del prestito fatto dai frati all’università di Cirò del lascito di Gio. Domenico Vivacqua. Il 26 dicembre seguente il sindaco Quinto Piccolo faceva presente al vicario del convento frate Aloisio de Fiscaldo ed ai frati (Bernardo delo Cirò, Laurentio de Bisignano e Hieronimo de Cosentia) che era in suo deposito ducati 112 – 2 – 17 dovuti al convento dall’università. Egli prometteva di applicare subito detta somma in un annuo censo a ogni richiesta e volontà dei frati.[xvii] Con l’aumento delle rendite i frati, oltre a completare le fabbriche del convento con il chiostro, decisero di dar principio alla costruzione di una nuova chiesa. Anche in questo caso è evidente la presenza degli Spinelli marchesi di Cirò. È in data 5 ottobre 1612 un contratto rogato in Tarsia con il quale i mastri Salvatore e Marco Antonio Iovene di Tarsia si obbligano a costruire la chiesa secondo i patti stipulati a suo tempo con il frate Clemente Caputo, correttore del monastero della SS. Annunziata dell’ordine di San Francesco di Paola di Cirò.[xviii]

Il 5 ottobre 1612, presso la Curia della terra di Tarsia e davanti al capitano, si costituiscono personalmente i mastri Salvatore e Marco Antonio Iuvene, padre e figlio. Con giuramento essi promettono di obbligarsi alla pena di oncie d’oro 25 d’applicarsi alla marchesale corte di detta terra di fare e fabbricare nel monastero della SS.ma Annunziata della terra di Cirò dell’ordine di San Francesco di Paola come è previsto nei capitoli, patti e convenzioni stipulati tra essi mastri e fra Clemente Caputo, correttore del monastero, tanto in nome suo quanto in nome dei futuri correttori e di tutti i frati che pro tempore saranno in detto monastero. “Essi mastri in solidum promettono conferirsi in detta terra delu Zirò per fabricare la nova Chiesa di d.o convento, cossi come nelli infra.tti capituli vd In p.s ad ogne requisitione di detto Padre ò ogni altro superiore di detto convento che pro tempore sara siano tenuti essi mastri presentarsi et constituirsi nella terra de lu Zirò al convento preditto à fabricare la nova chiesa, verum che siano tenuti detti Padri avesare detti mastri quindici giorni prima, quale fabrica sono remasti d’accordio à lavorarla à raggione di canna dela mensura napolitana con mettere li vacanti per pieni, et darla ben fatta, et ben condittionata, et rivoccata che sara, seu à cazza chiana, et li detti mastri non hanno à mettere altro che l’opera, et arte loro, e, li manipoli à loro spese cossoi delle persone, nel vitto e nel salario dela fatiga: et il simile’intenda di essi mastri, et il detto Padre fra Clemente promette pagare detta fatiga à raggione di carlini otto la canna perche cossi sono convenuti tra essi, et de piu promette stantia et letto per uso di essi mastri et uno letto per li manipoli cio è uno salleni ò casu et tutti li stigli necessarii alla fabrica, lhabia à mettere il monasterio, e che le forme delle cappelle non passino per fabrica, et che le forme grandi dela chiesa siano pagati à ragione di car.ni cinque la canna, et essi mastri siano tenuti sformare verum che volendosi scarpellare ò rivoccare le lamie, resta a dar di pio delli Padri, et occorrendo farli à giornate siano pagate le giornate à detti mastri à carlini cinque lo giorno per tutti d.ti cio, è à venticinq. gra/na, per uno il giorno à spese del monasterio. Promettino de più essi mastri che occorrendo ò volendo detti Padri fabricare altre fabriche cio è residui in detto monasterio farli alla medesma raggione di grana venticinq. lo giorno à spese di detto monasterio; et havendo manipoli detti mastri che siano pagati come si pagano li altri allo paese: et che le toniche siano pagate à grana undici la canna: promette detto Padre reducere tutto lo ammanamento della fabrica intorno et dentro la chiesa e da quaranta palmi incirca lontano et de piu detto padre consigna hoggi docati vinti presentialmente et manualmente alli detti Salvatore et Marco Antoniio à buon conto dell’opera facienda dela chiesa ut s.a et hano voluto per patto expresso che li detti docati vinti non loro seli scompitino insino alla fine dell’opera, et mancando de venire, e prosequire la detta opera, e fabrica insino al fine sia licito ad essi Padri di detto monasterio chiamare altri mastri à spese et interessi di essi Salvatore e marco Antonio, et accordarli à fabricare detta opera ad ogni prezzo che si potra etiam à maggiore dela presente cautela, qualiter dato à spese , danno et interessi di essi mastri Salvatore et Marco Antonio et anche promette pagare tutte le forme dele cappelle et ogni altra lamia che havessero da fare à carlini cinque la canna, avertendo che quelle vacanti se habia da dare per pieni quelli che non arrivano à dudici palmi, et quando se mandano à chiamare che habiano da fatigare almeno uno mese …”.

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La chiesa (foto E. Infantino).

Il saccheggio di Cirò

Il 10 giugno 1707 Cirò subisce il saccheggio da parte dei Turchi. I Turchi sbarcati da dieci grandi bastimenti, penetrano in Cirò ed assediano il castello del principe di Tarsia. Prima che i Turchi possano entrarvi, coloro che vi si erano riparati, per non cadere schiavi, cercano di abbandonarlo buttandosi “dalla fenestra dalla parte di sotto il castello. Il primo à buttarsi fù un religioso de’ i Minimi di Rossano, il quale era qua venuto col suo Padre Correttore che vi rimase schiavo. I saccheggiatori “andarono bensì a d’ar fuoco alla chiesa de’i minori conv(entua)li, ed a fracassare l’altra de’i PP Cappuccini pigliandosi q(ua)nto ritrovarono, fuor che le stole, e i manipoli”. “Un religioso Minimo sentendo il rumore ed il gridar dei Turchi presa la sagra Pisside e tutti gl’altri vasi appartenenti alla sua chiesa se ne fuggì per la parte di sotto del Convento e terminato il sacco tornò indietro ma quantunque havesse trovato il suo convento salvo, portò nondimeno à custodire ogni cosa à Crucoli”.[xix]

 

Liti con l’università e soppressione del convento

Con atto del notaio Luigi Nasca del 6 maggio 1634, San Francesco di Paola fu proclamato principale patrono e protettore di Cirò.[xx] Questo e le numerose rendite provenienti dai censi facilitarono al convento di superare la crisi seicentesca ed a fare del convento dei minimi il più ricco tra i conventi di Cirò. Con l’arrivo dei Borboni e con le nuove disposizioni emanate dal Regno di Napoli, che tassava i beni dei conventi per metà quelli posseduti prima del Concordato del 1741 e per intero quelli acquisiti dopo, e con la riduzione del tasso sulla rendita sul capitale, che dall’otto per cento della fine del Cinquecento si era ridotto alla metà del Settecento al cinque, pur mantenendo ancora il convento una certa floridezza, iniziò la decadenza. Si acuirono anche i rapporti con l’università di Cirò, sempre più indebitata. Dopo la compilazione del Catasto Onciario istituito da Carlo III, nel 1756 il sindaco di Cirò cessò di pagare i 70 ducati annui, che il monastero esigeva dall’università in vigore del pubblico atto del 15 dicembre 1594, quando l’università si era obbligata per il capitale di ducati 1400 concesso dai frati “… essendosi sospeso in vigore dello Stato discusso di docati settanta, che si contribuiva al monastero di S. francesco di paola per l’annualità di capitale di ducati 1400 irrogato in beneficio di questa università fin da tempo immemorabile … si è avuta per tal caggione fin dall’anno 1755 lungo litiggio con detto monastero …”. Il 7 maggio 1759 fu finalmente raggiunto un accordo, col quale i frati rinunciavano alle annualità passate non pagate e l’università versava nuovamente ai frati i 70 ducati annui.[xxi]

 

La fine

Ormai i rapporti tra l’università sempre più indebitata ed il convento volgevano al peggio. Accusati di numerosi abusi, di condure una vita scandalosa e di non osservare alcuna disciplina monastica, i frati furono oggetto di ricorso presentato dai cittadini al re. “Degenerò tanto la monastica discendenza che fu obbligata Cirò ad invocarne e ad ottenerne nel 1770 la soppressione. La valuta de’ beni che furono per Sovrana concessione dati alla Università risultò de’ Paolotti ducati 13171.21, Conventuali 4691.22, Riformati 330.00, Capuccini 222.10”. All’atto della soppressione il convento conservava un vasto patrimonio sia di censi che di fondi, parte dei quali passarono nel 1774 in potere dell’università di Cirò (Difesa di Malocretazzo, S. Biase, Frandina, Falde di S. Elia).[xxii] Le numerose messe che i frati dovevano celebrare come obbligo per i numerosi beni lasciati dai fondatori del convento e dai benefattori erano state praticamente ridotte ad una sola alcuni anni prima dal papa Benedetto XIV.[xxiii]

Soppresso con decreto di Ferdinando IV del 30 ottobre 1770, le fabbriche del convento furono messe all’asta e aggiudicate nel 1777 a Don Benedetto Siciliani.[xxiv]

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In evidenza la località San Francesco.

Note

[i] “Item lassa alla processione de la nunziata et de San Fran.co et corpo di Xpo 0 – 0 – 15. Item lassa lo corpo suo sia sepulto dentro la chiesa de la nunciata fora le mura de detta t.ra 0 – 2 – 0” (ASCz, Not. Cesare Cadea, B. 6, ff. 154, 165, 328).

[ii] SCC. Rel. Lim., Umbriaticen. 1600, f. 125.

[iii] Russo F., Regesto V, p. 110, in nota.

[iv] Fiore, II, 653 (Rist.).

[v] Pugliese G. F., Descrizione, I, 201.

[vi] Russo F., Regesto, 23688.

[vii] ASCZ, Not. Consulo B., busta 8, ff. 352v-353.

[viii] ASCZ, Not. Consulo B., busta 8, f. 353v.

[ix] ASCZ, Not. Consulo B., busta 8, f. 400.

[x] ASCZ, Not. Consulo B., busta 8, ff. 554v-555.

[xi] ASCZ, Not. Consulo B., busta 9, ff. 42v-43r).

[xii] ASCZ, Not. Durande G. D., Busta n. 36, ff. 181-183.

[xiii] ASCZ, Not. Durande G. D., Busta n. 36, ff. 370.

[xiv] Pugliese G. F., Descrizione, I, 206.

[xv] ASCZ, Not. Durande G. D., Busta n. 36, ff. 279 sgg.

[xvi] ASCZ, Not. Durande G. D., B. 36, f. 579.

[xvii] ASCZ, Not. Durande G. D., B. 36, f. 620.

[xviii] ASCZ, Not. Cesare Cadea, B. 6, ff. 173-174.

[xix] Relazione del commissario apostolico. Cirò 12 giugno 1707, Nunz. Nap. 137, f. 300-301, ASV.

[xx] www. ilcirotano. it.; SCC. Rel. Lim. Umbriaticen., 1684 sgg.

[xxi] ASCZ, Not. Durande G. D., Busta n. 36, ff. 279 sgg.

[xxii] SCC. Rel. Lim. Umbriaticen. 1765; Pugliese G. B., Descrizione cit., I, p. 202.

[xxiii] SCC. Rel. Lim., Umbriaticen., 1763.

[xxiv] www. fattoriasanfrancesco.it

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Toponomastica della città di Umbriatico

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Veduta di ”Umbriatico” contenuta nel “Regno napoletano anatomizzato dalla penna di D. Fran.co Cassiano De Silva lombardo” (1708).

Pubblichiamo in forma di regesto, alcuni atti stipulati in Umbriatico durante la seconda metà del Cinquecento, appartenenti ai protocolli dei notari Cesare Cadea e Baldo Consulo di Cirò, conservati all’Archivio di Stato di Catanzaro. I riferimenti toponomastici contenuti in questi atti, che fanno luce sui luoghi più caratteristici della città, sono stati integrati con quelli contenuti nel catasto onciario del 1743.

 

Il castello

“Umbriatico ha due porte-fortino alle estremità del paese: una adiacente al rione castello, dove ancora si notano avanzi di un antico edificio medioevale, precisamente all’imboccatura del viadotto accanto al quale sono visibili le mura di sbarramento con feritoie, che scendono giù fino all’orlo di una rupe sul torrente Bono. La porta, con torretta soprastante, è stata demolita per la costruzione del viadotto stesso. L’altra porta, situata al lato opposto (Porta- fortino di Nord-Est) è malandata, manca di tetto al vano superiore di guardia; tratti di muro di questo sono crollati”.[i] “Il Castello. Questa è la località più preminente di Umbriatico. Qui ancora esistono i ruderi dell’antico castello medioevale andati in rovina per l’abbandono. Ne sono conferma lo spessore dei resti e lo spazio occupato da questi”.[ii]

23 ottobre 1568. Umbriatico. Alla morte di Antonella Gatero, ereditano l’hon: Donato de Moromanno della città di Umbriatico, sposato con Elisabetta Quintera, ed i suoi figli Fabio, Gio. Alfonso, Flaminia e Ippolita. I detti Moromanno prendono in pretito del denaro da Tiberio Mascambrone di Cirò, obligando le case nelle quali al presente abitano, poste “intus d(ic)tam civi.tem in loco d(ic)to lo castello juxta suos fines”.[iii]

15 novembre 1581. Umbriatico. Garecto Stacciuto di Umbriatico, vende al m.co L. Ant.o Prestarà di Umbriatico, la domus terranea sita in loco detto “sub castro juxta domum Antonischae vermicciolae juxta hortale Jacobi de agreste juxta domum Aquilani de um.co via m.te juxta aliam viam pp.cam et alios fines”, insieme con un ortale contiguo, arborato con sicomori e fichi.[iv]

11 aprile 1587. Umbriatico. Donna Palumba Graeca, “vidua senex”, e Joannelo de Agreste, madre e figlio di Umbriatico, vendono a donna Dea de Montalto, vedova relicta del quondam Aloysio de Agreste, agente con il consenso di Vergilio de Agreste suo padre, la domus palaziata “sine stabulo seu catogio”, sita in loco detto “lo castello juxta domum Aloysii de agreste domum Nicolai cannati viam pp.cam et alios fines”.[v]

Catasto 1743. Domemico Gentile pecoraro, abita in casa propria consistente in due camere basse in luogo d.o il Castello.[vi] Natale Pirillo bracciale, abita una casa nuova non finita in luogo d.o il Castello.[vii] La cappella di S. Francesco di Paola, canonicato, possiede un comprensorio di case luogo detto il castello consistente in cinque camere superiori e quattro bassi.[viii]

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Umbriatico (KR).

Capo delo Castello

25 gennaio 1579. Umbriatico. Ascanio Bisignano di Umbriatico, vende a Vestiano Vermiciolo di Umbriatico, la domus terranea “sita in lo capo delo castello juxta domum garetti stacciuti, domum Aquilani de um:co domum Crucis Citerà et alios fines”.[ix]

27 aprile 1579. Umbriatico. Do. And.na Caputa di Umbriatico, vedova del quondam Donato de Agreste, assieme ai suoi figli Petro, Minico e Joannes, promette a donna Sena de Agreste, che sposava Garecto Stacciuto di Umbriatico, una casa palaziata, sita dentro la città di Umbriatico “allo capo delo castello con un casalino contiguo verso scirocco confine li celsi de li m.ci de plestarà la via pp.ca et altri confini”, ed un “molino de acqua loco dicto lo fiume vicino la via pp.ca et altri confini”. Il R.do D. Silvestro Consentino, cugino di detta donna Sena, prometteva dieci ducati “al tempo dela fera de senise seu aruntiae”.[x]

18 novembre 1579. Umbriatico. Garetto Stacciuto di Umbriatico, vende a do. Ant.a Grande di Umbriatico, moglie di Perruccio Filitani, la domus terranea sita in loco detto “lo capo delo Castello borea versus juxta aliam m.tem dictae domus ipsius do: Ant.ae juxta casalenos her.m vincentii de agreste viam convicinalem et alios fines”.[xi]

Catasto 1743. D. Salvatore Medea sacerdote, possiede una casa nel luogo il capo del castello consistente in due camere superiori e due inferiori, più due orti attaccati a dette case.[xii]

 

San Donato

7 agosto 1586. Umbriatico. Il m.co Petro Ant.o Arcurio di Umbriatico vende al m.co Fr.co de Cotrone di Umbriatico, il catogio sito in “loco et convicinio s:ti Donati juxta domum martini squillaci domum cappellae s.mi sacramenti viam pp.cam”.[xiii]

7 agosto 1586. Umbriatico. Jo: Laur.o Prestarà di Umbriatico assieme a sua moglie donna Catherina de Russo della terra di Melissa, permutano la loro domus palaziata consistente in più membri, ovvero “cum Catogyo et Antro sita intus dictam civ.tem in loco dicto la munnaca juxta domum R.di d. gabrielis criteni domum gasparis Tutini viam pp.cam et alios fines”, ovvero posta “intus civ.tem praefatam loco ubi dicitur sopra la monnaca juxta domum ex una parte gasparis lamerata et domum ex parte altra p(res)b(ite)ri gabrielis criteni viam pp.cam et alios suos notorios fines”, con la domus terranea del R.do D. Demostene Falcono di Umbriatico, sita “in convic.o s:ti Donati iuxta domum m.ci Jo(ann)is mar(iae) falconi sui patri viam pp.cam et alios fines”.[xiv]

11 aprile 1587. Umbriatico. Il m.co Jo. Leonardo de Paula di Umbriatico, vende al R.do D. Demostene Falcono di Umbriatico, il “pistinum seu centimolum in or.ne sine mula”, sito e posto nel catogio della sua domus palaziata “in loco lo destro apud s.tum Donatum et alios fines”.[xv]

 

Cappella del SS.mo Rosario

16 maggio 1587. Umbriatico. La cappella del “sacratissimi Rosarii intus Cathedralem ecc.am s:ti Donati”.[xvi]

Catasto 1743. Pio monte frumentario della cappella del Rosario.[xvii] Cappella del Rosario.[xviii]

 

Palazzo Vescovile

15 ottobre 1562. Umbriatico. Atto stipulato “in ep(iscop)ali palatio eiusdem Civ.tis” dove si costituisce il vescovo di Umbriatico Cesare Fogia. Sottoscrivono l’atto il R.do D. Gio Battista Long.co “archid.o” ed il R.do Ant.no Galeoto “cantore”.[xix]

7 maggio 1574. Umbriatico. Valerio Citerà della città di Umbriatico, vende a Gratiano de Agreste la domus terranea sita dentro la città di Umbriatico “in convic:o episcopali juxta domum palatiatam mattei citerà, viam pp.cam qua itur ad s.tum donatum juxta palatium donnae Blancellae plestarà vinella m.te et alios fines”.[xx]

Catasto 1743. “Un palazzo attaccato alla chiesa Cattredale dove abbita d.o Mons.re Ill.mo (Domenico Antonio Peronaci) con sua famiglia e cancelleria in quei tempi, che risiede nella sud.a Città, consistente in tredici membri, ò siano camere, ò leggette superiori con rispettivi bassi, dalle quali non percepisce cosa veruna = Un orto, ò sia giardinetto attaccato a d.o palazzo arborato con diversi alberi di capacità d’una meza tumolata”.[xxi]

 

La Portella

Catsto 1743. La mensa vescovile di Umbriatico esige un censo enfiteutico da Giuseppe … sopra una casa loco d.o La Portella.[xxii]

 

La Platea (La Piazza)

27 maggio 1568. Umbriatico. Per stipulare l’atto, il notaro si porta “ad platea” della detta città.[xxiii]

25 luglio 1567. Umbriatico. Il notaro stipula l’atto portandosi “ad potecam hettoris marini positam in plateam ditti Civ.tis jux.a suos notorios fines”.[xxiv]

17 febbraio 1587. Umbriatico. Atto stipulato “in platea pp.ca dictae civ.tis”.[xxv]34

20 gennaio 1593. Umbriatico. In relazione alla donazione fatta negli anni passati dai quondam m.ci Sergio e Bellisario Log.co al subdiacono Caesare Log.co loro padre, Jo. Battista, Nardo e Mario Long.co di Umbriatico, aggiungono alla donazione la domus palaziata sita “apud plateam s.ti donati cum cubilibus et catogiis et moeneanis juxta domum m.ci Jo(ann)is leonardi de paula juxta duas vias pp.cas ex duobus lateribus et alios fines”.[xxvi]

Catasto 1743. Domenico Arturi massaro, possiede una casa nella piazza.[xxvii] Il mag.co Domenico Giuranna (morto dopo la rivela), e per esso i suoi eredi, possiedono un compensorio di case site nella piazza, consistenti in sette camere superiori e cinque inferiori o bassi, ed un altro comprensorio di case nel medesimo luogo, formato da due camere superiori e otto bassi.[xxviii] Il mag.co Francesco Giuranna nobile vivente, possiede una casa consistente in otto camere superiori ed altrettanti bassi, con cortile e cisterna sita nella piazza con un orto ossia giardinello.[xxix] Silvestro Costa bracciale, abita in casa propria nella piazza.[xxx] Tomaso di Fazio fabricatore, abita in casa propria con orto nella piazza.[xxxi] D. Domenico Labonia sacerdote e canonico, possiede una casa nel luogo detto la piazza, luogo isolato, consistente in due camere superiori e due bassi con una grotta per uso di stalla ed un orto.[xxxii] D. Domenico Giuranna sacerdote e primicerio, possiede un comprensorio di case site nella piazza, consistenti in tre camere superiori e due inferiori, attaccato alle quali vi è un orto sbarro.[xxxiii] Il Capitolo possiede un casa nella piazza.[xxxiv] La cappella del Rosario possiede una casa col superiore e basso nel luogo detto la piazza.[xxxv]

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Umbriatico (KR), Monumento ai Caduti della Grande Guerra.

Chiesa di Santa Maria dela Grazia

7 agosto 1567. Umbriatico. Il notaro si porta nella domus di Vergilio Murumanni di Umbriatico sita “jux.a apotecam pauli lansi jux.a domum luca ver.li et alios fines” per stipulare il testamento di Nuccia de Franzi moglie di detto Vergilio. La testatrice lasciava alla “ven.le ecc.a de s.ta maria dela gr(ati)a” cinque grana per la sua riparazione. Lasciava per riparazione “de s.ta maria” una cinquina per messe.[xxxvi]

6 maggio 1568. Umbriatico. Per stipulare il testamento di do. Dominica de Raffo alias de Errico, il notaro si porta nella domus di Antonio Raffo suo marito, posta dentro la città di Umbriatico “jux.a domum petri antoni panis albi et aliam domum ipsius antonii et alios fines”. La testatrice disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Donato. Lasciava alla cappella del Sacramento della città grana quindici. Lasciava per riparo di “santa maria dela gr(ati)a” grana cinque.[xxxvii]

25 aprile 1568. Umbriatico. Il notaro si porta nelle domos di Joannes Bap.ta Rodio di Umbriatico, “in convicinio delo capo de santa maria, iux.a viam pp.cam ex duabus lateribus” e proprio “in domo media dittarum domorum”. Disponeva che la casa “de verso m.o virgilio di cotrone cio e la p.a sia de jo(ann)ello vertichio suo nepote”. Disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa di S.to Donato. Lasciava alla cappella del Sacramento di detta città carlini quattro. Lasciava per riparo di “santa maria de strongolo” un carlino ed un carlino “ad santa maria dela gr(ati)a de detta città”.[xxxviii]

Catasto1743. la chiesa di Santa Maria delle Grazie canonicato.[xxxix]

 

Chiesa di Santa Maria de Strongolo

8 agosto 1565. Umbriatico. Per stipulare il testamento della mag.ca Eleonara Plastera di Umbriatico, moglie del no: Joannes de Riccia della terra di Campana, il notaro si porta nella domus del mag.co Joannes Petro Plastera, sita dentro la città di Umbriatico “jux.a domum donati murumanni quadam vinella seu Cursu aque m.te jux.a versus austrum viam publicam et versus boream jux.a stalla ipsius m.ci jo(ann)is petri”. La testatrice disponeva di essere seppellita dentro la chiesa di S.to Donato “in la sepultura dove sono tucti li corpi di li suoi antecessori de plastera”. Lasciava cinque carlini a mons. Cesare Foggia vescovo di Umbriatico. Lasciava per riparazione di “santa maria de strongoli” due carlini. Lasciava per riparazione della cappella del Sacramento due carlini.[xl]

16 dicembre 1567. Umbriatico. Per stipulare il testamento di do. Auelia de Venuto, il notaro si porta nella domus di Petro de Venuto, sita dentro la città di Umbriatico “iuxta domum jonfrida citera jux.a aliam domum ipsius petri et alios fines”. La testatrice disponeva di essere sepolta nella chiesa di S.to Donato. Lasciava un carlino per riparo della cappella del Sacramento. Lasciava a “santa maria de strongulo” per riparo grana cinque.[xli]

31 luglio 1568. Umbriatico. Il notaro si reca nella domus di Gesane Citera vedova del quondam Leonardo Le Quaglie, sita “iux.a viam publicam q.a itur ad s.ta m.a jux.a domum catadi serafini vinella m.te jux.a domum antonelli plastera vinella m.te et alios fines, per stipulare il testamento di detta Gesane. Quest’ultima asseriva di possedere “una grutta justa vicino s.ta m.a de strongoli jux.a la grutta delli plastera jux.a la grutta de me notar cesare cadea et altri fini” che lasciava al vescovo di Umbriatico per farla seppellire. Sottoscrive l’atto do. Fran.co Rodio arcipresbitero.[xlii]

 

Chiesa di San Rocco

10 settembre 1564. Umbriatico. Il notaro si porta nella domus di Petro Citera sita dentro la città di Umbriatico “jux.a domum petri de venuto jux.a ven.lem ecc.m s.ti rochi jux.a viam publicam et alios fines”. Lasciava usufruttuaria sua moglie Ber.na de Tascione a patto della sua vedovanza. Stabiliva di essere sepolto nel vescovato di S.to Donato. Lasciava alla processione del santissimo Corpo di Cristo cinque grana ed altrettante per riparazione della detta cappella.[xliii]

 

Cappella del SS. Sacramento

2 agosto 1567. Umbriatico. Il notaro si porta nella domus terranea di Nicolaus dele Quaglie sita nella città di Umbriatico “jux.a apotecam Jo(ann)is D(omi)n(i)ci de cava jux.a domum vergilii mur.ni jux.a domum her. q.o tadei de amico et alios fines” per stipulare il testamento del detto Nicolao. Il testatore diponeva che la detta casa sarebbe rimasta a sua moglie Armellina. Disponeva inoltre di essere sepolto “dentro la cappella del sacram.to di detta città” per riparo della quale lasciava due carlini. Sottoscrive l’atto do. Fran.co Rodio arcipresbitero.[xliv]

Catasto 1743. “La Cappella del SS.mo Sagramento.”[xlv]

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Umbriatico (KR), Porta Fortino.

Capo de Santa Maria

2 dicembre 1575. Umbriatico. Fr.co e Antonello Rodio di Umbriatico vendono a Virg.o de Cotrone della terra di Cirò, ma incola nella città di Umbriatico, una “spelunca” ovvero “Antrum situm intus dictam civ.tem loco detto lo capo de s.ta maria juxta Antrum Nicolai plesterà, ex parte superiori domum et hortale Tadei Nibridi viam pp.cam et alios fines”.[xlvi]

12 gennaio 1579. Cirò. Angelo de Cornu di Umbriatico, vende a Joannello Caligiurio di Umbriatico, la sua domus terranea con “quadam camera” posta dentro la città di Umbriatico, in loco detto “lo capo de s.ta maria juxta domum q.o do: ligiae mastrandriae juxta domum do: Aligiae ferrarae viam pp.cam et alios fines”.[xlvii]

25 gennaio 1579. Umbriatico. Il nob. Georg.o Custavalis di Umbriatico permuta la sua domus terranea con ortale contiguo “sita in lo capo de s.ta maria juxta viam pp.cam circum circa et alios fines” e detto ortale sito nello stesso loco con detta domus “juxta hortale donnae Crucettae vertichiae iuxta vinellam qua itur de orsum ad aliam viam pp.cam”, con la domus terranea di do. Blanca Plesterà di Umbriatico, agente con il consenso di suo marito Angelo Rizuti, sita nello stesso loco detto “lo capo de s.ta maria juxta domum her.m scipionis consentini domum Nardi consentini viam pp.cam superiorem et alios fines”.[xlviii]

24 agosto 1582. Umbriatico. Bartholo Pastore di Umbriatico, vende a Caesar de Manerio di Umbriatico, la domus terranea con un casalino contiguo, sita in loco detto “lo capo di santa maria intus dicta civ.tem juxta domum Joannelli caligiurii domum donnae Alegrae ferrara ex parte inferiori viam pp.cam et alios fines”.[xlix]

24 agosto 1582. Umbriatico. Joannello Rodio di Umbriatico, permuta “duo cubicula sita loco dicto lo destro juxta domum dicti caesaris manerii juxta domum Nisii de manerio juxta domum her.m onorii lapaunissa viam pp.cam et alios fines”, con la domus terranea ed un caseleno contiguo di detto Caesar, posti “juxta domum Joannelli caligiurii posita in regione seu lo capo de s.ta maria juxta domum do: Alegrae ferrarae viam pp.cam ex parte inferiori et alios fines”.[l]

12 gennaio 1583. Umbriatico. Bartholo Pastore di Umbriatico vende al no. Virg.o de Cotrone della terra di Cirò, un ortale con un albero “sycomi situm intus dictam civ.tem in loco seu capo s:tae mariae apud Antrum dicti virgilii juxta domum ipsius Bartholi, quae nunc possidetur à Joannello rodio viam pp.cam et alios fines”.[li]

 

Santa Maria

7 agosto 1567. Umbriatico. Il notaro si porta nella domus di Vergilio Murumanni di Umbriatico sita “jux.a apotecam pauli lansi jux.a domum luca ver.li et alios fines” per stipulare il testamento di Nuccia de Franzi moglie di detto Vergilio. La testatrice lasciava alla “ven.le ecc.a de s.ta maria dela gr(ati)a” cinque grana per la sua riparazione. Lasciava per riparazione “de s.ta maria” una cinquina per messe.[lii]

25 gennaio 1579. Umbriatico. Miccaro Cosentino di Umbriatico, conferma la donazione che aveva già fatto il 21.10.1578, a donna Continentia de Jonfrida alias de Scavello di Umbriatico, “suae matruae” e moglie di Minico de Lavia, riguardanti alcuni beni tra cui: il “palatium” sito dentro la città di Umbriatico in loco detto “lo capo de s.ta maria juxta palatium Cristinae rodiae domum Job(aptist)ae Juelis viam pp.cam ex duobus lateribus unum pedem celsi et unum Antrum subter ecc.am s.tae mariae juxta celsos ecc.ae s.tae mariae et alios confines”.[liii]

Catasto 1743. Biaggio Ioverno massaro, possiede un casaleno diruto ed un orto luogo d.o S. Maria.[liv] Biaggio Martuccio massaro, possiede una casa data in fitto ed un orto luogo d.o S. Maria.[lv] Domenico Anania abita in casa propria e possiede altre due case ed un orto luogo d.o S. Maria.[lvi] Domenico Agritani nobile vivente, possiede un orto luogo d.o S. Maria.[lvii] Francesco Antonio Guerra magazeniere, ha una grotta nel luogo S. Maria.[lviii] Filippo Capalbo massaro, ha una grotta ed un orto luogo S. Maria.[lix] Giuseppe Bassio bracciale, ha un orto luogo S. Maria.[lx] Giuseppe Pisano mulattiero, possiede un casaleno diruto luogo S. Maria.[lxi] Giovanni Ferraro bracciale, possiede una casa in luogo S. Maria.[lxii] Gio. Batt.a Labonia bracciale, possiede un piede di celso luogo S. Maria.[lxiii] Giuseppe Pugliese massaro, possiede una grotta luogo S. Maria.[lxiv] Giuseppe Cristiano possiede una grotta luogo S. Maria.[lxv] Geronimo Salvato possiede un orticello luogo S. Maria.[lxvi]  Leonardo Campana bracciale, possiede una grotta e orto luogo S. Maria.[lxvii] Leonardo Agresti bracciale possiede un casaleno diruto luogo S. Maria.[lxviii] Marsio Colosimo massaro, possiede due case luogo S. Maria.[lxix] Nicolò Martuccio bracciale, possiede una grotta loco S. Maria.[lxx] Pietr’Angelo Fazio massaro, possiede un orto loco S. Maria.[lxxi] D. Domenico Giuranna sacerdote e primicerio, possiede una grotta loco S. Maria.[lxxii] La chiesa della Santissima Annunciata, canonicato, possiede due pedi di celsi ed un orto con un pede di celso bianco in loco S. Maria.[lxxiii] Il capitolo possiede tre piedi di celso nero in loco S. Maria.[lxxiv] La cappella di S. Francesco di Paola, canonicato, possiede un magazeno con una grotta sotto in loco S. Maria. [lxxv] La cappella del SS.mo Sacramento possiede una casa diruta in loco S. Maria.[lxxvi]

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Umbriatico (KR), Porta Fortino.

Chiesa di Santa Maria de la Nive

16 maggio 1587. Umbriatico. Affinchè possano essere celebrate le messe in suo suffragio nella cappella del “sacratissimi Rosarii intus Cathedralem ecc.am s:ti Donati”, l’ho. Petro Russo di Umbriatico, dona al R.do D. Vespesiano Arcurio di Umbriatico, due ortali “cum sycomis” siti “intus dictam civ.tem”. Il primo “apud templum s.tae mariae de la nive juxta sycomum ipsius donatoris viam pp.cam et alios fines” redditizio alla curia principale per grano uno, il secondo sito “in convic.o ecc.ae s.tae mar(iae) de strongolo juxta sycomum her.s q.o Jo(ann)is de falcono viam pp.cam et alios fines”, similmente redditizio alla curia principale per grano uno.[lxxvii]

 

La Piaczetta

22 maggio 1575. Umbriatico. Fr.co Rumeo di Umbriatico, vende a do. Fr.ca Bisignana di Umbriatico, la domus terranea sita in loco detto “la piaczetta” “iuxta domum hectoris marini domum donnae mirandae Criteni juxta apotecam ipsius fr.ci et alios fines”.[lxxviii]

 

La Manca

13 settembre 1575. Umbriatico. Jo: Laur.o Filitano di Umbriatico vende a Hector Marino di Umbriatico, la domus palaziata sita in loco detto “la manca” “juxta domum her.s Arduini de martino domum ipsius hectoris viam pp.cam ex parte superiori et alios fines”.[lxxix]

27 agosto 1577. Umbriatico. Anselmo Tasciono di Umbriatico vende a Jacobo Bruno di Umbriatico, un ortale con due alberi di “sycomi” redditizio alla curia principale, posto “intus dictam civ.tem” loco detto “lo manco” “juxta hortale dotale pauli de luca juxta hortale hectoris de marino et domum dicti Jacobi viam pp.cam et alios fines”.[lxxx]

15 settembre 1586. Umbriatico. Donna Laura de Leone di Umbriatico vedova relitta dell’ “ex.tis d(omi)ni” Jo: Petro Presterà, assieme al m.co Luca … Presterà suo cognato, in qualità di contutori testamentari del detto Jo: Petro, vendono a Marco Ant.o Griffaldo, la domus palaziata con ortale contiguo sita “intus dictam civ.tem in loco dicto lo manco juxta hortale dicti q.o d(omi)ni testatoris hortale Alfonsii mur.ni viam pp.cam et alios fines”.[lxxxi]

 

Lo Destro

13 settembre 1575. Umbriatico. Nardo de Napoli di Umbriatico, vende Jo: Laur.o Filitano di Umbriatico, la domus palaziata sita in loco detto “lo destro” “juxta domum her.s jo(ann)is de falcone domum fr.ci pastoris viam pp.cam et alios fines”.[lxxxii]

27 agosto 1577. Umbriatico. Il R.do D. Philippo de Paula di Umbriatico, dona al cl. Demostene de Falcone suo nipote, un ortale con un albero di “sicomi” posto “intus dictam civ.tem” loco detto “lo destro” “juxta hortale m.ci jo(ann)is leonardi de paula et alios fines”.[lxxxiii]

20 agosto 1580. Umbriatico. Hier.mo Papaioannes della terra di Cirò ma abitante in Umbriatico, vende a Jo. Teofilio Pantisano di Umbriatico, un “Antrum” sito in loco detto “lo destro juxta Antrum monetti citerà Antrum m.ci Jo: Caesaris pantisani”, con un ortale “iuxta illud”.[lxxxiv]

28 maggio 1582. Umbriatico. Zibideo de Martino di Umbriatico, vende a Caesare de Manerio agente come tutore degli eredi di Hectore de Marino, un ortale sito in loco detto “lo destro juxta domum her.m Ant.nii raffi vinella m.te juxta vias pp.cas circum circa et alios fines”.[lxxxv]

28 marzo 1583. Umbriatico. Georgio Custabalis di Umbriatico, vende a Caesar de Manerio di Umbriatico, una “speluncae” o “Antrum situm intus dictam civ.tem in loco detto lo destro quod fuit petri vermiccioli juxta casalenum cappellae s.mi sacramenti juxta hortale her.m R.di fr:ci rodii viam pp.cam et alios fines”.[lxxxvi]

28 marzo 1583. Umbriatico. Donna Justinia Criteri di Umbriatico, vedova del quondam Ber.no Vermiccioli, dona al cl. Donato caligiurio suo nipote, la domus terranea “cum uno clibano seu … dicto furno” sita in loco detto “lo destro juxta domum her.m Onorii paunissae juxta casalenum ecc.ae divae Ann.tae et alios fines”.[lxxxvii]

13 novembre 1585. Umbriatico. Il no. Petro Ant.o Arcurio di Umbriatico e sua moglie donna Dianora de Maneri, vendono a Gaspar Lamirata “incola” nella città di Umbriatico, la domus terranea sita in loco detto “lo destro juxta domum laurentii presterà viam pp.cam et alios fines”.[lxxxviii]

7 agosto 1586. Umbriatico. Nisio Raffo di Umbriatico, vende al m.co Petro Ant.o Arcurio di Umbriatico, la domus palaziata sita in loco detto “lo destro juxta vias pp.cas ex duobus lateribus et alios fines”.[lxxxix]

10 febbraio 1587. Umbriatico. Blasio Mele di Umbriatico, vende a donna Hisabella de Dactilo della terra di Melissa, vedova del quondam Erasmo Gritti, la domus terranea sita in loco detto “lo destro juxta domum Zibidei de martino domum her.m Joannelli citerà juxta viam pp.cam et alios fines”.[xc]

10 febbraio 1587. Umbriatico. I fratelli Abdenago, Sempronio e Domitio dele Quaglie, tutti di Umbriatico, anche per parte di Joannes Vincentio e Nicolao loro fratelli assenti, vendono al magister Lorentio de Palermo, la metà di un casaleno sito e posto in loco “lo destro juxta domum donnae Briseidis panis albi juxta domum Angeli vermiccioli vias pp.cas ex duobus lateribus et alios fines”.[xci]

11 aprile 1587. Umbriatico. Nisio Raffo di Umbriatico vende al m.co Petro Ant.o Arcurio di Umbriatico, la domus terranea con un casaleno contiguo sita in loco detto “lo destro juxta domum gasparis Tutini domum her.m hectoris marini juxta domum p(res)b(ite)ri gabrielis criteni viam pp.cam et alios fines.[xcii]

20 gennaio 1593. Umbriatico. L’ho. Donato Zafferio di Umbriatico dona a suo figlio Jo. Battista Zafferio, la domus terranea posta dentro la città di Umbriatico in loco detto “lo destro juxta domum mag(ist)ri Jo(ann)is pauli marendae domum no: petri ant.nii de arcurio vias pp.cas et alios fines”.[xciii]

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Umbriatico (KR), Porta Fortino.

Lo Grattapone

7 agosto 1586. Umbriatico. Donna Saporita Macri “vidua senex” di Umbriatico, permuta la sua domus palaziata sita in loco detto “lo destro alias lo grattapone juxta vinellam pp.cam et alios fines” con la domus terranea di donna Laura Mancusa di Umbriatico, vedova del quondam Jacobo Rodio, sita in loco “lo destro in regione seu capo de s.ta maria juxta viam pp.cam et ex parte sup.ri vinellam pp.cam juxta Antrum ipsius do: laurae et alios fines”.[xciv]

 

La Chianculla

2 dicembre 1575. Umbriatico. Donna Meria de Paula di Umbriatico, vedova relicta del quondam Joannes Citerà, assieme ai figli, donna Fr.ca e Antonello Citerà, vendono a Minico de Lavia della terra di Crucoli, un “Antrum” sito in loco detto “la chianculla” “juxta Antra m.ci Jo: Cesaris pantisani ex duobus lateribus viam convicinalem et alios fines”.[xcv]

 

Nico Letta

7 marzo 1576. Umbriatico. Cannato de Cannato e sua sorella donna Palma de Cannato, entrambi di Umbriatico, vendono per ducati otto a Petro Russo di Umbriatico, la domus terranea con casaleno ed ortale e due alberi di sicomori e fichi, sita dentro la città di Umbriatico in loco detto “nico letta” “juxta olivas her.m Cypriani plestarà hortale Arcangeli Infosini viam pp.cam qua itur ad castellum praefatae Civ.tis, et alios fines”.[xcvi]

 

Monnaca

28 dicembre 1563. Umbriatico. Per stipulare il testamento del no. Blanditio de Cotrone, il notaro si porta nella domus del no. Nardo Long.co suocero del detto Blanditio, sita dentro la città di Umbriatico “jux.a domos no: jo(ann)is leonardi de paula jux.a viam publicam circum circa et alios fines”. Il testatore disponeva di essere seppellito dentro la “parrochia del sacratiss.o corpo de xpo Construtta dentro la ecc.a de santo donato”. Il testatore asseriva di aver pagato Marco Citera per “una grutta alla munnaca di palmi tridici alta ed altri tanti larga et longa”.[xcvii]

1 novembre 1576. Umbriatico. Antonello Juelis di Umbriatico e donna Gioyusa Citerà sua moglie, vendono a Joannes Vermicciolo di Umbriatico, un ortale arborato con “sycomis” redditizio alla curia principale, sito “intus dictam civ.tem loco dicto la monnaca juxta hortale Nicolai panis albi juxta Antrum her.s no: Blanditii de cotrone juxta rivum dela monnaca et alios fines”.[xcviii]

15 settembre 1586. Umbriatico. Donna Elisena Lacava di Umbriatico, moglie di Joannello Caligiuri, conferma a Jo: Dom.co Marino di Umbriatico, agente anche per parte del clerico Paulo e Joannes Ant.o Marino suoi fratelli, la vendita di un ortale posto “intus dictam civ.tem um.ci in loco ditto la monnaca juxta hortum et domum Jacobi bruni iuxta domos ipsius de marino viam pp.cam ex parte inferiori et sycomos petri russi et alios fines”, che suo padre Iuhelis Lacava aveva fatto nel passato al quondam Hectore de Marino padre dei detti de Marino.[xcix]

Catasto 1743. Giulio Rocca calzolaio, possiede un orto arborato con celsi luogo d.o La Monnaca.[c] Leonardo di Bartolo bracciale, possiede un orto nel luogo detto la Monnaca.[ci] D. Domenico Labonia sacerdote e canonico, possiede un orto con quattro pedi di celsi neri e quattro pedi di ulivi nel luogo detto la Monnaca.[cii]  La cappella di S. Antonio Abbate jus patronato della famiglia Suriano, possiede un piede di celso nel luogo detto la Monnaca.[ciii]. La chiesa della Santissima Annunciata, canonicato, possiede tre piedi d’ulivi nel luogo detto la Monnaca.[civ]

 

Cappella di S. Antonio Abbate

Catasto 1743. La cappella jus patronato della famiglia Suriano, fu sospesa essendo diruta.[cv]

 

Capo del Piano

Catasto 1743. Il Mag.co Giacinto Suriano possiede quattro pedi di celso nero ed alcuni pedi di ulivo nel luogo detto la Monnaca o sia Capo del Piano.[cvi]

 

Capo del Suso

Catasto 1743. La cappella del SS.mo Rosario possiede una casa con un membro superiore e un basso nel luogo detto “il Capo del Suso”.[cvii]

 

Cozo delo Niglio

18 novembre 1579. Umbriatico. Jacobo de Agreste di Umbriatico, vende a do. Margarita Thegana della terra di Scala, moglie di Aquilani de Um.co, di Umbriatico, il casaleno sito nel loco “Il cozo delo niglio juxta domum Caesaris carravettae juxta domum Ascanii bisignani juxta sycomos m.ci Arcangeli Infosini vias pp.cas ex inferiori et superiori latere et alios fines”.[cviii]

 

Chiesa di Santo Nicola

20 agosto 1580. Umbriatico. Dionisio de Manerio vende a Memmo de Rose di Umbriatico, la domus terranea sita in loco detto “s.ti Nicolai juxta domus Job(attist)ae mellis viam pp.cam qua itur in templum s.ti Nicolai et alios fines”.[cix]

13 novembre 1585. Umbriatico. Relativamente alla dote di donna Laura Ant.a de Falcone sorella del R.do Demostene de Falcono di Umbriatico, andata sposa all’ho. Benigno Panis Albo di Umbriatico, apparteneva un ortale con celsi ed olivi posto “intro la p.ta città nel loco dicto s.to Nicola confine lo casalino de job(attist)a limagli dala parte de sopra et confine lo casalino de cola de falcone la via pp.ca mediante et altri confini”, con il reddito di tre grana alla corte principale.[cx]

Catasto 1743. Chiesa di S. Nicolò, canonicato.[cxi]

 

Lo Schiglio

3 novembre 1582. Umbriatico. Il no. Jo. Ber.no Tasciono di Umbriatico, permuta una sua possessione arborata sita in loco detto “savuco” con l’ortale di Anselmo Tasciono di Umbriatico, dove erano due “arboribus sycomorum et una Arbore mali punici cum tribus Antris situm intus dictam civ.tem in loco dicto lo schiglio juxta Antra eiusdem jo: ber:ni juxta viam pp.cam dela fischia qua itur ad schilios juxta domum memi de rose et alios fines”.[cxii]

 

Capo dela Fischia

15 novembre 1581. Umbriatico. Il no. Jo. Ber.no Tasciono di Umbriatico, vende ad Anselmo Tasciono di Umbriatico, il “menzanile domus juxta Catogyum ipsius ven.ris ex parte sup.ri juxta casalenum dicti Anselmi juxta viam pp.cam qua itur in locum dictum lo schiglio juxta aliam domum ipsius ven.ris ex parte inferiore” e la “cameram cum catogiolo in loco ditto lo capo dela fischia juxta domum ipsius Anselmi juxta domum dicti venditoris viam pp.cam et alios fines”.[cxiii]

 

Porta Superiore della Città

3 novembre 1582. Umbriatico. Santuccio Larnesiti di Umbriatico, vende do. Ant.na Grande di Umbriatico, moglie di Perruccio Filitani, la domus terranea “cum antro et hortale ex(tr)a dictam domum cum una Arbore sycomi sitam in loco dicto lo convicinio de lo castello juxta viam pp.cam qua itur ad portam superiorem dictae civ.tis juxta domum Jacobi Joelis via pp.ca m.te et alios fines”.[cxiv]

 

Lo Celso

12 gennaio 1583. Umbriatico. La m.ca Beatrix Long.ca di Umbriatico, moglie del m.co Joannes Vincentio delo Sin.co della città di Santa Severina, cede ai pupilli eredi del quondam m.co Bellisario Long.co, nonché eredi del quondam m.co Sergio Long.co, per i quali agiva il R.do sub.no Caesar Long.co di Umbriatico, fratello della detta Beatrice, la domus palaziata sita e posta “intus dictam civ.tem in loco ubi dicitur lo celso juxta domum petri russi juxta domum ecc.ae divae annu:tae juxta domum m.ci Ascanii pirroni viam pp.cam et alios fines”.[cxv]

 

Chiesa di Santa Maria Annunziata

12 gennaio 1583. Umbriatico. “domum ecc.ae divae annu:tae juxta domum m.ci Ascanii pirroni viam pp.cam et alios fines”.[cxvi]

Catasto 1743. La chiesa della Santissima Annunciata, canonicato.[cxvii]

 

Chiesa di Santa Maria delle Macchie

Catasto 1743. Il Mag.co Francesco Giuranna, nobile vivente di Umbriatico, possiede l’onere di ducati 6 verso il capitolo, per la celebrazione annuale di messe basse cinquanta nella chiesa di Santa Maria delle Macchie.[cxviii]

 

Lo Puzo

28 novembre 1585. Umbriatico. Angelo Vermicciolo “Bayulus et serv.ns or.s dictae civ.tis”, asseriva che, il giorno precedente, aveva immesso il m.co Jo. And.a Presterà di Umbriatico, nel possesso del “molendino posito in dixtrictu et terr.o dictae civ.tis um.ci loco dicto la fiumara juxta viam pp.cam ex parte superiori et alios fines” e di un ortale arborato con “sycomis et cum puteo posito intus dictam civ.tem in loco ditto lo puzo et viam pp.cam qua itur ad fischiam et alios fines”, beni di cui era stata fatta esecuzione a Jo. Ber.no Tascione di Umbriatico, su istanza dell’ho. Hier.mo Papaioannes di Umbriatico e che erano stati messi all’asta “in platea pp.ca dictae civ.tis”.[cxix]

 

La Fischia

28 novembre 1585. Umbriatico. “viam pp.cam qua itur ad fischiam”. [cxx]

Catasto 1743. Il Mag.co Francesco Giuranna, nobile vivente, possiede un orto aperto dove si dice la Fischia.[cxxi] Il Mag.co Giacinto Suriano, nobile vivente, possiede due pedi di celsi nel luogo detto la Fischia.[cxxii] D. Domenico Giuranna, sacerdote e primicerio, possiede una casa consistente in due camere superiori e due inferiori nel luogo detto la Fischia con un orto sbarro.[cxxiii] La chiesa della Santissima Annunciata, canonicato, possiede un orto “sotto la fischia” sbarro, con una pianta di celso.[cxxiv]

 

L’Ulmo

Catasto 1743. Domenico Arturi massaro, possiede una casa bassa luogo d.o l’Ulmo.[cxxv] Donato Misangi calzolaio, possiede una bottega nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxvi] Giuseppe Pugliese massaro, possiede una casa nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxvii] Il Mag.co Giacinto Suriano, nobile vivente, possiede un comprensorio di case dirute nel luogo d. o l’Ulmo, con due case basse, una casa diruta, un orto con trappeto, celsi ed un piede di ulivo.[cxxviii] Leonardo di Bartolo bracciale, possiede una casa e orto nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxix] Il Capitolo possiede una casa con camera superiore e basso nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxx] Donato Bisangi possiede una bottega nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxxi] La cappella di S. Francesco di Paola, canonicato, possiede una casa, una casetta ed una casa bassa, nel luogo d.o l’Ulmo.[cxxxii]

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Umbriatico (KR), palazzo Giuranna.

Il Trappeto

Catasto 1743. D. Cristofero Lioti sacerdote, possiede una casa sita nel luogo d.o sopra il Trappeto.[cxxxiii] D. Salvatore Medea sacerdote, possiede sette grotte nel luogo detto il trappeto.[cxxxiv] La cappella di S. Francesco di Paola, canonicato, possiede tre grotte nel luogo detto il trappeto.[cxxxv]

 

Il Milò

Catasto 1743. Carlo Ionfrida massaro, possiede un orto luogo detto il Milò.[cxxxvi] Domenico Anania, massaro, possiede un orto in loco detto il Milò.[cxxxvii] Domenico Agritani nobile vivente, abita in una casa in luogo d.o il Milò composta da cinque membri con cisterna e due orti con una grotta.[cxxxviii] Francesco Antonio Guerra magazeniere, possiede una casa nel luogo detto il Milò con un orto ed una grotta.[cxxxix] Francesco Cristiano massaro, possiede un magazeno luogo d.o il Milo.[cxl] Gennaro Pantuso bracciale, possiede un orticello luogo d.o il Milo.[cxli] Il Mag.co Francesco Giuranna, nobile vivente, possiede un orto luogo detto il Milò.[cxlii] Leonardo Agresti bracciale, possiede un orto luogo detto il Milò.[cxliii] Pietro Paletta bracciale, possiede una grotta nel luogo detto il Milò.[cxliv] Caterina Tripolito vedova, possiede un orto luogo detto il Milò.[cxlv] Palma Astorino vedova, possiede un orto luogo detto il Milò.[cxlvi] Il beneficio fondato dal Mag.co D. Andrea Giuranna, possiede una casa bassa nel luogo detto il Milò.[cxlvii]  La cappella dell’Immacolata Concezione, ius patronato della famiglia Giuranna, possiede un orto nel luogo detto il Milò.[cxlviii] Il pio monte frumentario della cappella del Rosario, possiede una casa con una camera superiore ed un basso nel luogo detto il Milò.[cxlix]

 

Iencarella

Catasto 1743. D. Domenico Giuranna sacerdote e primicerio, possiede un orto nel luogo detto Iencarella.[cl]

 

Macrì

Catasto 1743. Francesco Cacofa capraro di Palagorio, possiede un orto in luogo d.o Macrì.[cli] Pietro Astorino bracciale, possiede un orto in luogo d.o Macrì confinato da rupi.[clii]

 

Primavera

Catasto 1743. Giuseppe Strumba bracciale, possiede un orto sbarro nel luogo d.o Primavera.[cliii] Il Mag.co Giacinto Suriano, possiede sei pedi di celsi nel luogo d.o Primavera.[cliv] Natale Pirillo bracciante, possiede un piede di celso nel luogo d.o Primavera.[clv]

 

Carcere

Catasto 1743. Il Mag.co Francesco Giuranna possiede un orto sotto il carcere.[clvi]

 

Le Pucchie

Catasto 1743. Gio. Pietro Mauro ortolano, tiene in affitto un orto della Mensa Vescovile luogo detto le Pucchie.[clvii]

 

Ilica

Catasto 1743. Giuseppe Spina pecoraro, possiede un orto luogo detto “Sop.a Ilica”.[clviii]

 

Il Gravattone

Catasto 1743. Gio. Batt.a Labonia bracciale, possiede un piede di celso nero nel luogo detto il Gravattone.[clix] D. Giuseppe Cosentino sacerdote, possiede una casa consistente in una camera superiore ed un basso nel luogo detto il Gravattone.[clx]

 

Cappella di S. Antonio di Padova jus patronato della famiglia Giuranna (1743).[clxi]

 

Eremitorio e chiesa di S. Domenica detta del Carmine

“In agro Umbriatici adest ecclesia S. Dominicae Virginis et Martiris, cui inhaeret parva Domus pro eremita, qui eiusdem ecclesiae curam habet” (1735).[clxii]

Catasto 1743. Frà Diego Scalise di Savelli di anni 60, eremita.[clxiii] Paolo Parrilla di anni 62, eremita, abita nell’eremitorio di S. Domenica d.o il Carmine. Possiede una vigna con una tum.ta di t.ra vacua giusta i beni di Leonardo Parrilla e Dom. co Anania.[clxiv] “La Chiesa di S. Domenica detta del Carmine. Possiede due camere superiori, e due inferiori per abitaz.ne dell’eremiti. Di più possiede avanti à d.o eremitorio due altre case basse per prop.o commodo, e de passaggieri. Di più possiede somari di fatiga per prop.o commodo. Di più possiede capre di corpo num.o cento ventisette. Di più possiede avanti la chiesa di d.o eremitorio un giardino con vigna, pera, fiche, mela e due piedi di noce, confinante colla via publica, e le rupi. Di più possiede un pezzo di terre di tum.te sei giusta i beni di Giacinto Suriano e d.o giardino luogo detto il Puzzillo. Di più possiede un altro pezzo di terre di tom.te quattro giusta i beni della capp.a del SS.mo Sagramento e del Rosario e sono nel luogo detto vallongelle. Di più possiede nel luogo detto Brica un altro pezzo di terre di tom.te due giusta i beni della mensa vescovile e dell’illustre possess.re. Di più possiede un altro pezzo di terre luogo d.o S. Dom.ca di tom.te cinque giusta i beni della capp.a della Concezione e via publica.

Pesi e deduzione. Per la celebrazione delle festività del Carmine, S. Dom.ca, e S. Vito annui carlini 33. Per dui palii nel giorno del Carmine annui carlini 24.”[clxv]

 

Li Romiti

Catasto 1743. Carl’Antonio Leo bracciale, possiede un orto luogo detto Li Romiti.[clxvi]

 

Beneficio di S. Barbara e S. Lucia (1743).[clxvii]

 

Beneficio fondato dal Mag.co D. Andrea Giuranna (1743).[clxviii]

 

Cappella dell’Immacolata Concezione ius patronato della famiglia Giuranna (1743).[clxix]

 

Cappella di S. Francesco di Paola, canonicato (1743).[clxx]

 

Pio Monte de Maritaggi (1743).[clxxi]

 

Le dignità del Primiceriato e subcantorato (1743).[clxxii]

 

 

Note

 

[i] Giudicissi O.-Giuranna G., Sintesi della storia di Umbriatico, 1977, p. 9.

[ii] Umbriatico Moderna Bristacia, a cura del Centro di Studi parrocchiale, Umbriatico 1976, p. 5.

[iii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 274-274v.

[iv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 482v-483.

[v] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 241v-242.

[vi] ASN. Catasto Onciario Umbriatico, 1743, B. 7014, f. 12.

[vii] ASN. Catasto cit., f. 42.

[viii] ASN. Catasto cit. f. 63.

[ix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 325v-326.

[x] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 336v-337.

[xi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 365.

[xii] ASN. Catasto cit., f. 57.

[xiii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 187v-188.

[xiv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 188v-191.

[xv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 240v-241.

[xvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 246-246v.

[xvii] ASN. Catasto cit., f. 64.

[xviii] ASN. Catasto cit. f. 73.

[xix] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 272-272v.

[xx] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 53.

[xxi] ASN., Catasto cit., f. 402.

[xxii] ASN. Catasto cit., f. 405.

[xxiii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 124-125v.

[xxiv] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 162-162v.

[xxv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 232v-235v.

[xxvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 259-259v.

[xxvii] ASN., Catasto cit., f. 10.

[xxviii] ASN., Catasto cit. f. 13.

[xxix] ASN., Catasto, f. 19.

[xxx] ASN., Catasto cit. f. 46.

[xxxi] ASN. Catasto cit. ff. 46-47.

[xxxii] ASN. Catasto cit. f. 54.

[xxxiii] ASN., Catasto cit. f. 55.

[xxxiv] ASN. Catasto cit. f. 62.

[xxxv] ASN. Catasto cit., f. 73.

[xxxvi] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 186-186v.

[xxxvii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 41-41v.

[xxxviii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 92-93.

[xxxix] ASN. Catasto cit., f. 64.

[xl] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 263-263v.

[xli] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 316-316v.

[xlii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 176-176v.

[xliii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 231-231v.

[xliv] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 180-181.

[xlv] ASN., Catasto cit., f. 75.

[xlvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 150v-

[xlvii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 322.

[xlviii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 326-326v.

[xlix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 519-519v.

[l] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 519v-520.

[li] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 003v-004.

[lii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 186-186v.

[liii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 322v-323.

[liv] ASN., Catasto cit., f. 4.

[lv] ASN., Catasto cit., f. 5.

[lvi] ASN. Catasto cit., f. 8.

[lvii] ASN. Catasto cit., f. 13.

[lviii] ASN., Catasto cit., f. 16.

[lix] ASN. Catasto cit., f. 23.

[lx] ASN. Catasto cit., f. 28.

[lxi] ASN. Catasto cit., f. 28.

[lxii] ASN. Catasto cit., f. 29.

[lxiii] ASN. Catasto cit., f. 31.

[lxiv] ASN. Catasto cit., f. 32.

[lxv] ASN. Catasto cit., f. 33.

[lxvi] ASN. Catasto cit. f. 38.

[lxvii] ASN. Catasto cit. f. 39.

[lxviii] ASN. Catasto cit. f. 39.

[lxix] ASN. Catasto cit., f. 41.

[lxx] ASN. Catasto cit., f. 42.

[lxxi] ASN. Catasto cit. f. 44.

[lxxii] ASN. Catasto cit. f. 54.

[lxxiii] ASN. Catasto cit. f. 59.

[lxxiv] ASN. Catasto cit. f. 62.

[lxxv] ASN. Catasto cit. f. 63.

[lxxvi] ASN. Catasto cit. f. 76.

[lxxvii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 246-246v.

[lxxviii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 105v.

[lxxix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 135v-136.

[lxxx] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 243v-244.

[lxxxi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 204v-205v.

[lxxxii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 136.

[lxxxiii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 243v.

[lxxxiv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 396.

[lxxxv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 510.

[lxxxvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 023-023v.

[lxxxvii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 024v-025v.

[lxxxviii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, f. 150v.

[lxxxix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 186-186v.

[xc] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, f. 237.

[xci] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 237v-238.

[xcii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 242-242v.

[xciii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, f. 258v.

[xciv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 187-187v.

[xcv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 150-150v.

[xcvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 162v-163.

[xcvii] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 324-325.

[xcviii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 192v-193.

[xcix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 204-204v.

[c] ASN. Catasto cit., f. 26.

[ci] ASN. Catasto cit., f. 39.

[cii] ASN. Catasto cit., f. 53-54.

[ciii] ASN. Catasto cit., f. 58.

[civ] ASN. Catasto cit., f. 59.

[cv] ASN. Catasto cit., f. 58.

[cvi] ASN. Catasto cit., f. 34-35.

[cvii] ASN. Catasto cit. f. 73.

[cviii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 364v-365.

[cix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 395v-396.

[cx] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 149v-150.

[cxi] ASN. Catasto cit., f. 73.

[cxii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 547-547v.

[cxiii] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 481v-482.

[cxiv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, ff. 546-546v.

[cxv] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 004v-006.

[cxvi] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 004v-006.

[cxvii] ASN. Catasto cit., f. 58.

[cxviii] ASN. Catasto cit., f. 22.

[cxix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 153-154v.

[cxx] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 153-154v.

[cxxi] ASN. Catasto cit., f. 21.

[cxxii] ASN. Catasto cit., f. 34.

[cxxiii] ASN. Catasto cit., f. 54.

[cxxiv] ASN. Catasto cit., f. 59.

[cxxv] ASN. Catasto cit., f. 10.

[cxxvi] ASN. Catasto cit., f. 10.

[cxxvii] ASN. Catasto cit., f. 32.

[cxxviii] ASN. Catasto cit., f. 34.

[cxxix] ASN. Catasto cit., f. 38.

[cxxx] ASN. Catasto cit., f. 62.

[cxxxi] ASN. Catasto cit., f. 61.

[cxxxii] ASN. Catasto cit., f. 63.

[cxxxiii] ASN. Catasto cit., f. 53.

[cxxxiv] ASN. Catasto cit., f. 57.

[cxxxv] ASN. Catasto cit., f. 63.

[cxxxvi] ASN. Catasto cit., f. 6.

[cxxxvii] ASN. Catasto cit., f. 8.

[cxxxviii] ASN. Catasto cit., f. 13.

[cxxxix] ASN. Catasto cit. f. 16.

[cxl] ASN. Catasto cit., f. 24.

[cxli] ASN. Catasto cit., f. 29.

[cxlii] ASN. Catasto cit., f. 20.

[cxliii] ASN. Catasto cit., f. 39.

[cxliv] ASN. Catasto cit., f. 43.

[cxlv] ASN. Catasto cit., f. 49.

[cxlvi] ASN. Catasto cit., f. 51.

[cxlvii] ASN. Catasto cit., f. 60.

[cxlviii] ASN. Catasto cit., f. 60.

[cxlix] ASN. Catasto cit., f. 64.

[cl] ASN. Catasto cit., f. 54.

[cli] ASN. Catasto cit., f. 22.

[clii] ASN. Catasto cit., f. 44.

[cliii] ASN. Catasto cit., f. 27.

[cliv] ASN. Catasto cit., f. 34.

[clv] ASN. Catasto cit., f. 42.

[clvi] ASN. Catasto cit., f. 20.

[clvii] ASN. Catasto cit., f. 35.

[clviii] ASN. Catasto cit., f. 37.

[clix] ASN. Catasto cit., f. 31.

[clx] ASN. Catasto cit., f. 56.

[clxi] ASN. Catasto cit., f. 58.

[clxii] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., Domenico Peronacci 1735.

[clxiii] ASN. Catasto cit., f. 11.

[clxiv] ASN. Catasto cit., f. 42.

[clxv] ASN. Catasto cit., ff. 62-63.

[clxvi] ASN. Catasto cit., f. 3.

[clxvii] ASN. Catasto cit., f. 59.

[clxviii] ASN. Catasto cit., f. 60.

[clxix] ASN. Catasto cit., f. 60.

[clxx] ASN. Catasto cit., f. 63.

[clxxi] ASN. Catasto cit., f. 65.

[clxxii] ASN. Catasto cit., f. 73.

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Alcuni documenti riguardanti la città di Umbriatico

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Umbriatico panorama

Umbriatico (KR).

In relazione alla loro particolare importanza, pubblichiamo alcuni documenti riguardanti la città di Umbriatico, in gran parte inediti, conservati nell’Archivio Arcivescovile di Santa Severina e nell’Archivio di Stato di Catanzaro.

 

§§§§§§

 

Metà del Seicento. Descrizione generale della città di Umbriatico (Arch. Gen. Agostiniano, Carte Rocca, Testi, 93; in Amirante G., Passolano M. R., Immagini di Napoli e del Regno, ESI Napoli 2005, p. 101).

“Non si sa di questa Città altro dell’esser suo ne de suoi principii se non che nell’Imperio di Valentiniano fu riformata da Sisto 3o, l’ordinazione del Vescovo, la di cui sede venne dalla città di Paterno trasferita nella sua Cattedrale col titolo di S. Donato, servita solo da quattro Sacerdoti. Si venerano le Reliquie del Santo Gregorio Papa, Lorenzo, Donato, Stefano, Gregorio e Geremilla con piccole porzioni delle vesti de Signore e della SS. Madre, risalendo nel centro di essa sul dorso di ruvidissime pietre non tagliate, con Torre alta con in tre Ali il suo corpo partito.

Ella è situata sopra di una rupe di malagevole accesso, e poco grata tra sentieri di precipizio e spavento poco più di un miglio distante dal Mare. Chi ve la piantò non hebbe forsi alcun impulso che di fabricarvi un ricovero per fuggitivi, o malcontenti, potendosi pensare a capriccio quello che può più piacere al genio, mentre non si rinviene chi ne dia maggior lume.

Sono però le sue campagne non scarse del necessario e del dilettevole, producendovi in abbondanza de Capperi con Copia di animali di pelo ne suoi Boschi, e di penne nelle sue campagne, oltre la Manna il Terebinto, il Gesso e l’Alabastro ed altre molte specie di herbe per salute e delizia. Con quattro Parrocchie, Seminario, Spedale, Monte per poveri, due Conventi di Regolari, ed uno di Suore, terminando con quattro Terre la sua Diocesi, in una de quali per mezzo di un Prete Albanese accasato si pratica il Rito de Greci. Numera non più di 42 fuochi; e della Casa Rovegna è Marchesato”.

 

Umbriatico panorama

Umbriatico (KR).

 

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9 giugno 1434. Martirano. Sentenza del vescovo di Martirano circa la controversia tra l’arcivescovo di Cosenza ed il vescovo di Umbriatico, relativa al pagamento delle decime delle pecore nei pascoli della Sila (AASS, 040A, ff. 37-37v).

“In nomine Sanctissimae Trinitatis Amen.

Franciscus Bennius Dei, et Ap(osto)licae Sedis gr(ati)a E(pisco)pus Marturanen.

Vertente differentia inter Ill.m D(omi)num Joannem Smeraldum miseratione divina, ArchiE(pisco)pum Consentinum, et R.m Nicolaum Situm Episcopum Umbriaticen.s super iure decimae ovium pascua sumentium in territoriis de la Sila, et ibi foetantium, quae territoria cum sint intra limites Iurisdictionis Ecc.ae Consentinae, consequenter pretendebatur per eiusdem Mensae procuratorem habere ad minus medietatem dictae decimae de ovibus pasculantibus, et foetantibus in dictis territoriis, et capta per nos informatione de consensu ambarum partium, mediante compromisso coram nobis stipulato, et iurato, et visis omnibus actis, ac testium depositionibus in numero sufficienti, et opportuno examinatis, fuit per nos pronuntiatum, et arbitratum minime licere dicto procuratori Archiep(iscopa)lis Mensae Consentiae exigere, vel exigi facere praedictum Jus decimae in dictis territoriis positis in Dioecesi Consentina tam de praeterito, quam in futurum, et defoetibus, quae nascuntur in dictis locis neque totum, neque partem decimae pertingere sup.a dictae Mensae Verum etiam neque de fructibus, ex quo in dicta Civitate Consentiae non adest Consuetudo exigendi huiusmodi decimam prout reperitur pacifice in dioecesi Umbriatici à tempore in quo nulla est hominum memoria in contrarium, et tractu temporis praescripta est actio, quia una Ecclesia potest praescribere contra aliam; Neque potuisse Rev.m Franciscum Spulitrinum Decanum Umbriatici, et mensae procuratorem conveniri promittendo medietatem decimae in fraudem, et praeiudicium Ecclesiae Umbriaticen.s sine consensu, et deliberatione Episcopi et Cap(itu)li. Et quia promissio fuit personalis expiravit morte conditoris, et propterea nullius roboris et momenti prout tenore p(raese)ntium nullam, et infirmam declaramus. Et vice versa dictum D(omi)num E(pisco)pum Umbriaticen.s fore, et esse manutenendum in possessione exigendi dictam integram decimam iuxto solitum, et consuetum ab omnibus animalibus minutis etiam foetantibus in territoriis extra cursum, Dummodo ibi pascua sumant stabulam et incrementum recipiant, prout nos p(raese)nte diffinitivo decreto sententiamus et arbitramur, isto, et omni modo meliori. Datum in [palatio] nostro Ep(iscopa)li die 9 Junii 1434. F. Episcopus Marturanen[.s] latum die quo supra p(raese)ntibus omnibus R. R. de Cap(itu)lo C. S. … Franciscus Soterus att.s Ep(iscopa)lis Curiae”.

 

Umbriatico panorama

Umbriatico (KR).

 

§§§§§§

 

12 agosto 1482. Santa Severina. Re Ferdinando d’Aragona, in merito al diritto del vescovo di Umbriatico di esigere la quarta parte dei beni appartenenti ai morti ab intestato, negatogli da alcuni uomini di Cirò (AASS, 013A, ff. 67v-68).

“A’ tergo

Nobilibus et eggregiis viris Uni.ti et hominibus t(er)rae ipsigrò regiis pr(…)nis fidelibus, nob(is) pl(u)r(imu)m dilectis cum sigillo magno Reg.o.

Intus vero

Ferdinandus de Aragonia locum tenens g(e)n(era)lis.

Nobiles et egregii viri Regii pr(…)m.o fideles nobis pl(u)r(imu)m dilecti Nui havemo intesa la diferenzia e tra lo R.do ep(iscop)o de umb.co et vui de multe cose et massime della quarta parte delle robe de quello more ab intestato et del ducato per ciasciuno chi more et del multe altre cose dele quali vui ne aggravati et inteso lo d.to R.do ep(iscop)o sopra di cio iustifica tanto bene lo fatto suo che certam.te pare che satisfaria ala iustitia. Puro noi la causa dela quarta parte dele robbe la havimo commessa a judice Fracesco de Sindico et ms Cola dele pira che la habbiano videre de iustitia come in le n(ost)re l(icte)re se contene. Le altre certam.te ne pareno cose da non prenderese fatiga ad altramente intenderese per la iustificatione li ha fatta come havemo ditto pero ne recordamo et confortamo che con d(et)to ep(iscop)o ve vogliate portar bene et con bona obedientia come devono fare li boni figlioli a li boni patri non repugnandole in le cose honeste et debite perche ne persuademo da ipso sareti ben visti et trattati per modo non haveriti iusta causa de gravareve de soi portamenti simo certi che dal canto v(ost)ro non mancherà de vivere in pace con d(et)to R.do ep(iscop)o et ad questo ve confortamo il che facendo serriti da luy humanamente trattati. Vui steriti con la mente queta et ad nui darriti poca fatiga. La p(rese)nte restitueriti al p(resen)tante. Datum in Regiis Castris apud Sanctam Severinam XII° Aug.ti M.°CCCCLXXXII.

ferdinandus de ragonia”.

 

umbriatico219

Cattedrale di Umbriatico (KR). Croce processionale.

 

§§§§§§

 

11 gennaio 1483. Capua. Re Ferdinando d’Aragona, ancora in merito al diritto del vescovo di Umbriatico di esigere la quarta parte dei beni appartenenti ai morti ab intestato, negatogli da alcuni uomini di Cirò (AASS, 013A, f. 67).

“A’ tergo

Ill.mo ferdinando de Aragonia in Provincia Calabriae n.ro locumtenenti

filio Cariss.o, cum sigillo magno reg.o

Intus vero

Ill. fili et locumtenens n(oste)r g(e)n(er)alis Carissime novamente per lo R.do episcopo de Umbriatico n(ost)ro consigliero fidele diletto ne’e stato exposto che havendo in la sua Diocesa certa rasone de quarta sopra quelli che moreno ab intestato quale soy predecessori et anco lui sempre haveno posseduta et non solum tale rasone e in la sua Diocesa ma in multi altri episcopati de questa provincia Nonstra che per alcuni homini delo Cirò le sia stata impedita et denegata in suo non piccolo preiuditio, deche havendose quelerato in questa Corte dicta causa è stata comessa et may e stata exequita, et per iustitia terminata per causa che d(et)to ep(iscop)o e venuto cqua ali provicii del R.mo et Ill.mo Car.le de Aragona n(ost)ro figlio. Al p(rese)nte volendo de cio consequir la sua iustitia ne have supplicato de’ remedio opportuno nui avertendo ale supp.ne de isso R.do ep(iscop)o intendendo che la giustitia habia suo loco ve dicimo per la p(rese)nte che constituimo vobis summarie simpl.r et de plano che isso ep(iscop)o sia stato et sia impo(ssessio)ne de ditta rasone lo debiate manutenere in quella facendolo satisfare de tutto quello iustam(en)te li sera dovuto et che lui deve percipere per causa de d(et)ta sua rasone como tale sia n(ost)ra intentione et volunta non fando gio si havete caro lo n(ost)ro servitio la p(rese)nte restituite al p(rese)ntante. Dat. in Civitate n(ost)ra Capuae XI° Ja(nua)ry MCCCCLXXXIII°.

Rex ferdinandus”.

 

§§§§§§

 

4 ottobre 1566. Spoglio del vescovo di Umbriatico Giovan Cesare Foggia (AASS, 002A, f. 26).

“Robbe haute da Umbriatico dopo la morte del q.o R.mo Mons.r della che a questo di 4 di ott.re 1566 sono impotere del S.r Abbate Barattauro.

Imprimis

Uno ronzino baro scuro.

Un anelletto di oro co’ pietra detta Lapis Lazari di prezzo d’un ducato in circa in tutto.

Una sottana di rascia vecchia senza maniche.

Uno missale vecchio.

Uno Rocchetto sottile.

Una veste con le maniche lunghe pavonazze per cavalcare usata.

Una mozzetta negra di ciambellotto senza onda usata.

Una camiscia vecchia.”

 

umbriatico220

Cattedrale di Umbriatico (KR). Mitra vescovile antica.

 

§§§§§§

 

7 marzo 1577. Cirò. Il vescovo di Umbriatico Pietro Bordono, in merito al diritto di esigere la quarta parte dei beni di quelli che muoiono ab intestato (AASS, 002A).

“Noi Pietro Bordono per la gratia di N. S. Dio, et della Santa Sede Apostolica Vescovo di Umbriatico, et infrascritti Dignità e personati del Capitolo et clero dela cathedrale chiesa di Santo Donato vescovato di detta Città, per la presente facimo indubbitata fede, a tutti e singuli, che spetteranno vederla vel quomodolibet sara presentata, come tra li altri raggioni et prerogative, vescovali spettantino alla sudetta Cathedrale e lo jus di esigere la quarta di beni mobili et sese moventi da tutti quelli che moreno abintestato, tanto da personi seculari come ecclesiastici, tanto in ditta Città quanto in la Diocesa di Umbriatico, nella quale exactione, et raggione di quarta la ditta cathedrale chiesa di Umbriatico e sua Diocesa n’estata, et e, in quieta et pacifica possessione, seu quasi da immemorabile tempo, et di tanto che no vi e memoria de homo in contrario, tanto in la Città preditta di Umbriatico, quanto in sua Diocesa et si ha exatto et esige senza contraditione virtute antiquissimae, et laudabis consuetudinis, et a populo approbatae, et quello che si percipe di d.te quarte, si converti ad usi pii, et reparatione et ornamenti di essa cathedrale, et elemosine per orationi per viam suffragii, et questa e la verita, donde a chiarecza del viero, ad instantia et richiesta dell’Ill.mo et R.mo Arcivescovo Metropolitano di santa severina havemo fatto la p.nte fede et declaratoria scritta per mano dell’infr.o cl. Gian Francesco Ferrari della terra del Cirò nostra diocesa di Umbriatico scrittore ordinario di nostra vescovale Corte di Umbriatico, et firmata di n.ra propria mano et sigillata dal nostro solito sigillo vescovale, et capitulare. Data nella T.ra del Cirò nel nostro Palaczo Vescovale il di VII di Marzo M.D.L.XXVII.

Io Petro Bordono vescovo di Umbriatico affirmo li cosi prediti esire vere.

Io Don Diego Trusciglio del Cirò Arch.no d’Umb.co affirmo le cose pre.te essere vere.

Io donno Ant.o Falconeri … affirmo …”.

 

§§§§§§

 

20 maggio 1580. Richiesta riguardante il pagamento delle decime, inoltrata dal cantore di Umbriatico all’arcivescovo di Santa Severina, in occasione del sinodo provinciale (AASS, 002A).

“Capi quali se presentano per li Procuratori del Capitolo d’Umbriatico et sua diocesa all’Ill.mo et R.mo Mons.re Arcivescovo di S.ta Sev.na presidente accio sopra quelli se manda nel Sac.o Conc.o provintiale.

Imp.is Se supp.ca che sia limitato a tucti cossi gentil’homini come altri che paghino le decime secondo l’uso dela matrop.na chiesa di S.ta Sev.na et si possano astringere ad quel tanto deveno pagare li renitenti.

Item che possano astringere li Baroni delle terre che facendo massaria in ditta diocesa siano astretti paghar le decime della parochia et personali stante che loro receveno li S.mi Sacram.ti in dette chiese et danno peso alli Curati più deli altri.”

 

umbriatico221

Cattedrale di Umbriatico (KR). Arme vescovile.

 

§§§§§§

 

13 settembre 1586. Umbriatico. Rivele degli appezzamenti coltivati a grano nel territorio di Umbriatico durante l’annata trascorsa, soggetti al pagamento del “terragio” alla locale corte baronale (ASCz, Notaio Baldo Consulo, busta 9 ff. 199v-203v).

“Ogne persona tanto cittadino come forastiero et commorante in detta città p.ta de umb.co habbia da venire a me p.to notaio à revelare ogne quantità de grano fatto nel territorio et distrettu de detta città de umb.co fra termine de giorni dui immediate seguenti sotto la pena contenta nella R.a prang.ca.

Marcant.o Griffaldo de detta città de umb.o dice h.re fatto tu.la trenta cinq. de grano nel loco dicto S.to martino terr.o de detta città de umb.co et ne ha pagato lo terragio à gio. petro de nap. de la prefata città de umb.co dice in dinari tu.la dui et mezo de terragio: dice t.la 35.

Octavio Citterà dice h.re fatto trenta tu.la de grano nel seminato hà fatto nel loco dicto melia ter.rio de detta città de umb.co et ne ha pagato lo terragio in dinari alla p.le corte de ditta città de umb.co dice t.la 30.

Gioannello caligiurio dice havere raccolto dal suo seminato tu.la quaranta de grano nelloco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice tu.la 40.

Renzo de palermo dice h.re fatto tu.la cinquanta de grano nel suo seminato in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 50.

Gioannello griffaldo dice h.re fatto tu.la quaranta de grano nel suo seminato in loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 40.

M.s gio. mar. de falcone dice h.re fatto vinti tu.la de grano nel suo seminato in loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 20.

M.s ferrante roda dice h.re tu.la duicento vinti de grano pervenutoli da sua massaria fatta nel loco p.to melia et pagatone lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 220.

Marcantoni scigliano dice h.re fatto t.la de grano settanta nella sua massaria fatta nel loco p.to melia terr.o de umb.co et dato la metà del terragio à m.s gioanlinardo de paula de p.ta città de umb.co tu.la tre de grano dice t.la 70.

Gio. Vermicciolo dice h.re fatto tu.la de grano cento cinquanta fatti nella sua massaria parte à melia et parte ad araca territorio de ditta città: de melia pagato il terragio alla p.le corte p.ta in dinari, et di araca dato dui t.la de terragio a do. Cesare longobucco dice t.la 150.

Li her. Del S.r gio. petro prestarà diceno esserli pervenuto tu.la de grano dui cento cinquanta da loro massaria: fatta con ger.mo papa joe: gioannello greco de ditta città: et balli beneditto dalla terra di campana portionarii nello terreno de essi her.: loco ditto le macchie seminato per ditti ger.mo et gioannello: et nelle terre delo lauro de ditti her. Per dicto balli: il quale grano per equali por.ne se divise tra essi her. Et ditti porzionarii diceno t.la 250.

Lo mag.co gio and.a prestarà dice h.re fatto nella sua massaria t.la sessanta de grano in loco pre.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte dice t.la 60.

Marco greco dice h.re tu.la quaranta de grano pervenuti dal suo seminato loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 40.

Donato Vermicciolo dice h.re fatto tu.la ottanta de grano nella sua massaria in loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte dice t.le 80.

Donato Zafferi dice h.re fatto tu.la de grano cinq.ta cinq. nel suo seminato in loco melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 55.

Gio teofilo pantisano dice h.re fatto t.la de grano cento cinq.ta nella sua massaria fatta nella sua massaria nel loco melia et parte al cozo nigro ter.rio de um.co de melia pagato il terragio alla p.le corte in dinari: et del cozo nigro dato dui tu.la di terragio à m.s arcangelo infosino de detta città de um.co dice t.la 150.

Giobba de maneri dice h.re fatto tu.la trenta sei de grano nel suo seminato loco dicto terratella terreno del detto giobba dice tu.la 36.

Ms arcangelo infosino dice h.re fatto nel suo seminato tu.la de grano quaranta loco dicto lo cozo nigro suo terreno nel distritto de detta città dice t.la 40.

Ms gio laurenzo infosino dice h.re fatto nel suo seminato trenta tu.la de grano nel loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 30.

Gio. Matteo Morello dice h.re fatto tu.la quindici de grano nel suo seminato in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte ut s.a dice t.la 15.

Minico russo dice h.re fatto tu.la trenta de grano al suo seminato in loco lambri territorio de detta città de um.co et pagato lo terragio in dinari alla cappella del s.mo sacramento de detta città dice tu.la 30.

Cesare tutino dice h.re fatto tu.la de grano cento cinq.ta nella sua massaria in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice tu.la 150.

Corallo lagonia dice h.re fatto tu.la sette de grano al suo seminato in loco lo prato terr.o de detta città et pagato lo terragio in dinari alla cappella del s.mo sacramento de detta città dice tu.la 7.

Ms virg.o de cotrone dice h.re fatto t.la de grano quaranta cinq. nel suo seminato in loco culluri territorio de detta città et terreno de esso virg.o dice tu.la 45.

Berar.no Filitano dice h.re fatto tu.la de grano vinti quattro nel suo seminato in loco le valloncelle ter.o di detta città et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 24.

Antoni vermicciolo dice h.re fatto tu.la quaranta de grano al suo seminato nel loco le cantumetta terr.o de detta città et dato tu.la tre di grano per ragione de terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 40.

Li her. De Hectore Marino dicono h.re fatto nel loro seminato tumula de grano ottanta in loco melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta diceno t.la 80.

Dominico scarozo de cotrone dice h.re fatto t.la de grano octo al suo seminato loco melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte dice t.la 8.

Vincenzo de acturi dice h.re fatto t.la cento de grano in sua massaria nel loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 100.

Ger.mo russo dice h.re fatto tu.la settanta de grano al suo seminato in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 70.

Cesare de maneri dice h.re fatto in sua massaria tu.la de grano cento et quindici nel p.to loco melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 115.

Petruzo citerà dice h.re fatto in sua massaria tu.la cento et dece de grano nelloco p.to melia et pagato il terragio in dinari all p.le corte p.ta dice t.la 110.

jac.o de agresti dice h.re fatto nel suo seminato sessanta tu.la de grano in loco dicto lo piano del campo terr.o de dicta città et dato il terragio sei tu.la à ms g io. Linardo de paula de ditta città de um.co dice t.la 60.

Napoli Filitano dice h.re fatto de sua massaria tu.la settanta de grano in loco culturi terr.o de ditta città et dato dui tu.la et mezo à mezo terragio alli her. de gionfrida citerà de la p.ta città de um.co dice t.la 70.

Anniballe griffaldo dice h.re fatto nel suo seminato tu.la sidici de grano in loco dicto melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 16.

Renzo griffaldo dice h.re fatto t.la de grano quaranta al suo seminato in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 40.

Rocco consiglio et giobba panebianco compagni diceno h.re fatto tu.la de grano cento nelloro seminato in loco detto melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta diceno t.la 100.

Cesare scotifero dice h.re fatto nel suo seminato tu.la vinti de grano nelloco dicto melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 20.

Marco Scotifero dice h.re fatto nel suo seminato tu.la dudici de grano nel loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 12.

Gioantomasi de fiorita dice h.re fatto nel suo seminato tu.la quindici de grano nel loco le terratelle terr.o de detta città de um.co et dato il terragio parte alla corte p.ta parte alla cappella del S.mo Sacramento per equali portione tre mezaroli de grano apparte dice t.la 15.

Anselmo Tascione dice h.re fatto duicento tu.la de grano alla sua massaria loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 200.

Nisi raffa dice h.re fatto tu.la cento de grano in sua massaria in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte dice t.la 100.

Fr.co romeo dice h.re fatto nel suo seminato loco p.to melia tu.la vinti de grano et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 20.

Gamionno citerà dice h.re fatto tu.la vinti de grano nel suo seminato nelloco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 20.

Gion.a alfonso de aversa dice h.re fatto nel suo seminato t.la quindici de grano nel loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 15.

Giuliano de aversa dice h.re fatto tu.la quindici de grano nel suo seminato nel loco p.to melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 15.

Petro Russo dice h.re fatto tu.la novanta de grano nella sua massaria in loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 90.

Iacobo bruno de detta città dice h.re fatto t.la de grano cinquanta in la sua massaria loco p.to melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 50.

Deco russo dice h.re fatto in la sua massaria t.la cento de grano loco melia et pagato lo terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 100.

Petruzo greco dice h.re fatto tu.la de grano trenta cinque nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 35.

Persio greco dice h.re fatto tu.la de grano otto nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio in dinari alla p.le corte p.ta dice t.la 8.

Tofaro Tramonte de campana habitante in ditta città de um.co dice h.re fatto nella sua massaria in loco dicto Lardone terr.o de detta città dice tu.la cento de grano et pagato il terragio in dinari alla p.le corte dice t.la 100.

Gio. Dom.co La cana dice h.re fatto tu.la de grano quattordici nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 15.

Carluccio Citerà dice h.re fatto tu.la de grano dece nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 10.

Ms Antonio Pirrone dice h.re fatto tu.la de grano sessanta nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 60.

Camillo Citerà dice h.re fatto fatto nel suo seminato tu.la dece de grano in loco dicto lo prato terr.o de detta città et pagato uno tu.lo de grano de terragio à gio. petro de nap.li de un.co dice t.la 10.

Me.mo de rose dice h.re fatto tu.la de grano quindeci nel suo seminato loco p.to melia et pagato il terragio alla p.le corte p.ta dice t.la 15.

Hor.o Lequaglie dice h.re fatto nel suo seminato tu.la dui de grano in loco p.to lo cozo nigro terr.o de ditta città de um.co et pagato lo terragio in dinari à ms arcangelo infosino dice t.la 2.”

 

Collettiva

Melia tt.la 2264 (40 coloni) 68% del grano dichiarato

Le Macchie + Lauro tt.la 250 (1 colono) 8% del grano dichiarato

Melia + Araca tt.la 150 (1 colono) 5% del grano dichiarato

Santo Martino tt.la 35 (1 colono)

Lardone tt.la 100 (1 colono) 3% del grano dichiarato

Lo Piano del Campo tt.la 60 (1 colono)

Melia + Cozzo Nigro tt.la 150 (1 colono) 5% del grano dichiarato

Terratelle tt.la 51 (2 coloni)

Cozo Nigro tt.la 42 (2 coloni)

Lambri tt.la 30 (1 colono)

Lo Prato tt.la 17 (2 coloni)

Culturi tt.la 115 (2 coloni)

Le Valloncelle ttla 24 (1 colono)

Le Cantumetta tt.la 40 (1 colono)

 

Totale tt.la 3328 (57 coloni) (tt.la 58 in media).

34 coloni (cioè il 60% dei coloni totali), dichiara di aver fatto meno di 60 tomola di grano.

17 coloni (cioè il 30% dei coloni totali), dichiara di aver fatto da 60 a 120 tomola di grano.

6 coloni (cioè il 10 % dei coloni totali), dichiara di aver fatto più di 120 tomola di grano (M.s Ferrante Roda, Gio. Vermicciolo, Li her.del S.r Gio.Petro Prestarà, Cesare Tutino, Anselmo Tascione, Gio. Teofilo Pantisano).

Il 90% del grano proviene dalle gabelle Melia (69%), Le Macchie e Lauro (8%), Melia e Araca (5%), Lardone (3%), e Melia e Cozzo Nigro (5%).

 

§§§§§§

 

27 febbraio 1587. Governatore, sindaco ed eletti della città di Umbriatico (ASCz, Notaio Consulo B., cart. 9. ff. 232v-233).

“Die XVII mensis febr. XV Ind. iux.a K.l gregorianum anno 1587 R.te In civit.e Umb.ci et pp.e in platea pp.a dictae civitatis coram m.co Jo. and.a prestarà locumtenente in dicta civitate et nob. Jus not.o et sub.ti h.bus p.sonal.r constituti mag.cus fr.cus de cotrone sin.cus et m.ci et ho. Viri v.d. fer.dus rodius julius cesar infosinus anselmus tascionus jo. theofilus pantisanus electi deputati in regimine dictae civitatis et ipsius univ.tis in p.nti anno et alii m.ci et honorabilis inf.ti part.es cives et homines dictae civitatis facientes pleniores et saniores partes populi dictae un.tis v.d. vinc.s arturus virgilius de cotrone laur.s infosinus jo. bern.nus tascionus napolis philitanus laur.s de palermo sertorius citerà roccus consilius ascanius pirronl. Antonius presterà joes vermicciolus petruccius citerà corradus lagonia alfonsius mart.nus nicolaus casciarius minicus russus jo. nicolaus colutus jo. dom.cus marinus lorentius griffatus decius russus jobba panisalbis jacobus de agreste et alii in maiore numero qqde o.es p.nominati m.ci sin.cus et electi et cives particul.res nominati et cognominati ut s.a vulgariter dicendo ali q.lim.ci electi et cittadini fo proposto per detto m.co sindaco in q.sto modo credo che le S.V. sappiano amplamente li or.ni et banni emanati intorno allaltro uso ad istantia del ecc.a del patrone li q.li acciò refreschino la memoria pure se legeranno al p.nte circa la qual causa havendo receputo lettera del S.or governatore facta con inserto tenore de quel che sopra ciò scrive detta ecc.a contiene, che resteria servita”.

 

umbriatico222

Cattedrale di Umbriatico (KR). Tela raffigurante San Donato in paramento vescovile.

 

§§§§§§

 

7 novembre 1601. Roma. Lettera diretta all’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani (AASS, 018A, f. 20).

“Ill.re et R.mo Sig.r come fr.llo. Si duole il Vesc.o d’Umbriatico, che V. S. habbia dichiarato nullo il processo fatto contro il Marchese di Cirro, per non essersi voluto egli confessare dopo molte monitioni et notificationi fatteli senza darli l’assolutione, ne ancor ad cautelam dalle censure nelle quali era stato dicchiarato perciò incorso, permettendo in più, che vada public.te in chiesa; il che è dispiaciuto ancor alla sacra Cong.ne et benche habbia commesso il neg.o al Sig.r Card.le Paravicino, hanno nond.o voluto q.ti miei Ill.mi SS.ri, che io scriva a V. S., che questo modo di procedere non è giusto, ne conveniente, et che in caso tale dove si tratta della correttione de costumi, et emendat.ne della vita, ella dovea piuttosto pigliare la parte del Vesc.o, et aiutare l’essecutione de suoi ordini, che insistere sopra la nullità non rilevante, dove il fatto consta in contrario, et vogliano le SS.rie loro Ill.me, ch’ella ci proveda, et mandi qua piena informat.e d’ogni cosa al med.o S.r Card.le avvertendo nell’avvenire à dare ord.e che nel suo trib.le si proceda con mag.re circonspett.ne in casi simili. Et il sig.r la contenti. Di Roma li 7 di 9bre 1601. Come frat.llo aff.mo Il Card.le di Firenze”.

 

§§§§§§

 

9 dicembre 1608. Essendo morto il vescovo di Umbriatico Alessandro Filaretto Lucullo (1592-1608), il notaio apostolico Gio. Berardino Liparoto della città di Santa Severina, si reca nella città di Umbriatico dove, su richiesta dell’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani, il reverendo Giovanni Ferraro gli consegna, in presenza di testimoni, i beni lasciati dal vescovo defunto (AASS, 002A).

“Inp.s Una trabacca di noce meza indorata e meza sempia con quattro aquile indorate et argentate con quattro tavole della lettera e quattro lioncelli per sostentamento d’essa lettera indorata. Un pagliarizzo. Due matarazza pieni di lana di pecora, q.li matarazza sono ad interlicci. Uno capitale ad interliccio pieno di lana di pecora. Uno paro di lenzola di tela di cava usati. Una cultra di taffità dall’una parte gialla e dall’altra paunazza. Un’altra coverta di bambatia usata. Una zamarra punazza di panno usata. Una cortina consistente in sei pezzi, cioè quattro à corno, uno sopra, et il terzialetto di saia scotta azzola con frangie à torno e la coverta di sopra e infoderata di tela celendrata. Una cappa pontificale senza man.to con lo sacchetto. Una cinta di seta paunazza. Una berretta di prete usata. Uno coppolino di velluto negro. Uno pauro di braulli di tela con li calzetti di seta leonata. Uno paro di brache e casacca di taffità leonata. Un altro paro di brache di taffità lionato con il casacchino. Uno mantelletto senza maniche di panno paunazzo con sottana e mozzetta usate con mostre d’armosino rosso. Sottana mantelletto e mozzetta di ciambellotto paunazzo lavorato. Sottana mantelletto e mozzetta di teletta paunazza usate con mostre d’armosino rosso. Uno mantelletto di cavalcare con maniche di rascia paunazza et una sottana del medesimo con le maniche. Uno gioppone di raso paunazzo usato. Uno ferraiolo di rascia paunazza con mostre d’armosino rosso. Uno mantelletto e mozzetta di saia di melano negra con le mostre di seta negra. Due cappelli uno di feltro e l’altro di raso negro usati. Uno gioppone di teletta paunazza. Due camise, uno paro di pedali uno paro di calzoni di tela usati. Uno breviario. Il Pontificale. Uno missale. Uno anello d’oro con pietra rossa. Una Mula senza sella né barda di pelo negro chiamata saporita della razza dell’Ill.mo Sig. Marchese del Cirò.”

Sono presenti: Il R.do D. Francesco Grasso della terra di Crucoli, D. Cesare Cascia arciprete di Umbriatico, il clerico Julio Coco di Umbriatico, il mag.co Julio Suriano della terra di Cirò, il R.do cl. Nicola Francesco Manerio, arcidiacono di Umbriatico, il R.do Ioane Battista Caruso della terra di Cirò.

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La SS.ma Annunziata di Policastro

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policastro annunziata

Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata.

L’esistenza di una chiesa dedicata alla Vergine sotto il titolo della SS.ma Annunziata, si evidenzia a Policastro verso la fine del dominio angioino, quando la “ecclesiam Annuntiationis B. Mariae de Fratribus de Policastro” compare in un atto del 16 giugno 1425. A quel tempo essa si trovava “contigua” a quella sotto il titolo della “salviferae Crucis Domini”, come rileviamo in occasione della concessione dell’indulgenza ai visitatori delle due chiese nei giorni 25 marzo e 3 maggio, rispettivamente, giorno della Beata Maria e giorno della S. Croce.[i]

Secondo quanto apprendiamo dalla tradizione relativa alla presenza francescana nel territorio, possiamo ipotizzare che la sua erezione possa essere avvenuta agli inizi del sec. XIV. Questa tradizione riferisce infatti, che dopo la divisione dell’ordine tra Osservanti e Conventuali, la chiesa sarebbe rimasta in potere di questi ultimi: “Il primo titolo di questo Monastero fù di Santa Maria de’ Frati, perche circa l’anno mille trecento venti fù fabricato dà primi frati di San Francesco; e nelle divisioni dell’ordine restò in poter de’ Conventuali”.[ii]

 

La confraternita

Ritroviamo l’Annunziata alla metà del Cinquecento, quando comincia ad essere documentato l’obbligo da parte del rettore e del cappellano della chiesa della “divae nunctiatae t(er)rae policast.i”, di comparire personalmente in occasione del sinodo diocesano, pagando tre libre di cera a titolo di cattedratico.[iii] Obbligo che risulta documentato durante i sinodi di tutta la seconda metà del secolo.[iv]

Risale a questo periodo una descrizione della chiesa, che si trovava fuori le mura di Policastro ed era sede di una confraternita.

L’otto di giugno del 1559, il cantore della chiesa di Mileto Giovanni Tommaso Cerasia, vicario dell’arcivescovo Giovanni Battista Ursini, trovandosi impegnato nella visita dei luoghi pii appartenenti alla diocesi di Santa Severina, discendendo dalla terra di Roccabernarda, pervenne a quella di Policastro.

All’indomani, dopo la celebrazione della messa, il vicario arcivescovile procedette alla visita della “ecc.am sub Invocatione glo(rio)sae Virginis Mariae de annuntiata, et est Confratria”, di cui erano cappellani D. Nicolao Misiano, D. Minico Melle o Mello e D. Cicco Appa.

Egli trovò l’altare maggiore della chiesa “eum lapideum fabricatus non Consecratus”, corredato con tre tovaglie, mentre un’altra era posta sopra uno “scabellum”, ed un coperimento di tela lavorata di tela. Sopra l’altare era raffigurata l’immagine della Gloriosa Vergine Maria, che si asseriva essere quella di “s.tae Mariae de lo succurso”. L’altare era dotato di 2 candelabri di legno, un vestimento sacerdotale di tela completo con una “Casula” di raso giallo, un calice di peltro “Cum patena et Corporalibus”, un “Missalem” con sopra un “lintheamen” di tela mentre, nelle sue vicinanze, era posto un crocefisso a tutto tondo (“de relevo”).

Vicino all’altare si trovava una “arca”, al cui interno furono rinvenuti un “lintheamen”, una casula di velluto verde, un vestimento sacerdotale di tela completo, un “plumacium”, diversi “amictos”, stola e “manipulos”, tre tovaglie, un “Coperim.tum” di tela, un altare portatile, altre tovaglie ed un “mandile”. Dentro un’altra arca si ritrovarono, invece, una casula di tela vetusta, due coperimenti di tela vetusti ed un’altra casula di tela.

A questo punto il vicario ammonì i cappellani, e minacciando la pena della scomunica e del pagamento di 25 once, ingiunse loro entro il giorno successivo, di esibire i documenti di concessione relativi alla confraternita, presentando tutti i vestimenti posseduti dai procuratori di quest’ultima. Egli inoltre, in questo frattempo, ordinò a tutti di astenersi dal celebrare la messa.

La visita proseguì presso l’altare “dicto Illorum de maurello” sotto l’invocazione di “s.ti Aug.ni”, sopra il quale esisteva una “copertura sive Cappellum de ligno”. Sotto pena della scomunica e della privazione dell’altare, fu ordinato a “Illorum de maurello” di ripristinare entro il termine di 4 mesi, tutto il necessario per la celebrazione della messa.

Successivamente, il cantore rinvenne un altare con un arco sotto l’invocazione di “S.tae m.ae” appartenente alla famiglia Caracciolo, i quali furono ammoniti come sopra.

A seguire, egli visitò numerosi altri altari, cappelle ed oratori e, trovandoli tutti in condizioni simili, precettò i relativi cappellani e patroni, ammonendoli attraverso la minaccia della scomunica e di una sanzione pecuniaria ed ingiungendo loro di ripristinare condizioni adeguate per la celebrazione della messa.

Nell’ordine, egli rinvenne l’altare sotto l’invocazione di “s.tae mariae” appartennte ad “Illorum de rizzo”, l’altare di “s.ti franc.ci de paula” della famiglia Cortese, un “altare ligneum” appartenente alla famiglia Monaco, un “oratorius” sotto l’invocazione di S.to Antonio della famiglia Ligname, un altare per “ornam.to dictae ecc.ae”, un altare “Cum imaginem glo(rio)sae virginis Mariae in muro et est Illorum de monecto” di cui era cappellano D. Minicus Mellus, un altare “fabricatum” sotto l’invocazione di “S.ti Ambrosi” della famiglia Foresta, di cui era cappellano D. Nicola Misiano, la “cap.lam” della confraternita sotto l’invocazione di “s.ti Rocchi” di cui era cappellano D. Nicola Misiano, un altare sotto l’invocazione di “glo(rio)sae virginis Mariae” della famiglia Coiella di cui era cappellano D. Thomasius Scandale, un altare sotto l’invocazione di “s.ti Ioseph” della famiglia “de Strongili”, un altro altare, una “cap.lam” sotto l’invocazione di “s.ti Rosarii et est de Consororibus ipsius cap.lae”, di cui era cappellano D. Minicus Mellus, un “altarem fabricatum” i cui cappellani furono ammoniti affinchè esibissero i documenti relativi alla “erectione altaris p.ti” ed un “altarem fabricatum” sotto l’invocazione di “s.tae Mariae de pietate” appartenente alla famiglia Natale.

A questa situazione che rilevava un generale scarso decoro degli altari, mettendo in rilievo evidenti abusi, faceva comunque riscontro il buono stato della chiesa, al cui interno si trovavano diverse travi e che si presentava “Intemplata per totum”, con 3 campane nel campanile ed un campanello nella sacrestia, mentre una lampada ardeva davanti all’altare maggiore. Si evidenziava che “In medio ecc.iae est fons aquae” e che la chiesa “h(ab)et Thalamum”.

Alla fine della sua vista, minacciando le solite pene, il vicario ingiunse ai confrati di provvedere entro otto giorni a rifare la serratura, ammonendo tutto il clero presente ed interdicendo a chiunque di celebrare nella chiesa, fino al completo adempimento di quanto disposto e, comunque, solo dietro espressa licenza.[v]

policastro annunziata

Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata.

 

Santa Maria “la nova”

Proseguendo la sua visita dentro l’abitato di Policastro, il 9 di giugno il vicario visitò la “ecc.a diruta” “sub invocatione s.tae Mariae de la nova” dotata di un campanile, di cui era cappellano D. Sancto Sellicta, cui fu ordinato di esibire, nell’arco della stessa giornata, la “dote” ed i vestimenti di cui si trovava in possesso.[vi]

La chiesa, il cui titolo evidenziava la sua esistenza più recente, rispetto alle altre di Policastro sotto l’invocazione della Vergine, risultava, al tempo, nell’elenco dei benefici della diocesi di Santa Severina che dovevano pagare le decime alla Santa Sede[vii] e tra quelle di Policastro che dovevano corrispondere all’arcivescovo di Santa Severina la quarta beneficiale, come risulta documentato nel “Libro de tutte l’intrate de lo arcivescovado de’ s(a)nta Anastasia”, durante il quadriennio 1545-1548 e nel 1566. Come si annotava però a margine del pagamento, dovuto a questo titolo per l’anno 1548 da D. Antonino Caldararo, rettore del beneficio, l’entrata segnata nell’elenco risultava “persa”, essendo la chiesa ormai priva di rendite.[viii] Durante la prima metà del secolo successivo, troviamo comunque, le annotazioni che registrano il pagamento della quarta beneficiale da parte del “Capellano di S.ta Maria la nova”.[ix]

 

La SS.ma Annunziata “nova”

In conseguenza del generale impoverimento che caratterizzò la vita del territorio negli ultimi decenni del Cinquecento, alla fine del secolo diverse chiese di Policastro furono unite tra di loro, così da costituire rendite adeguate a permettere una vita decorosa del clero.

In tale frangente la confraternita dell’Annunziata[x] fu trasferita entro le mura, nella chiesa di Santa Maria “la nova” che, per tale motivo, fu detta la SS.ma Annunziata “nova”,[xi] la cui rinnovata importanza, risulta sottolineata dall’arcivescovo Alfonso Pisani, nella sua relazione del 1589 prodotta per la Santa Sede, dove definisce la “S.ma Annuntiata”, la “maggiore” tra le “confraternità” di Policastro, “ben servita di messe, e principalmente i giorni festivi con canto, et organo”.[xii]

Questo passaggio risulta evidenziato da atti notarili dei primi anni del Seicento, che individuano alcuni stabili posti nelle vicinanze della chiesa, attraverso l’indicazione: “in convicinio Ecclesie s.me Annuntiate nove ditte terre”, oppure “in convicinio s.te Marie Nove ditte terre”.

18.07.1606. Dianora Rizza, con il consenso del marito Minico Zetera, vendeva a Joannes Fran.co Schipano la “domum palatiatam et casalenum unum in eodem loco”, posti dentro la terra di Policastro “in convicinio Ecclesie s.me Annuntiate nove ditte terre”, confine, muro congiunto, la domus di Simuni Ritia, confine i beni degli eredi di Luca Furesta e la via pubblica da due lati.[xiii]

23.01.1607. Joannes Fran.co Circhiono e sua moglie Virardina Cipparrone, assieme a Dianora Cipparone, madre di detta Virardina, vendevano a Joannes Fran.co Schipano, il “casalenum” posto dentro la terra di Policastro, “in convicinio s.te Marie Nove ditte terre”, confine il casaleno del detto Joannes Francesco Schipano, l’orto di Joannes Carcelli, la domus di Semune Rizza, la via pubblica ed altri fini.[xiv]

30.03.1607. Marco Rizza de Simune vendeva a Fran.co Schipano, la “domum terraneam” posta nella terra di Policastro, “in convicinio Ecclesie s.e Nuntiate nove”, confine la domus di Pompeo Rizza, il casaleno di detto Francesco, l’orto di Joannes Carcelli, la via pubblica ed altri fini.[xv]

14.09.1608. I coniugi Minico Gerardo e Dianora Rizza, avevano venduto ad annuo censo a Joannes Fran.co Schipano, la “domum terraneam cum Casaleno contiguo” posta dentro la terra di Policastro, nel loco detto “lo fumerello”, nel convicino della venerabile chiesa della SS.ma Annuntiata “nova”, confine la domus di Joannes Carcelli e la via pubblica da due lati. Essendo il detto Joannes Fran.co nell’impossibilità di pagare, per onorare il proprio debito, è costretto a vendere la propria “domum terraneam”, posta dentro la terra di Policastro, nello stesso loco della precedente.[xvi]

01.05.1606. La domus nella quale al presente abitava il presbitero Joannes Liotta, era posta dentro la terra di Policastro “in convicinio ecclesie s.me Annuntiate nove”, confine la domus di Joannes Petro de Aquila e Joannes Baptista Rizza, e la via pubblica da due lati.[xvii]

02.09.1607. Joanne Petro de Aquila e suo figlio Joanne And.a de Aquila, vendevano a Joannes Alfontio Cerasaro, una “domum palatiatam” posta dentro la terra di Policastro, “consistente in pluribus e diversis membris, et potica in convicinio Ecclesie santae Mariae la nova”, confine la domus del presbitero Joannes Leotta, Marco Antonio de Aquila, la via pubblica ed altri fini.[xviii]

05.02.1608. Davanti al notaro si costituiscono Nicolao de Strongolo e Fran.co Commeriati de Scipione, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Fran.co e Gratiusa de Strongolo “virginis in capillo”, figlia del detto Nicolao. Gio: Thomaso Richetta, giudice a contratto e zio della futura sposa, le donava una “casa terrana” “in dui menbri”, posta dentro la terra di Policastro nel convicino di “s.ta Maria la nova”, confine la casa di Gioni Caccuri, vinella mediante “della parte di sopra”, la casa di Minico Pollizzi, l’orto degli eredi del quondam Andria Campitello, la via pubblica ed altri confini.[xix]

14.05.1604. Testamento di Minico Pollizzi, abitante “intus p(redi)ttam Civitatem iusta Ecclesiam S.te Annuntiate la nova iusta domum Fran.ci Callea iusta domum sebastiani polla viam publicam, et alios fines”.[xx]

11.04.1609. Testamento di Nicolao de Strongoli, abitante nella “domum terraneam” posta nella terra di Policastro, nel convicino della chiesa della SS.ma Annunziata “nove”, confine la domus di Joannes Caccuri, vinella mediante, la domus di Joannes Fran.co Callea, la via pubblica ed altri fini.[xxi]

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata. Portale principale.

 

L’Annunnziata nuova e quella vecchia

A seguito del trasferimento della confraternita dell’Annunziata, esistettero in Policastro due chiese con questo titolo: una detta dell’Annunziata “nova”, ed un’altra  detta “la vecchia” o “de fora”.[xxii] Mentre la prima era posta entro le mura, la “V(enera)b(i)lem Ecc.m Sanctissimae Annunciatae vulgo dicta de fora”, era sita fuori le mura “in loco ubi dicitur lo ringo”, vicino le “ripas dictae Civitatis”, dove passava la via pubblica e predominava la coltivazione del gelso,[xxiii] e dove si trovavano i “sicomos” della stessa chiesa,[xxiv] lasciati dal quondam Joannes Berardino Petralia.[xxv] I terreni arborati di gelsi, di olivi e noci, s’estendevano anche nei luoghi sottostanti la chiesa.[xxvi]

Durante la prima metà del Seicento, risulta che la chiesa fu amministrata da un procuratore eletto annualmente,[xxvii] carica che fu ricoperta da Hijeronimo Romano nel periodo 1626-1635.[xxviii] La sua amministrazione, comunque, non sembra essere stata esente da ombre. Il 14 agosto 1645, infatti, in occasione della stipula del suo testamento, Hijeronimo Romano, dichiarava di essere stato procuratore della SS.ma Annunziata “de fora”, ammettendo però, che i conti della sua amministrazione non erano stati “visti”. Disponeva, quindi, che nel caso detti conti fossero stati visti dopo la sua morte, e fosse stato condannato ad un qualche pagamento, voleva che i suoi eredi soddisfacessero subito i creditori.[xxix]

In seguito (1638) troviamo che ricoprì la carica il R.do D. Joannes Dom.co Fiorillo.[xxx] Come apprendiamo da un atto del 20 ottobre 1641, nel suo ultimo testamento, Ippolita de Luca, madre del detto procuratore, aveva legato ducati 50 alla chiesa della “Sanctissimae Annunciationis dictae de fore”, da investire nell’acquisto di un bene stabile, affinchè fosse celebrata una messa la settimana per la sua anima, da parte del detto suo figlio. Questi aveva prodotto la necessaria istanza presso la corte arcivescovile di Santa Severina, per il necessario assenso, ricevendo però parere negativo, perché la somma era stata ritenuta esigua. Volendo comunque adempiere alle volontà della madre, il richiedente, oltre al “terreno dell’umbro di marrari”, del valore di più di ducati 50, che cedeva alla detta chiesa, aggiungeva così anche il censo irredimibile di annui carlini 20, sopra il suo terreno detto “le limine” e sopra tutti i suoi beni, riservandosi l’usufrutto dei detti beni e la possibilità di eleggere il sacerdote che, dopo la sua morte, avrebbe dovuto continuare a celebrare l’ebdommada.[xxxi]

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata. Particolare del portale principale.

 

L’Annunziata “nova” agli inizi del Seicento

Agli inizi del Seicento, la chiesa dell’Annunziata “nova”, sita presso le rupi su cui era posto l’abitato di Policastro[xxxii] nel luogo in cui passava “la istrada che scende dalla santiss.a nuntiata alla porta della terra detta la Judeca”,[xxxiii] e confinante, “vinella mediante”, con la casa di Andrea Caputo e Julia Ceraldo, figlia di Joannes Thoma Ceraldo,[xxxiv] fu interessata da lavori di ricostruzione. Lavori che, in primo luogo, riguardarono il rifacimento della “Intempiatura” dell’edificio sacro.

Il 5 ottobre 1625, Joannes Baptista Callea, in qualità di tutore degli eredi minorenni del quondam Joannes Alfonso Cerasari, cedeva per ducati 240 al dottore Mutio Giordano, una casa consistente in diversi membri. Quest’ultimo s’impegnava così a pagare alla “Confraternita” della chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, ducati 230 “per la fattura che si haverà da fare in detta chiesa della intempiatura”, in base a quello che era stato il precedente accordo fatto con il quondam Joannes Alfonso Cerasari, obbligandosi a corrispondere il denaro, nei tempi che sarebbero stati richiesti dal procuratore della detta chiesa.[xxxv]

Interventi riguardarono successivamente, anche il campanile della chiesa, impegnando “pro riparatione seu fabrica Campanili”, il denaro ricavato dalla vendita di una casa, donata alla chiesa per questo scopo, da Caterina Jerardo, “alias petua”, vedova del quondam Vangilistio Condo,[xxxvi] al quale furono assommati anche i 10 ducati lasciati da Joannes Paulo Cavarretta, “per agiuto della fabrica del Campanile di essa chiesa”.[xxxvii]

Il 7 febbraio 1636, il R.do D. Joannes Andrea Alemanno, procuratore della SS.ma Annunziata “nova”, vendeva a Gio: Dom.co Amannato di Zagarise, “abitante” da più anni in Policastro, la “Casetta palaziata” posta dentro la terra di Policastro nel convicino della SS.ma Annunziata “nova”, che era appartenuta alla quondam Caterina de Petua, e per ottemperare alle volontà testamentarie di quest’ultima, faceva fare “nella terra di Cutro li riscioli per detto Campanile”.[xxxviii]

Già agli inizi del secolo, invece, si era provveduto a dotare il campanile di una nuova campana. Il 13 aprile 1606, Joannes Dom.co Apa, procuratore della chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, aveva trovato l’accordo con il magister Nicolao Luciano della città di Messina. A quel tempo, quest’ultimo si era impegnato a giungere a Policastro alla metà del successivo mese di maggio, per realizzare una campana nuova, della grandezza che sarebbe venuta, utilizzando il metallo di una vecchia campana “rutta”, ed altro metallo detenuto dalla chiesa ascendente a circa cantara nove. Il prezzo pattuito per retribuire la sola mastria, era di ducati trenta, di cui quattro il mastro li aveva già ricevuti, mentre gli altri ventisei li avrebbe dovuti ricevere invece a completamento dell’opera.[xxxix]

A quel tempo la chiesa aveva già assunto una notevole importanza e pur non essendo parrocchiale, vi si celebravano alcuni sacramenti[xl] ma, soprattutto, era rapidamente divenuta il principale luogo pio di Policastro in cui si seppellivano i morti.

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata, portale laterale.

 

Le sepolture

A Policastro, come negli altri luoghi della diocesi di Santa Severina, in occasione di ogni “mortizzo seu funerale”,[xli]  la chiesa arcivescovile esigeva per antico diritto, il pagamento in denaro dello “jus mortuorum”,[xlii] ovvero “la ragione chi li tocca”, mentre il cappellano percepiva “la ragione della stola”.[xliii] Oltre allo jus mortuorum, l’arcivescovo riceveva anche il pagamento dello “jus quarte” o “quarta luminarium”, esigendo la quarta parte delle luminarie realizzate durante i funerali.[xliv]

In queste occasioni, per “farli quell’honore che li convene”, a volte, alcuni disponevano che fosse presente un’apparato adeguato alla propria condizione, come nel caso di quelli che richiedevano di “farci andare tutte le confraternità et farci luminaria honorata conforme l’altre pare sue”,[xlv] in maniera da essere seppelliti con “honore”.[xlvi] Ai meno abienti, a volte, non rimaneva invece che invocare la carità, chiedendo di essere seppelliti “soper l’amor di dio”.[xlvii]

Accanto allo jus mortuorum ed alla quarta parte delle luminarie, la chiesa arcivescovile possedeva ancora, lo “jus sepolture”, esigendo sei tareni, tanto da quelli che si facevano seppellire nelle chiese della diocesi, legando per testamento, quanto da coloro che morivano “ab intestatis”.[xlviii]

Le entrate relative a questi diritti in Policastro, sono documentate già alla metà del Cinquecento, nel “Libro de tutte le intrate de lo arcivescovado de s(a)nta Anastasia”,[xlix] ed alla metà del secolo successivo, come risulta il 18 maggio 1654, dall’entrate della Mensa Arcivescovile esatte da D. Tomaso Antonio Dardano, commissario apostolico.[l]

Risalgono agli inizi del Seicento i primi testamenti che documentano di sepolture nella chiesa dell’Annunziata “la nova”, o “nova” di Policastro. Tali sepolture continuano ad essere documentate durante tutta la prima metà del secolo, quando emerge come, a quel tempo, questa scelta fosse già ampiamente diffusa tra gli abitanti del luogo.[li] In alcuni casi, dopo aver ricevuto i divini uffici nella chiesa, la salma poteva essere spostata e tumulata altrove.[lii]

Attraverso quanto emerge dai testamenti contenuti nei protocolli notarili dei notari di Policastro della prima metà del Seicento, rileviamo che, all’interno della chiesa, le deposizioni potevano avvenire nella propria “Chiatra, seu sepoltura”,[liii] che poteva anche essere stata ricevuta in eredità,[liv] in quella dove si trovavano sepolti i propri familiari e parenti,[lv] o altri particolari,[lvi] oppure in un luogo particolare della chiesa.[lvii] In altri casi, il testatore non lasciava una precisa disposizione, ma si rimetteva alla volontà dei propri eredi[lviii]

Alti invece, ricorrevano alla sepoltura dei “Confrati”[lix] che, in ragione di questa loro appartenenza, a volte si facevano seppellire “con l’habito”,[lx] o alla cappella del SS.mo Rosario.

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata, portale laterale.

 

La cappella del SS.mo Rosario

Le sepolture maschili e femminili nella “Cappella del santiss.mo rosario”, eretta “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova”, sono documentate numerose già nei primi anni del Seicento, continuando ad esserlo durante tutta la prima metà del secolo.[lxi]

In alcuni casi, per farsi seppellire nelle sepolture di questa cappella, dove esisteva anche quella “delle Consoro del SS. Rosario”,[lxii] alcuni donavano una somma di denaro, oppure una tovaglia, o un altro capo di tessuto, di valore commisurato all’incombenza,[lxiii] disponendo, a volte, la celebrazione di un certo numero di messe per un particolare suffragio.[lxiv]

Una parte del denaro proveniente da questi lasciti, o dai pagamenti derivanti dalla concessione dei beni ricevuti in queste occasioni,[lxv] era destinato “pro riparatione ipsius Cappelle”.[lxvi]

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Petilia Policastro (KR), cappella del SS.mo Rosario nella chiesa dell’Annunziata.

 

Dalla rendita fondiaria al mercato creditizio

Rispetto all’epoca medievale, quando la vita economica delle chiese si basò fondamentalmente sulla rendita fondiaria, essendo considerato peccato il prestito di denaro, a seguito soprattutto della crisi economica che caratterizzò la vita del territorio durante la seconda metà del Cinquecento ed il secolo successivo, andò sempre maggiormente diffondendosi la tendenza degli enti ecclesiastici di spostare i loro interessi verso il credito, investendo dei capitali sul mercato locale.

A questo scopo, il denaro necessario a tale attività, pur continuando a provenire, in parte, dalle antiche entrate,[lxvii] fu reperito, principalmente, attraverso i lasciti e le donazioni dei fedeli che, per ottenere dalla chiesa che un cappellano celebrasse, per un certo tempo, delle messe in suffragio della loro anima, le lasciavano una somma di denaro o dei beni stabili, come risulta ampiamente documentato nel caso dell’Annunziata “nova” di Policastro[lxviii] che, allo scopo, risultava amministrata da un procuratore nominato annualmente con il beneplacito dell’arcivescovo.

Sappiamo che durante la prima metà del Seicento, ricoprirono questa carica: Stefano Capozza (1616),[lxix] Joannes Thoma Faraco (1621),[lxx] il R.do D. Petro Giraldo (1623),[lxxi] il clerico Blasio Capozza (1624),[lxxii] il presbitero Joannes Lanzo (1625),[lxxiii] D. Santo de Pace (1629),[lxxiv] D. Joannes And.a Alemanno o Lamanno (1630),[lxxv] (1632),[lxxvi] (1633),[lxxvii] (1635),[lxxviii] e (1636),[lxxix] il R.do D. Joannes Fran.co Gardo (1639),[lxxx] ed il R.do D. Joannes Dominico Fiorillo (1642).[lxxxi]

Previo l’assenso della corte arcivescovile, i beni ricevuti dalla chiesa attraverso i lasciti testamentari, erano posti all’incanto e venduti ad annuo censo sulla pubblica piazza.[lxxxii] Beni sui quali rimaneva infisso il censo determinato al momento della vendita.[lxxxiii]

In altri casi, attraverso il lascito alla chiesa di beni, il cui valore doveva poter assicurare una rendita adeguata, i fedeli ottenevano da quest’ultima, l’impegno a che fossero celebrate in perpetuo, un certo numero di messe settimanali di suffragio (ebdommade).[lxxxiv] In relazione al denaro ricevuto per la celebrazione di queste messe, e considerato anche il diverso onere relativo alle messe “basse” ed a quelle “cantate”, il procuratore dell’Annunziata “nova” assegnava “per tabella” ad un cappellano, “tanto servim.to” “de edonmade in detta chiesa”. Sui beni oggetto di questi legati rimaneva il peso delle messe, che costituiva per la chiesa un onere perpetuo.[lxxxv]

La rinnovata vitalità dell’Annunziata verso la fine del Cinquecento, legata all’importanza della sua attività creditizia, che la poneva come principale riferimento locale,[lxxxvi] risulta evidenziata anche dalla costituzione al suo interno, di diversi altari o cappelle che, alcuni privati di condizione più agiata, edificarono allo scopo di ritagliarsi una posizione privilegiata. La soddisfazione di questa loro volontà non era comunque scontata, dovendo ricevere l’assenso della gerarchia ecclesiastica, incontrandone il favore.

Ne è un esempio, il testamento del frate Marco Mingaccio della terra di Caccuri, stipulato il giorno di Natale del 1604, nella sacrestia della chiesa di Santa Caterina di Policastro, dove si trovava infermo. In questa occasione, il frate disponeva di essere seppellito nella stessa chiesa, lasciandola erede dei suoi beni, con il patto però che, entro sei mesi dalla sua morte, il suo procuratore avrebbe dovuto far costruire una cappella. Per “fattura et accomodam.to di detta Cappella ci lascia docati dece”, mentre, altri quattro ducati li lasciava affinchè, in beneficio della sua anima, fosse detta una ebdommada la settimana in perpetuo, nella detta costruenda cappella. A garanzia delle proprie volontà, disponeva che, non facendosi la cappella entro i sei mesi, succedesse nel legato la chiesa dell’Annunziata Nova di Policastro, i cui procuratori avrebbero dovuto avere pensiero di costruire la cappella nella detta chiesa “dove alloro piacerà”.[lxxxvii]

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Petilia Policastro (KR), statua della Vergine del SS.mo Rosario nella chiesa dell’Annunziata.

 

L’oratorio dei Santi Innocenti

Il cappellano dell’oratorio “delli innocenti”, ovvero dei “Sanctorum Innocentium” della terra di Policastro, comincia ad essere chiamato in sinodo nel 1594, quando comparve pagando il “censo solito” di una libra di cera.[lxxxviii] Nei sinodi successivi della prima metà del Seicento, in alcuni casi comparve pagando il censo, in altri non comparve e non pagò.[lxxxix] Il 10 giugno 1662, in occasione del sinodo di quell’anno, il “Capp.nus SS. Innocentium” fu condannato, risultando tra coloro che non erano comparsi per il pagamento dello “Jus Cathedratici”. Qualche giorno dopo risultò che non esistevano né l’altare né il cappellano.[xc] In occasione dei sinodi successivi, fino alla metà del Settecento, il cappellano risulta sempre chiamato a comparire.[xci]

 

La cappella di San Giovanni Battista

Tra le cappelle più antiche presenti nell’Annunziata “nova” di Policastro, di cui abbiamo notizia, troviamo la cappella o oratorio di San Giovanni Battista, la cui esistenza comincia ad essere documentata in occasione del sinodo diocesano del 1595, quando D. Gio: Dom.co Catanzaro, comparve offrendo “una lib. di cera” per “L’orat.o di S. Gio: bap(tis)ta”, a titolo di cattedratico.

In seguito, il cappellano o rettore dell’oratorio di “S. Joannis Bapt(ist)ae” risulta chiamato in occasione dei sinodi convocati tra la fine del Cinquecento e gl’inizi del Seicento, periodo in cui, oltre al suo rettore (il “principale”), agiva anche un “procuratore”.[xcii]

Alcuni documenti evidenziano che lo jus patronato dell’oratorio apparteneva ai de Fiore. Il 15 agosto 1609, davanti al notaro, si costituivano il parroco D. Vincenso de Fiore e Joannes Dom.co Argise, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Joannes Dom.co e “soram” Dominica Massa. Tra i beni della dote promessa dal detto presbitero Vincenso, in parte gravati da censi, troviamo: “una continentia di vigne” poste nel territorio di Policastro loco detto “olivano”, confine le vigne della “Cappella di s.to Gio: Bapt(ist)a” che adesso possedeva il detto D. Vincenso. Si pattuiva che, morendo la detta futura sposa senza figli, la dote sarebbe dovuta tornare alla “Cappella di san Gioani battista ius patronato di detta promissione sita e posta dentro la venerabile chiesa della santiss.ma Nuntiata la nova di detta terra”.[xciii]

Dopo il rifacimento della chiesa a seguito del terremoto del 1638, l’altare non fu più ricostruito, anche se il beneficio permase. La passata esitenza dell’“Alt.re di S. Gio: Batt(ist)a”, “nel corno manco dell’Altare Mag.re” della “nuova Chiesa della SS.ma Ann.ta”, dove si era incominciato a costruire una nuova cappella, risulta ricordata nel 1640[xciv] mentre, una provvista del luglio 1644, riferisce che il “patronatus laicorum” sotto l’invocazione di “S. Ioannis Baptistae”, vacante per la morte di Io. Nicolao de Flore, assieme al semplice beneficio sotto l’invocazione di “S. Ioseph”, vacante da più di un triennio, per la morte di Petro Pedace, ed entrambi esistenti “in ecclesia Annuntiationis B.M.V.” di Policastro, erano stati concessi al presbitero Luca Ant.o Fanele.[xcv]

Il giorno 19 giugno 1662, in occasione del sinodo di quell’anno, si annotava: “Facta quoque omni diligintia, fuit repertum nunc non adesse Altaria S. Jo: Baptistae et SS.rum Innocentium, neque Rectores, sive Cappellani nec fratres existentes seu rendentes eisdem altaribus, aut Cappellanis sive.”[xcvi] In seguito risulta documentato che il rettore di “Sancti Joannis Baptistae”, fu sempre chiamato in sinodo, fino a tutta la metà del Settecento.[xcvii]

 

L’altare di San Giuseppe

Anche l’esistenza dell’oratorio di San Giuseppe, jus patronato della famiglia Campitelli, comincia ad essere documentata in occasione del sinodo diocesano del 1595, quando risulta l’offerta del cattedratico di “una libra di cera” per “L’orat.o di S. Giuseppe”, da parte di D. Gio: Dom.co Catanzaro.

Il cappellano dell’oratorio di “S. Joseph”, compare anche nei sinodi successivi[xcviii] ma, a cominciare dal quello del 1612, fu dispensato dal pagamento dovuto, avendo ottenuto la grazia da parte dell’arcivecovo, essendo egli il suo “secretarius”. Troviamo così che, nei primi anni successivi, il cappellano non comparve, o lo fece per ottenere la grazia, mentre, in seguito, non risulta più chiamato in sinodo.[xcix] A quel tempo, D. Joannes Petro Pedace deteneva la cappellania perpetua di “S. Ioseph, in ecclesiae SS. Annuntiatae”, assieme ad altri benefici,[c] mentre sappiamo che “l’altare di sangioseppe”,[ci] possedeva terre in loco detto “la fiomara”.[cii]

Nel proprio testamento del 4 giugno 1630, Alfonso Campitello disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova”, istituendo eredi i suoi figli: Caterinella, Ferrante, Michele Angelo e Laurella Campitello, assieme al figlio che avrebbe avuto Vittoria Coliccia sua moglie. Lasciava ducati 100 affinchè gli eredi comprassero un bene stabile sicuro nel territorio di Policastro, per la celebrazione di due ebdommade la settimana nell’altare maggiore della SS.ma Annunziata “nova”.[ciii]

Morto Gio: Petro Pedace nel mese di agosto del 1640, il semplice beneficio di San Giuseppe fu concesso al presbitero diocesano Martino Megali.[civ] Quest’ultimo però, non ne entrò in possesso. Una provvista del luglio 1644, riferisce infatti che, il beneficio ormai vacante da più di un triennio, assieme a quello di “S. Ioannis Baptistae”, erano stati concessi al presbitero Luca Ant.o Fanele.[cv]

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Petilia Policastro (KR), cappella di San Giuseppe nella chiesa dell’Annunziata.

 

La cappella di San Carlo

Nel suo testamento del 2 agosto 1611, Joannes Baptista Larosa di Catanzaro, ma abitante in Policastro, dichiarava di aver prodotto querela contro Fabio Rotundo a causa “della insulencia dello altare”.[cvi]

L’esistenza di una cappella dedicata a San Carlo, dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, risulta documentata da un atto del 15 febbraio 1615. Quel giorno, Fabio Rotundo donava a Joannes Rotundo la “vineam arboratam ficis et quercum”, posta nel territorio di Policastro loco detto “la chianetta”, con il patto che, morendo il detto Gianni senza figli, la vigna sarebbe dovuta andare alla cappella di detto Fabio intitolata alla “inmagine di san carlo” posta dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”.[cvii]

La volontà di Fabio Rotundo di garantire la disponibilità dei propri beni ai suoi discendenti, attraverso l’erezione della cappella, risulta testimoniata da altri atti.

Il 19 giugno 1616, davanti al notaro ed al cospetto del parroco, si costituivano Thomas Jerardo e Joannes Rotundo, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Joannes e Vittoria Jerardo, figlia del detto Thomas. In questa occasione, Fabio Rotundo prometteva al futuro sposo ducati 100, che questi avrebbe dovuto impiegare per l’acquisto di un bene stabile che, anche dopo il matrimono, sarebbe rimasto di suo esclusivo possesso. Nel caso, invece, che il detto Gianni fosse morto senza eredi, la detta somma sarebbe dovuta andare alla cappella del detto Fabio intitolata a “Sancarlo”, posta dentro la chiesa dell’Annunziata “nova”. In questa occasione, il detto Fabio ratificava al detto Gianni la donazione già fatta, della vigna posta nel loco detto “la chianetta”, e gli donava la propria parte del castagneto posto nel loco detto “le castagna di sacco”, che deteneva in comune ed indiviso con Margarita di Benigno e Laura di Alfonso Polla.[cviii]

L’otto settembre 1616, in occasione del matrimonio tra Fabio Rotundo e Dianora Coco, si pattuiva che, alla morte della detta Dianora, il dotario dovesse andare alla cappella del detto Fabio sotto il titolo di “Sancarlo” posta nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”.[cix]

Il 17 aprile 1636, dietro la richiesta di Dianora Coco, ormai vedova ed erede del quondam Fabio Rotundo, il notaro si portava nella domus palaziata consistente in più e diversi membri, dove aveva abitato il defunto, per redigere l’inventario “seu ripertorium” dei suoi beni. Tra questi risultava una continenza di terre arborate di “cerse” loco detto “attalione, et furesta” che apparteneva alla Cappella di San Carlo nella SS.ma Annunziata “nova” dove era stato seminato un tomolo di grano.[cx] Bene che risultò anche in occasione di un secondo inventario, l’otto luglio di quell’anno, fatto su richiesta di Gregorio Spinelli, erede con “benefitio legis, et Inventarii”, del quondam Fabio Rotundo, suo “advunculum”.[cxi] L’esistenza delle terre della “Cappella Santi Caroli”, poste presso il fiume Tacina, risulta documentata anche qualche anno dopo.[cxii]

Da questo periodo, il “Rector S. Caroli”, anche attraverso il suo procuratore, comincia ad essere chiamato in sinodo per offrire la libra di cera dovuta all’arcivescovo a titolo di cattedratico, come risulta documentato in occasione del sinodo del 1633.[cxiii] Nel prosieguo degli anni a cavallo della prima metà del Seicento, dopo alcune volte in cui egli comparve e pagò, o altri ecclesiastici lo fecero per lui, a cominciare dal sinodo del 1645, non comparve più.[cxiv]

Il 10 giugno 1662, in vigore del decreto della curia arcivescovile del 21 maggio di quell’anno, il “Rector Altaris S. Caroli pro libra Cerae”, figura nell’elenco di coloro che non erano comparsi per pagare lo “Jus Cathedratici”, e che furono condannati al pagamento della terza parte dei frutti, oppure a pagare ducati 3 per ciascuno, nel caso che non avessero avuto annuo reddito.

Il 19 giugno successivo, s’intimava a D. Jo: Andrea Alemanno, “Rector vero Altaris S. Caroli”, nonchè procuratore dell’Annunziata, affinchè comparisse nel giorno della dedicazione della cattedrale e pagasse il cattedratico dovuto, tanto per “dicto Altari S. Caroli quam p.o eadem Eccl.a SS.mae Annunt.nis”. Successivamente, non risulta più chiamato in sinodo.[cxv]

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Petilia Policastro (KR), cappella di San Giuseppe nella chiesa dell’Annunziata. Arme della famiglia Campitelli.

 

La cappella di Santa Maria del Carmine

Al fine di consentire al chierico Gio: Vicenso Riccio, suo figlio, di poter accedere agli ordini sacerdotali, il 5 maggio 1615, Joannes Fran.co Rizza gli donava “una mercantia di porci” di numero 140 “grossi”, alla condizione che questi pagasse ducati 150 al Barone dell’Amato, per il pascolo delle ghiande che i detti porci facevano nella difesa del barone, per il periodo in cui si era obbligato detto Joannes Fran.co, e pagasse, ancora, ducati 180 a Camilla di Vona, vedova del quondam Fabio Rizza, per ciò che gli doveva detto Joannes Fran.co, come erede del detto quondam Fabio. Il detto chierico Gio: Vicenso, rimaneva obbligato anche ad erigere “la cappella” secondo la volontà lasciate dal detto quondam Fabio nel suo testamento.[cxvi]

Il 20 maggio 1622, Gio: Fran.co Riccio, adempiendo alle volontà del quondam Fabio Riccio, suo fratello, che gli aveva lasciato di celebrare 2 ebdommade la settimana nella “Cappella Costruenda, et facienda per detto herede”, dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, “intitulata Santa maria dello Carmino”, costituiva e fondava le dette due messe per ducati 10 all’anno, sopra i frutti della possesione di “gorrufi” posta dentro il territorio di Policastro.[cxvii]

policastro annunziata

Petilia Policastro (KR), cappella della Madonna del Carmine nella chiesa dell’Annunziata.

 

L’altare di San Gerolimo

Attraverso l’atto stipulato il 28 maggio 1627, Stefano Capozza asseriva che, il quondam Giannino Capozza, “suo avo”, aveva lasciato due ebdommade sopra “le terre dell’agrillo seu salito”, poste nel territorio di Policastro. Ebdommade che si dovevano servire nell’altare di “Sangerolimo” posto dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”.

Al presente, avendo ritrovato “uno instromento in Carta di Corio”, stipulato dal notaro Gioluise Scandale il 24 settembre 1582, mediante il quale, il quondam Blasio Capozza, suo padre, aveva comprato dette terre dal quondam Scipione Callea, ne faceva donazione al C. Blasio Capozza suo figlio, con il patto che, pervenuto questi agli ordini sacri e fattosi “preite”, avrebbe dovuto servire egli stesso le due ebdommade. Di più, in qualità di donatario del quondam Salvatore Traijna, cedeva al detto suo figlio, anche le terre che erano appartenute al detto quondam Salvatore, gravate dal servimento di una ebdommada la settimana nell’altare della menzionata cappella, come appariva dalla donazione delle “terre di Santo Cesario” di circa 9 tomolate, stipulata dal notaro Fran.co Accetta il 23 aprile 1618. In occasione di questa donazione, il detto Stefano aveva ricevuto la potestà di eleggere cappellani il detto Blasio, quando questi fosse giunto agli ordini sacri, ed il quondam C. Gio: Simune de Chiara. Essendo morto quest’ultimo, la nomina rimaneva quindi a suo figlio Blasio.[cxviii]

 

La cappella di San Francesco d’Assisi

Il 15 giugno 1626, Joannes Baptista Callea vendeva a D. Joanne Liotta, il vignale della capacità di 1 tumolo e ½, posto nel territorio di Policastro loco “Marrari”, per il prezzo di ducati 10 e ½. Il detto D. Gianni ne pagava a detto Joannes Baptista, ducati 5 che, brevi manu, li consegnava ai reverendi D. Nardo Marchese e D. Scipione Callea, “Comoneri” del R.do Cl.o di Policastro, in parte di ciò che egli doveva a detto clero, in qualità di tutore dei figli ed eredi del quondam Gio: Alfonso Cerasaro, per il servimento delle messe celebrate “nell’oratorio di San Fran.co d’assisa fundato per detto q.m Cerasaro dentro la venerabile chiesa della Santiss.a nuntiata nova”.[cxix]

Come apprendiamo da un atto del primo giugno 1646, il quondam Francisco Cerasaro, nel suo testamento stipulato il 16 maggio 1640 dal notaro Leonardo de Pace, aveva lasciato ducati 100 alla SS.ma Annunziata “nova”, da impiegare nell’acquisto di uno stabile della cui rendita, di cui carlini 20 sarebbero dovuti andare alla detta chiesa, ed il resto per celebrare tante messe nella cappella di detto testatore.[cxx]

 

La costruenda cappella “delli santi”

Come apprendiamo da un atto del 6 ottobre 1627, nei mesi precedenti, per atto stipulato dal notaro Horatio Scandale, D. Joannes Leotta, “Vicarius Foraneus” di Policastro, aveva fatto donazione, con effetto dopo la sua morte, delle sue terre, ovvero: “parte di Comito, Luchetta et Cersito”, alla “Cappella costruenda” “delli santi” dentro la chiesa della SS.ma  Annunziata “nova”, con il patto che il procuratore della detta chiesa avrebbe dovuto provvedere, entro un certo tempo, a far impetrare la donazione da parte dell’arcivescovo.

Poiché però, “il tempo è già elasso” e per evitare che la detta donazione risultasse nulla, al presente la convalidava e confermava “in ogni futuro tempo”. Anzi l’ampliava, aggiungendo alla donazione fatta a detto “Altare seu oratorio ò Cappella eligenda vel Costruenda”, i seguenti beni: la gabella detta “de marrari”, che era appartenuta a Sanzone Salerno, “il Cugno seu serra della monaca”, che aveva comprato da “soro” Caterina di Cola, Fran.co Ant.o di Cola e Cl.o Gio: Dom.co di Cola, e “parte delle manche di Zaccarella per quanto ferisce detto Cugno seu serra della monaca”. Di più donava le terre poste negli stessi luoghi, che erano appartenute a Gio: Dom.co Argise. Quali terre: “la gabelluzza, Cugno seu serra della monaca, parte di Zaccarella e rotundone di argise”, con la “Jurditione di terre grutti e quanto tocca”, erano assegnate con il peso di messe cantate per la sua anima. Disponeva ancora, che la costruzione futura dell’oratorio, dopo la sua morte, avvenisse con le entrate delle sue robbe. Si dichiarava che, negli anni passati, detto D. Gianni aveva fatto testamento lasciando a Santa Caterina di Policastro, una certa quantità di denari per servimento di messe e di altro. Al presente annullava la detta donazione.[cxxi]

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Petilia Policastro (KR), cappella nella chiesa dell’Annunziata.

La cappella di Sant’Antonio di Vienna

L’esistenza della cappella di Sant’Antonio di Vienna risulta documentata nei primi anni del Seicento. Il 30 dicembre 1614, Gregorio Commeriati donava alla venerabile chiesa della SS.ma Annunziata “nova” di Policastro, nelle mani del suo procuratore Stefano Capozza, la “continentia di vigne” con due “vignali” contigui, posta dentro il territorio di Policastro loco detto “olivano”, con il patto che il detto procuratore, in sua vita, gli facesse dire una messa all’anno nella “venerabile Cappella di Santo Antonio di venna posta dentro detta chiesa”, per la somma di un carlino all’anno.[cxxii]

Il 18 agosto 1625, Cesare Poerio vendeva al Cl.o Scipione Tronga, la continenza di terre della capacità di salmate 8 circa, consistente in più e diversi vignali, posta dentro il territorio di Policastro loco “galioti seu la colla dello petrone”, con il peso di pagare annui ducati 3 alla cappella di “Santo Ant.o” posta dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”.[cxxiii]

Alcuni documenti successivi evidenziano che in loco detto “Marrari”, presso il fiume Soleo, si trovavano le terre o “gabella” della cappella di “Santo Antonio di venna”, ovvero “S. Antonio de’ Vienna”, lasciate dal quondam presbitero Joannes Leotta[cxxiv] e contigui con due pezzi di terra volgarmente appellati “Gabellas”, che furono acquistati dai suoi eredi.[cxxv]

Come riferiscono un atto del 15 febbraio 1645, ed un altro del 17 settembre di quell’anno, il beneficio che era stato del quondam presbitero Joannes Leotta, era “novam.te” pervenuto al Rev.s D. Salvatore Faragò, suo nipote.[cxxvi] Ancora nel marzo del 1647, questi possedeva il semplice beneficio “seu Jus Patronato di Santo Antonio”, posto dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”,[cxxvii] mentre un atto del 1741, documenta che la “Cabella dicta marrari”, confinava con le “terris d.tis Sant’Antonio”.[cxxviii]

 

La cappella della Natività

Nel suo testamento del 17 dicembre 1630, Portia Nicotera, moglie del quondam magister Filippo Schipano, lasciava ducati 5: metà alla cappella del SS.mo Sacramento e metà “alla Cappella della nativita di N. Signore Jesu Cristo altare privileggiato”, posta dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”.[cxxix]

 

La cappella di Sant’Antonio di Padova (“Santo Antonino”)

Il primo agosto 1634, Lucretia Corigliano, “sorore” dell’ordine di S. Francesco d’Assisi, vendeva al diacono Carlo Scuro di Crotone, la “Continentia di terre” della capacità di circa 5 salmate, posta nel territorio di Policastro loco “Andriuli seu lo Muscarello”. La detta Lucretia soleva pagare una ebdommada alla Cappella di “Santo Antonino”, posta dentro la SS.ma Annunziata “nova”, che era stata lasciata dai defunti Gio: Battista Collura e Maria Vallone.[cxxx]

Il 24 dicembre 1637, davanti al notaro comparivano, da una parte, il notaro Jacinto Richetta, procuratore ed esecutore testamentario dell’oratorio di “Santi Antoninii de Padua”, eretto dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, anche per parte della quondam “sororis” Lucretia de Corigliano, che possedeva i beni del quondam “D(omi)ni” Joannes Petro Corigliano. Dall’altra, comparivano i coniugi U.J.D. Mutio Giordano e Rosa Traijna, quest’ultima in qualità di erede del quondam Martino Traijna, mediante la persona di suo padre Sebastiano Traijna. Il detto procuratore asseriva che, negli anni passati, il detto quondam Joannes Petro aveva venduto a detto Martino Traijna, l’annuo censo di ducati 5 per un capitale di ducati 50. Al presente, il detto procuratore, come erede lasciato dalla detta Lucretia, procedeva ad affrancare tale censo nei confronti dei detti coniugi Traijna e Giordano, cui andavano ducati 55 per capitale ed interessi decorsi: ducati 27 per mano di Delia Furesta, ducati 25 per mano di Petro Paulo Serra e 3 ducati pagati dal detto procuratore.[cxxxi]

Il 18 febbraio 1644, Paulino Juliano della Roccabernarda, ma “incola” in Policastro, vendeva a Michaele Scandale la “vineam” posta nel “districtu” di Policastro loco detto “le Carita”, per la somma di ducati 17 da pagarsi alla prossima fiera di Molerà, da parte del  chierico Carulo Richetta, procuratore del “V(enera)b(i)lis Oratorii subtitulo Sancti Antonini Paduani”.[cxxxii]

 

L’ospedale

Il 13 novembre 1633, Sanzone Salerno ed il Cl.o Onofrio Salerno, padre e figlio, vendevano per ducati 22 al presbitero D. Joannes And.a Alemanno, in qualità di procuratore della SS.ma Annunziata “nova”, la casa palaziata con un casalino contiguo, che era appartenuta al quondam D. Scipione Curto, posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della SS.ma Annunziata “nova”, confine la casa degli eredi di Berardo Lomoijo, la casa di Francischina Cavarretta, e “lo casalino di detta chiesa”. Di tale somma, ducati 6 erano pagati per mano del presbitero D. Joannes Baptista Favari mentre, per i restanti ducati 16, s’impegnavano a pagare, nel giugno seguente, i detti de Salerno.

In questa occasione, il detto presbitero D. Joannes Baptista dichiarava che donava quanto aveva pagato “pro elemosina dittae Ecc.ae”, affinchè nella detta casa “Arbirgari possint onnes pelegrinos, et viandantes”. In relazione a ciò ed a maggiore cautela delle parti, il procuratore della chiesa aveva già provveduto ad impetrare l’assenso del vicario generale di Santa Severina, volendosi “dedicare” il bene “per ospitale di poveri de peregrini, e bisognosi forastieri”.[cxxxiii]

In seguito risulta documentata l’esistenza di un ospedale, nelle vicinanze della chiesa e delle rupi. Da un atto del 24 luglio 1654, rileviamo che la domus appartenuta all’olim Hyacintho Curto, era posta in convicino della chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, e confinava con la “domum hospitalis d.ttae E.ccae”, la domus di Andrea Lanzo via mediante, le “Ripas dittae Civ.tis” ed altri fini[cxxxiv] mentre, un atto del 5 settembre 1655 evidenzia che, tra i beni appartenenti alla dote di Cesare de Franco, vi era “la Casa ch’è sop.a la Chiesia della SS. Nunciata, confine le ripe di q.a Città, confine l’ospidale” ed altri fini.[cxxxv]

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Petilia Policastro (KR), chiesa del’Annunziata, altare maggiore.

 

La “nova” chiesa dell’Annunziata “nova”

Gli eventi sismici che interessarono la Calabria centro-settentrionale a cominciare dal 27 marzo del 1638,[cxxxvi] proseguendo fino alle scosse verificatesi nella notte tra i giorni 8 e 9 del mese di giugno dello stesso anno, produssero danni ingenti a Policastro. In questa occasione, secondo quanto affermava Lucio de Urso, l’abitato fu distrutto “dalle fondamenta”,[cxxxvii] risultando il centro più colpito tra quelli vicini, con 353 edifici rimasti abbattuti.[cxxxviii]

Come appariva da una relazione prodotta al tempo dall’avvocato fiscale della regia Udienza Provinciale, il sisma causò a Policastro danni per più di quarantamila ducati d’oro “per li quali danni, e rovine furno concesse à Cittadini cinque anni di franchezze”.[cxxxix]

A seguito di queste scosse la chiesa dell’Annunziata “nova” rovinò, ma fu presto ricostruita. Nel settembre 1639, D. Lupo Antonio Coschienti che, negli anni passati, aveva acquistato ad annuo censo, un casaleno lasciato alla chiesa della SS.ma Annunziata “nova” da Laura Zupo, chiedeva ed otteneva di potere affrancare il detto censo, per “opra di carità”, “perché la p(rede)tta chiesa è cascata”, pagando al procuratore D. Joannes And.a Alemanno, il capitale e le terze decorse, così che il denaro “si spenda in reparat.ne della fabrica di detta chiesa rovinata per li terrimoti”.[cxl]

In quegli anni, i lavori di ricostruzione stavano interessando anche i luoghi prossimi alla chiesa, dove questa possedeva “una quantità di Casalina”, che erano precedentemente appartenuti al quondam Berardo Caira. Il 24 maggio 1642, il R.do D. Joannes Dominico Fiorillo, procuratore della chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, considerato che “vicino detta Chiesia”, “della parte di sopra dette Casalina”, vi erano le case del magister Jo: Dominico Cavarretta e di Catherina Rizza, vedova del quondam Laurentio Caira, “nelle quali stanno in atto di fabricare intendendo fare le fuse pendenti dentro dentro dette Casalina, et finestre rustiche”, con grandissimo pregiudizio per la detta chiesa, intimava di rimuovere “le dette fuse, et finestre” da detto luogo.[cxli]

A seguito della ricostruzione della chiesa, alcuni atti del notaro Gio: Matteo Guidacciro del periodo 1645-1647, individuano le vicinanze del nuovo edificio sacro in qualità del “Convicinio novae Ecclesiae sub titulo Santissimae Annunciationis”[cxlii] mentre, in occasione dei sinodi successivi al sisma, il solito ed antico cattedratico di tre libre di cera, poi convertito nella somma di tre carlini, spettava ora al procuratore della “novae Ecc.ae Annunciat.nis”.[cxliii]

 

Il monte dei Morti

Il 30 gennaio 1640, D. Gio And.a Alemano, procuratore della “nova chiesa della Nunciata di Polic.o”, chiedeva alla corte arcivescovile di Santa Severina di ricevere il consenso per fondare un monte dei Morti nella detta chiesa, al quale si erano iscritti “moltiss.mi devoti”,[cxliv] ricevendo l’assenso da parte del vicario generale.

In questa occasione, fu allegato a tale richiesta, un atto prodotto il 12 gennaio di quell’anno, dai confrati della “confraternità della V(e)n(erabi)le Chiesa della SS.ma Nunciata nova di q(ue)sta Città di Polic.o”, nel quale si elencavano le condizioni che avrebbero dovuto regolare in futuro la vita del nuovo ente.

“Iesus maria. Noi sotto scritti Confrati della confraternità della V(e)n(erabi)le Chiesa della SS.ma Nunciata nova di q(ue)sta Città di Polic.o per la p(rese)nte si come fosse publico Inst.to ne obligamo e promettemo pagare alla d.a Venerabile chiesa e suo Proc.re una cinquina il mese per ciasc.o di noi sotto scritti confrati delli quali cinquine il d.o Proc.re l’habbia di dispensare in q(ue)sto modo videlicet.

Primo che ogni lunedì di ogni sett.a habbia di fare celebrare in d.a Venerabile chiesa una messa cantata Notturno ex spento per l’anime del santo Purgatorio.

2.o Che morendo qualche uno delli confrati sotto scritti il d.o Proc.re habbia da fare celebrare venti messe sop.a il Cadavero in d.a venerabile Chiesa ò in qualla della sepoltura et Una messa Cantata Notturno exspento e mancando qualche uno di noi di pagare per due mesi la d.a cinquina sia privo di d.o suffragio del che il d.o Proc.re habbi pensiero con farsi libro part.re tanto di Introito quanto di esito e perciò ne habbiamo fatto la p(rese)nte sottoscritta e Croce sig.ta di nostre p(ro)p.e mani in Polic.o li dudici de Gen.o 1640.

Item che il d.o Proc.re con il beneplacito del Rev.s ordinario possano eliggere una o due persone idonee per tale effetto cio’e possa d.o Proc.re intervenire nelle elett.e che faranno le sottoscritti o la magg.re parte di essi del Priore e Retore di d.o monte e la voce di d.o proc.re vaglia per tre Voci.”.[cxlv]

In seguito, risultano documentati i lasciti in favore del “Pii Montis Mortuorum Venerabilis Ecclesiae Sanctissimae Annunciationis novae”, di cui fu priore Joseph Ritia nel 1647.[cxlvi]

Il 9 settembre 1653, in occasione della stipula del proprio testamento, il presbitero Joannes Andrea Alemanno disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sua sepoltura. In questa occasione, dichiarava di essere debitore di ducati 50 nei confronti del monte dei Morti eretto nella detta chiesa. Per estinguere tale debito, lasciava l’annuo censo di ducati 6 e grana 25, per un capitale di ducati 62 e ½, che pagava Gio: Jacovo Cervino sopra la possessione di “Gorrufi”. Disponeva, inoltre, che l’Annunziata “nova” rimanesse “speciale herede” delle sue vacche, per esserne egli stato tanti anni procuratore. Questa, assieme ad Alfonso Campitello “suo Comp.e”, avrebbe dovuto vendere le vacche ed investire il denaro in un bene stabile sicuro, con la cui rendita poter così celebrare 2 messe la settimana, per l’anima sua e per quella dei suoi benefattori.[cxlvii]

 

La cappella di San Giacomo

Risaliva già al gennaio del 1640, un primo atto con cui D. Gio: Iacobo de Aquila aveva costituito la dote per edificare una nuova cappella nella chiesa dell’Annunziata “nova”. Tale volontà aveva però trovato opposizione da parte del procuratore della chiesa. Il 20 ottobre 1641, in occasione della visita compiuta a Policastro dall’arcivescovo Fausto Caffarelli (1624-1651), il detto D. Gio: Iacobo presentava una supplica all’arcivescovo, chiedendo di ottenere allo scopo, nella medesima chiesa, la cappella in costruzione, che si trovava nel corno sinistro dell’altare maggiore dove, in passato, era esistito l’altare di San Giovanni Battista, impegnadosi a dotarla con 600 ducati, ad ornarla e provvederla di tutto il necessario, intitolandola così al “glorioso Ap(osto)lo S. Iacopo Magg.re”.

Le condizioni poste dal richiedente, sono illustrate nella detta supplica.

“Ill.mo et R.mo Sig.re D. Gio: Iacopo Aquila per atti di Notar Gio: Leonardo de Pace il Gennaro / dell’anno 1640 fece obligat.ne di doti d’una Cappella che desiderava / edificare nella nuova Chiesa della SS.ma Ann.ta con alcuni pesi riser / ve et altrim.ti come stà espresso in detto instrum.to al q(ua)le si rifere. / E perchè non li fù poi concesso il luogo dà farci la Cappella sfondata / e men fù per il Proc.re della Chiesa consentito alle condit.ni dell’oblat.re / la quale però non hebbe effetto. Onde l’istesso D. Gio: Iacopo supp.ca / V. S. Ill.ma che con liberarlo espressam.te per abundanza di sua cau(te)la / dà detta p.a obligat.ne si degni concederle nella medesima Chiesa la / Cappella che è nel corno manco dell’Altare Mag.re dove fù già l’ / Alt.re di S. Gio: Batt(ist)a, e s’è incominciata à costruire, E si / propi.e à finire, e perfectionar.e la fabrica della Cappella pre(de)tta secon / do stà designata. / E provederla, et ornarla di tutte cose necess.rie alla E.a Messa, E dotarla di / seicento docati di sorte principale con che il titulo sia del glorioso / Ap(osto)lo S. Iacopo Magg.re. / Sia e resti Cappella di Patronato d’esso Oratore, e degli suoi heredi e success.ri / con l’autorità di presentare il Rettore, et in vita del supp.te sia esso / medesimo il Rettore Capp.no. / E con peso, et obligo, che si c’habbino di celebrare due messe basse ogni / settimana, cioè nella Dom.ca, ò in giorno altro di festa, ò feriale / se fra la settimana non ci fosse giorno festivo, e tre ogni mese in canto di requiem con il Notturno, et il Responsorio per l’anema / di tutti i defunti d’esso Orat.re, ò di Lunedi, ò di Venerdi ad / arbitrio del Capp.no mà che à detta messa in Canto Notturno, e / Responsorio habbino ad intervenire almeno dieci sacerdoti in / clusove il Celebrante. / E che l’Orat.re in sua vita, e poi li successori che saranno p(atro)ni pro tempore / habbino ancora à nominare, et eliggere li Sacerdoti, che dovranno / intervenire alla Messa cantata con il Notturno, e Responsorio. / A q(uel)li tutti Sacerdoti che dovranno intervenire alla Messa in Canto col / Notturno et Responsorio sia tenuto il Rettore delli renditi dotali / dodici docati l’anno dà distribuirsi tra di loro / E che li sia permesso entro l’istessa Cappella dui Sepolchri uno per se / e per d.i Sacerdoti del servitio come sop.a, et uno per sepoltura dei / suoi heredi, e successori. / E finalm.te con obbligo al Rettore, che delle rendite, e frutti della dote / assegnata come di sop.a debbia ogn’anno pagare, e consignare / otto d.ti alla medesima Chiesa dell’annunciata da spendersi / ad utilità, beneficio, e commodo d’essa Chiesa. / E l’oratore heredi consignando detti seicento ducati, ò veri beni / stabili fruttiferi di tanto valore siano liberi del peso et obligo / dell’istessa dote, e fra tanto che non consegneranno il / danaro, e non assegneranno li stabili siano tenu / ti corrispondere per cinquanta d.ti annui di censo delli q(ua)li siano / li trenta del Rettore, Dodici stipendio delle Messe designate in Canto /come sop.a et otto della Chiesa.”

Il 19 novembre 1641, considerata l’istanza prodotta dal richiedente, l’arcivescovo concedeva di potersi erigere la cappella, con gli oneri ed i diritti espressi nella supplica, rimanendo obbligato il rettore, a comparire nel giorno del sinodo diocesano con l’offerta di tre libre di cera. Considerato però che ancora non era seguito il pagamento reale della dote offerta, si subordinava il consenso esplicito della curia arcivescovile, alla effettiva assegnazione dei beni.[cxlviii]

15 maggio 1642, presso il notaro Gio: Matteo Guidacciro di Policastro, veniva stipulato l’atto, che dava finalmente concretezza alle pie volontà del R. D. Jacobo Aquila. In questa occasione, quest’ultimo asseriva che, nei mesi appena trascorsi, “à tempo della visita” effettuata in Policastro dall’arcivescovo di Santa Severina, era venuto all’accordo con il R. D. Joannes Dominico Fiorillo, procuratore della chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, per erigere dentro detta chiesa, una “Cappella” intitolata a “Santo Giacomo” “et pp.o nel luoco intitulato p.a il nome di Giesù”. In relazione a ciò, aumentando sensibilmente quella che era stata la sua precedente offerta, s’impegnava a corrispondere “per detto loco et fabrica fatta per detta Chiesa”, ai procuratori che si sarebbero succeduti nel tempo, il censo annuo di ducati 8 per un capitale di ducati 80, cominciando a pagare a partire dal primo di dicembre prossimo venturo. Volendo dare subito effetto a questa sua volontà, il detto reverendo assegnava alla detta chiesa, i detti annui ducati 8 sopra tutte le sue robbe, ovvero: il “territorio di scardiati”, posto nel territorio di Policastro. Contestualmente, il detto capitale di ducati 80 era trasferito in potere della detta chiesa.[cxlix]

Successivamente, in relazione alla fondazione della nuova cappella di San Jacobo Apostolo nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, il R. Joannes Jacobo Aquila, in qualità di rettore nonché fondatore della detta cappella, risulta chiamato a comparire in sinodo con l’offerta di tre libre di cera, a cominciare dal 1645.[cl]

Nel proprio testamento stipulato il 23 aprile 1646, Lucretia Aquila, moglie del “Doct.ris Phisici” Salvatore de Rosis, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delli Aquili”, lasciando che fossero celebrate 200 messe nella “Cappella intitolata S. Giacomo”, posta nella stessa chiesa ed eretta dal R. D. Gio: Jacovo Aquila suo zio. Messe che avrebbero dovuto celebrare nei due anni dopo la sua morte, i reverendi scelti da suo marito e da suo zio.[cli]

policastro annunziata

Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata, altare maggiore.

 

La chiesa e l’ospedale di San Giacomo

Ottenuta l’erezione della cappella, il reverendo inoltrò all’arcivescovo una nuova richiesta d’assenso, questa volta per poter edificare vicino alla sua casa, “uno Hospitale consistente in più membri con una Chiesa conticua in detto Hospitale sotto il Titulo di S. Giacomo magg.re Apostolo”, dichiarando, comunque, di non aver in animo di trarre alcun vantaggio dall’immunità ecclesistica che avrebbe goduto in futuro il nuovo luogo sacro.

“Ill.mo et R.mo Sig.re D. Gio: Giacomo Aquila della Città di Polic[astro] / intende con la gr(ati)a di Dio dalle cui mani dipende ogni bene, e con / il favore e buona gr(ati)a di V. S. Ill.ma edificare uno Hospitale consis / tente in più membri con una Chiesa conticua in detto Hos / pitale sotto il Titulo di S. Giacomo magg.re Apostolo per / beneficio di poveri ammalati Cittadini, e Pellegrini foras / tieri, che continuam.te concorrono in d.a Città. Perciò la supp.ca / concederli il suo assenzo per poter metter in effetto questa / santa opera più che l’haverà a gr(ati)a ut Deus. E perche / intende appoggiare la fabrica di detto Hospitale alla / Casa propria d’esso Orat.re ma senz’animo di communicare / il proprio muro all’Hospitale p(rede)tto supp.ca per la concess.ne / et assenzo come sopra con questa riserba che l’espresso / muro, non commune, ma sia, e resti com’è tutto suo e / della sua Casa.”.

Il 14 ottobre 1647, l’arcivescovo concedeva la facoltà di costruire la “Ecclesiam, et Hospitale, de quibus in suo p(raese)nti supplici libello”, con la riserva che la sua parete non dovesse essere comunicante con la casa del richiedente.[clii]

 

I piani del reverendo

Approssimandosi il tempo della sua morte, Gio: Jacobo de Aquila decise di predisporre le proprie cose, cercando da garantirle ai suoi prescelti.

In un nuovo testamento stipulato il 4 giugno 1653, egli cambiò una sua disposizione, contenuta in suo precedente testamento fatto dal notaro Gio: Matteo Guidacciaro, secondo cui, “nella sua Chiesia” eretta sotto il titolo di “S. Jacomo”, posta dentro la terra di Policastro, e “pp.o nel loco dove si dice il Castello”, confine “lo suo Palazzo”, avrebbero dovuto servire solo “Preiti forastieri”, e come “Preiti” di Policastro solamente il R. D. Santo de Pace, disponendo, invece, che vi potessero servire anche i reverendi del clero di Policastro, tra cui il D.re Fran.co Rizzuto della terra di Mesoraca. Disponeva inoltre che, maritandosi qualche figlia di Michele Aquila suo fratello, dovesse avere per dote la metà dell’entrata di un anno della sua eredità. Disponeva ancora, che se qualcuno dei figli maschi di detto Michele, fosse voluto andare in Napoli per studiare, avrebbe ottenuto la metà delle sue entrate di un anno.[cliii]

Attraverso un atto del 2 agosto di quell’anno, invece, fece cessione di tutti i suoi beni alla nuova chiesa di San Giacomo che aveva eretto presso la sua casa. Beni costituiti da alcune terre e soprattutto, dai numerosi censi che gli corrispondevano diversi particolari, in relazione alla sua lunga attività, durante la quale si era dedicato soprattutto al prestito di denaro.

Quel giorno, davanti al notaro comparivano il R. D. Gio: Jacobo Aquila da una parte e, dall’altra, i reverendi D. Gio: Antonio Leuci, D. Santo de Pace e D. Gio: Battista Pollaci, in nome della “nova Chiesia” eretta dal detto D. Gio: Jacobo sotto il titolo di “S. Jacovo”. Quest’ultimo asseriva di aver edificato una “nova Chiesia” sotto il titolo di “S. Giacomo Maggiore”, che era posta dentro la terra di Policastro nel loco dove si dice “il Castello”, “contiqua” alle sue case e confinante con “lo largo di d.tto Castello” ed altri fini, mediante licenza ottenuta dalla corte arcivescovile di Santa Severina. Sempre secondo le sue affermazioni, nella “d.a Chiesia”, si trovava la cappella di “S. Giacomo maggiore Apostolo”, come dimostrava un atto della corte arcivescovile del 26 luglio 1653.

All’attualità, il detto D. Gio: Jacobo cedeva alla detta chiesa e, per essa, ai reverendi sacerdoti presenti, i seguenti beni: la gabella di circa 6 salmate arborata di “Cerse” ed altri alberi fruttiferi, posta dentro il territorio di Policastro loco detto “Scavino”; le terre dette di “S.to Elia dove si dice la manca de Vaijna”, di capacità di 12 tomolate, arborate di “Celsi, Cerse” ed altri alberi fruttiferi, poste dentro il territorio di Policastro; un pezzo di terra di capacità di circa 4 tomolate nominato “S.to Elia”, che il detto D. Gio: Jacobo aveva comprato da Jacinto Mesiano e moglie, “arborato di Cerse, olive, fico e sorba” ed altri alberi fruttiferi; un altro pezzo di terra della capacità di tomolate 7 circa, arborato di “Celsi, fico” ed altri alberi fruttiferi, posto nel medesimo loco di “S.to Elia” che il detto D. Gio: Jacobo aveva comprato dal procuratore della chiesa della SS.ma Annunziata “de fora”; un altro pezzo di terra della capacità di tomolate 5 circa, arborato di “Celsi, cerse” ed altri alberi fruttiferi, posto nel medesimo loco di “S.to Elia” che il detto D. Gio: Jacobo aveva comprato dal Mauritio Morano.

Di più il detto D. Jacobo rinunciava in favore della detta chiesa e, per essa, in favore dei detti “RR. Cappellani”, i seguenti censi: Elisabetta ed Isabella Rizza insolidum, dovevano annui ducati 5 e carlini 3 per un capitale di ducati 53; Marco Mazzuca doveva annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; Oratio Rocciolillo doveva annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; Fran.co Rocciolillo doveva annui carlini 10 per un capitale di ducati 10; gli eredi di Gio: Gregorio Cerasaro dovevano annui ducati 6 per un capitale di ducati 60; i coniugi Lupo de Frolio e Laura Faraco dovevano annui carlini 17 per un capitale di ducati 17; D. Oratio Strada doveva annui ducati 6 per un capitale di ducati 60; Minico Tavernise e Antonino Mazzuca in solidum, dovevano annui carlini 30 per un capitale di ducati 30; Gianni Jerardo e moglie dovevano annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; gli eredi di Andrea Accetta dovevano annui carlini 25 per un capitale di ducati 25; Scipione Spinello e Jacinto Misiano, in solidum, dovevano annui ducati 3 per un capitale di ducati 30; Scipione Spinello doveva annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; Fran.co Campana doveva annui carlini 15 per un capitale di ducati 15; Andrea Campana e And.a Rizza, in solidum, dovevano annui carlini 12 per un capitale di ducati 12; Marta Converiati e Cornelia Rotella, in solidum, dovevano annui carlini 25 per un capitale di ducati 25; gli eredi del quondam Gerolimo Tuscano e Cornelia Scoraci, in solidum, dovevano annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; Masi e Fran.co Misiano, in solidum, dovevano annui carlini 22 per un capitale di ducati 22; Cassandra Fanele v.a di Marcello Cervino doveva annui carlini 20 per un capitale di ducati 20; Paulo Vallone doveva carlini 19 per un capitale di ducati 19; Reale Ammanito doveva annui carlini 10 per un capitale di ducati 10.

In questa occasione, il detto D. Gio: Jacobo oltre a sé stesso, eleggeva “Cappellani” della detta chiesa, i reverendi: D. Gio: Antonio Leuci, D. Santo de Pace, D. Gio: Battista Pollaci, Diacono Fran.co Rizzuto di Mesuraca e D. Salvatore de Maijda.

Disponeva che la messa cantata che si celebrava nell’oratorio del detto D. Gio: Jacobo, eretto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, sotto il titolo di “S. Giacomo”, si trasportasse dalla chiesa della SS.ma Annunziata, in quella eretta dal detto D. Gio: Jacobo “nel Castello”. Disponeva ancora, che i cappellani avrebbero potuto abitare nelle “Camere” fatte e da farsi “contique alla detta chiesa senza tenerci persone laiche, inquisite o parenti poveri”.[cliv]

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Sottoscrizione autografa di Gio: Jacobo de Aquila.

 

L’eredità

Gio: Jacobo de Aquila morì sul finire del 1654[clv] e relativamente all’anno successivo, risulta documentato che la mensa arcivescovile percepì lo “Ius sepulturae”, “per le due rotture di sep.re nella Chiesia di S. Giacomo magg.e fundata da D. Gio: Giacono Aquila”.[clvi]

Morto il reverendo, restò suo erede il R. D. Santo de Pace. Il 27 agosto 1655, essendo vacante la cappella, o semplice beneficio ecclesiastico, sotto l’invocazione di San Giacomo Apostolo, per la morte del suo fondatore ed ultimo rettore, l’arcivescovo Gio: Antonio Paravicino (1654-1659) provvedeva a fargli subentrare il R. D. Santo de Pace, come espressamente indicato nelle ultime volontà del defunto.[clvii]

In precedenza, con la mediazione della corte arcivescovile, erano state appianate alcune differenze tra i suoi discendenti. In particolare, quelle relative alla gestione del monte dei maritaggi, lasciato dal quondam Gio: Jacobo, in beneficio delle fanciulle della sua famiglia.

Il 21 giugno 1655, davanti al notaro comparivano, da una parte, il R. presbitero Sancto de Pace, procuratore della chiesa sotto il titolo di “S.ti Jacobi Apostoli” ed erede universale dell’olim presbitero Jacobo de Aquila, dall’altra compariva Michaele Aquila, procuratore del “Pii montis nubendarum Puellarum de consanguinitate olim su(pradic)ti Presbyteri Jacobi de Aquila”, tanto in suo nome, quanto il qualità di tutore dei discendenti del defunto: D. Mariae Aquila, figlia del capitano Gio: Dom.co Aquila, il Cl.co Antonio Rocca, Vittoria Aquila, Maria ed Antonia Fanele, figlie della già Catarinella Rocca, Catharinella Aquila ed Elisabeth Rocca.

In questa occasione, le parti giunsero ad un accordo che trovò il consenso dell’arcivesco Joannes Antonio Paravicino, in merito alla lite mossa nella curia arcivescovile di Santa Severina, relativa ai frutti della detta eredità spettanti alle fanciulle di famiglia da maritare.[clviii]

Il 21 settembre 1655 Santo de Pace veniva immesso nel reale possesso del beneficio precedentemente appartenuto a Gio: Jacobo de Aquila.

Quel giorno, alla presenza del R. presbitero Parisio Ganguzza, vicario foraneo di Policastro nonché delegato, del giudice e dei testimoni sottoscritti, il R. presbitero Sancto de Pace, avendo precedentemente ottenuto dall’Ill.mo e R.mo arcivescovo di Santa Severina Joannes Antonio Paravicino, la “bullam Cappellani nuncupati S.to Jacobi Apostoli”, prendeva possesso della “Cappella, seu Ecclesiastico Simplici beneficio sub invocat.ne S.ti Jacobi Apostoli”, di jure patronato dell’olim R. presbitero Joannes Jacobo de Aquila e della sua famiglia, per la morte dello stesso Joannes Jacobo ultimo rettore.[clix]

Entrato in possesso dell’eredità, Santo de Pace, assieme a Michaele Aquila, in qualità di procuratori della chiesa sotto il titolo di “S.ti Jacobi” e del pio monte dei maritaggi degli eredi dell’olim presbitero Jacobo de Aquila, avviarono la loro attività e, tra la fine di agosto ed il dicembre 1655, prestarono denaro all’interesse del 10 % per una somma complessiva di 959 ducati, quando la grave crisi economica di questo periodo, precludeva ormai totalmente la possibilità di ottenere un rendimento a tali condizioni, ed i capitali rimanevano in deposito perché “nelli Tempi correnti non si troverà giamai al diece per Cento”.[clx] Lo stesso Michaele otteneva così un capitale di ducati 100.

28.08.1655. Il chierico coniugato Joannes Baptista Zurlo, otteneva un capitale di ducati 50, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di ducati 5, che veniva infisso sopra la sua gabella posta nel territorio di Policastro, loco detto “l’acqua dello Giardino”.[clxi]

31.08.1655. Joannes Jacobo de Natale, otteneva un capitale di ducati 50, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di ducati 5, che veniva infisso sopra la sua possessione arborata con sicomori, fichi ed altri alberi fruttiferi, posta nel territorio di Policastro loco detto “Cimicicchio”, con l’onere di pagare annui ducati 25 all’U.J.D. Lutio Venturo, carlini 15 al monastero di Santa Maria “della Spina”, ed annui ducati 5 e carlini 6 al R. clero di Policastro.[clxii]

31.08.1655. Fausto Vecchio otteneva un capitale di ducati 15, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di carlini 15 che veniva infisso sopra un suo vignale posto nel territorio di Policastro loco detto “la fiumara” e sopra un suo vignale arborato con sicomori, posto nel territorio di Policastro loco detto “Paternise”.[clxiii]

20.09.1655. Il presbitero Antonio, Fran.co e Petro Tassitano, assieme alla vedova Camilla Grandello, insolidum, ottenevano un capitale di ducati 34, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di carlini 34, che veniva infisso sopra i seguenti loro beni: la possessione arborata con olive, sicomori, fichi ed altri alberi fruttiferi “cum Palatio intus dittam possess.nem”, posta “intus praedittam Terram Misuracae, seu in suo territ.o” loco detto “franco”, la possessione arborata con olive, sicomori, fichi ed altri alberi fruttiferi “cum Palatio intus dittam possessionem”, posta nel territorio di Mesuraca loco detto “Ciceraro”.[clxiv]

08.10.1655. Il presbitero Ferdinando ed Alfonso Campitello, padre e figlio, ottenevano un capitale di ducati 660, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di ducati 66, infisso sopra i seguenti loro beni: la gabella di circa 15 salmate di capacità, posta nel territorio di Policastro loco detto “Marrari”, la gabella di circa 8 salmate di capacità, posta nel territorio di Policastro loco detto “la Caracciola”.[clxv]

25.11.1655. Joannes Thoma de Cola otteneva un capitale di ducati 50, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di ducati 5, che veniva infisso sopra i seguenti suoi beni: la gabella arborata di “quercuum” di circa 12 tomolate di capacità, posta nel territorio di Policastro loco detto “Scardiati”, la gabella di circa 5 tomolate di capacità, posta nel territorio di Policastro loco detto “lo Salito”.[clxvi]

17.12.1655. Michaele Aquila otteneva un capitale di ducati 100 dal presbitero Santo de Pace, procuratore della chiesa sotto il titolo di “S.ti Jacobi”, ed erede del quondam presbitero Jacobo de Aquila, agente in nome e per parte della detta chiesa e del monte dei maritaggi lasciato dal detto quondam Jacobo, impegnandosi a corrispondere l’annuo censo di ducati 10, che veniva infisso sopra la sua continenza di terre della capacità di circa 2 salmate, posta nel territorio di Policastro loco detto “boturo”.[clxvii]

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata, fonte battesimale.

 

Gli affari al tempo della crisi

D. Santo de Pace e Michele Aquila, assieme a Fran.co La Rosa, ricoprirono la carica di procuratori dal 1654 al 1660,[clxviii] periodo in cui, a cominciare dal 1658, oltre al rettore o procuratore della cappella sotto il titolo di San Jacobo posta nella chiesa dell’Annunziata “nova”, tenuto ad offrire il cattedratico di tre libre di cera, comincia ad essere chiamato in sinodo ed a comparire con venti carlini, anche il rettore o procuratore della “Novae Ecc.ae S.ti Jacobi Ap(osto)li”. Tali chiamate in occasione dei sinodi diocesani, risultano documentate anche in seguito, fino alla metà del secolo successivo.[clxix]

Al tempo della visita compiuta a Policastro dal nuovo arcivescovo Francesco Falabella (1660-1670), iniziata il 3 ottobre 1660, i procuratori del beneficio di San Giacomo era stati ormai già rimossi, per aver rapidamente dilapidato il cospicuo patrimonio degli enti ecclesiastici che avevano molto malamente amministrato. Una situazione che risultò subito evidente agli occhi del Falabella.

Il 5 di ottobre, infatti, dopo aver visitato la chiesa parrocchiale di Santa Maria la Magna, l’arcivescovo proseguì la sua visita, presso la chiesa sotto l’invocazione di “S. Jacobi”, posta “à parte superiori dicti oppidi”, fondata, edificata e dedicata, dal quondam Jacobo Aquila. L’edificio fu rinvenuto rovinato dal fumo e con l’altare “denudatum”, mentre si asseriva che la chiesa fosse stata interdetta dall’arcivescovo predecessore Joannes Antonio Paravicino.

Per lungo tempo vi avevano abitato alcuni delinquenti rifugiati, che l’avevano profanata trasformandola in “cochinam” ed abitazione comune. Ciò udito ed ispezionato il luogo, l’arcivescovo decretò che, tanto quelli che avevano trovato rifugio nella chiesa profanata ed interdetta, che quelli presenti nella “domus contiguas” alla detta chiesa, non avessero più potuto godere dell’immunità ecclesiastica.

Considerato poi, che il predetto fondatore e dotatore della detta chiesa, aveva legato il suo ampio patrimonio, ascendente a circa sessanta ducati con l’“onere celebrandi Missas”, così da poter pagare i divini offici, nonché per dotare le giovani spose, l’arcivescovo ingiunse ai procuratori testamentari: il R. D. Sancto de Pace e Michaele de Aquila, sotto pena della scomunica “latae sententiae”, di esibire i documenti relativi agli adempimenti relativi al detto legato, nonché di esibire “in autentica for.a”, la copia del detto legato relativo alla donazione fatta da D. Jacobo de Aquila.[clxx]

Il rettore della “Cappellae S. Jacobi in Ecc.a SS.mae Annunciat.nis” ed il procuratore della “Novae Ecc.ae S. Jacobi Ap(osto)li”, risultano tra coloro che il 10 giugno 1662, in forza del decreto del 21 maggio trascorso, furono condannati al pagamento della terza parte dei frutti dei loro benefici, non essendo comparsi in sinodo mentre, il 19 giugno dello stesso anno, considerato che “in Cappella S. Jacobi erecta in Ecc.a SS.mae Annunciat.nis” non vi era il rettore, né vi era procuratore “in Ecc.a nova S. Jacobi Apostoli”, l’arcivescovo ordinava a Marco Romeo, serviente ordinario della chiesa, di inibire Gregorio de Pace affinchè rendesse i pezzi di terra appartenenti alla stessa “Cappellae et Eccl.ae”, pagando il cattedratico dovuto, rispettivamente, di tre libre di cera e di venti carlini.[clxxi]

Il 26 giugno 1662, essendo vacante fin dall’agosto dell’anno precedente, il “simplex beneficium, seu Cappella sub Invocat.ne S. Jacobi Apos. de Jure Patronatus olim R. Presbijteri Jo(ann)is Jacobi de Aquila”, esistente “intra Ecclesiam SS.mae Annuciat.nis Policastri n(ost)rae Dioec. positum, et fundatum iuxta Altare maiores in parte dextera”, per la morte del presbitero Santo de Pace, ultimo rettore, l’arcivescovo Francesco Falabella lo concedeva al clerico Philippo Dulmeta.[clxxii]

Una procura del 5 ottobre 1662, scritta in Santa Severina dal notaro apostolico Filippo Dulmeta, descrive i provvedimenti successivi assunti dall’arcivescovo.

“Havendo noi ritrovato nella p.ma Visita da noi fatta in Policastro del mese / d’8bre 1660, che l’heredità lasciata dal q.m D. Gio: Giacomo Aquila / alla Chiesa di S. Giacomo Apostolo per adempire alcuni Legati pii era / stata malam.te amministrata, e dilapidata da D. Santo de Pace, e Michele / Aquila Esequt.ri Testamentarii, che per tal causa erano stati remossi da / d.a aministrat.ne da n(ost)ri Predecess.ri, per li Legati pii, celebrat.ni di messe / et altre non adempite; Deliberassimo che s’eligesse uno Deposit.rio / per esigere l’Entrande di d.a heredità havendolo p.ma incaricato al Cl.co Con. Gio: Batt(ist)a Cerasaro, e poi al R. D. Oratio Cacuri il q.le al p(rese)nte si scusa / non potervi più attendere, e perche è necess.o d’eligere uno Procurat.re / ch’assista all’affitto delli stabili, et esigenze di d.e Entrade confidati / nella bontà et attitud.ne del R. D. Leonardo Rizza di Policastro con la / n(ost)ra auth(orit)a ord.ia, et Delegata, come Esequt.re di Legati pii l’elegiamo e / constituimo, e Deputiamo per Proc.re di d.a heredità dandogli ampia / potestà di poter affittare li beni stabili d’in anno in anno et anco ad / triennium, e farne instrum.ti, et Cautele Et esigere tutte le Rendite, Censi / e Debiti di d.a heredità e di poter astringere li Debit.ri renitenti / à pagare quel che devono in qualsivoglia foro, e Tribunale con la / potestà ampla ad lites, e di poter anco astringere tutti quelli che non / mostreranno ricevute legitime fatte da persone, che havessero / la facoltà d’esigere dattagli da noi, d’haver pagato dal mese / d’8bre 1660 in quà, con obligo di dar conto ogn’anno di / quel che haverà esato, con potestà di poter quietare, liberare / e far le ricevute à quelli che pagheranno, assignandoli per sua / provisione cinque docati per ogni centenaro, e vaglia la p(rese)nte Procura / per Epistolam, come se fusse Instrum.to publico, non solo in q.to macia / ogn’altro meglior modo, et in fede”.[clxxiii]

Il 5 giugno 1667, per atto del notaro Francesco Cerantonio, il presbitero Leonardo Riccio, procuratore della venerabile cappella di San Giacomo, concedeva a Gio: Battista Grosso un capitale di ducati 70 al 10%.[clxxiv]

 

L’Annunziata “nova” e l’Annunziata “veteram” alla metà del Seicento

Il 6 ottobre 1660, proseguendo la propria visita, l’arcivescovo Francesco Falabella entrò nella “Ecc.m SS.mae Annunciat.nis positam a latere dextro à parte superiori dicti Oppidi sub regimine Confratruum”, recandosi a visitare l’altare maggiore che rinvenne coperto da un “pallio serico coloris albi”. Qui trovò anche tre tovaglie, quattro candelabri “et Cruce aeneis, et Aliis duobus statuis parvulis Angelorum ceroferaria gestantium et aliis ornam.tis necessariis”.

Sopra detto altare si trovavano la “statua marmorea B.M.V.”, oltre alle “Imagines” dei santi “Joannis Bapt(ist)ae Praecursoris” e “Joannis Evangelistae”. Nella parte superiore dell’altare, si trovava anche la “Imago” della “B.M.V. et Beatorum Franc.i et Antonii” mentre, alla sua sinistra, vi era la “Imago S. M. Pietatis S. Fran.ci in quibus cernuntur depictae imagines eorum, qui dictas Iconas fieri curaverunt”. Poiché ciò era proibito dalla “S. Congregat.e Rituum”, l’arcivescovo dette  mandato “per Pictorem aliquem cassari et deleri, ita ut amplius non cernentur infra Mensem, alias amoveantur à d.o loco, et in Sacristia ponantur”.

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata. Tela raffigurante la Vergine in cui compare l’immagine del commitente.

L’onere delle messe, era costituito da 120 messe all’anno per l’anima del q.m D. Joanne Dom.co Fiorillo, una ebdommada per l’anima del q.m Fabio Rotundo, una ebdommada per l’anima del q.m Salvatore de Cola, venti messe all’anno per l’anima del q.m Dom.co Zagaria, trenta messe all’anno per l’anima del q.m Antonio Curcio, due ebdommade per l’anima della q.m “Sororis” Lucrecia Corigliano ed una ebdommada per le anime del q.m Joanne Laurentio Coroliani e del q.m Joanne Baptista Collura.

L’arcivescovo, minacciando la “Suspensionis a divinis”, ordinò a D. Joanne Andrea Alemanno affinchè, entro sei giorni, compilasse una “tabellam veram, realem et distinctam” di tutte le messe che si dovevano celebrare nella chiesa, tanto nell’altare della SS.ma Annunziata che “in Aliis duobus Altaribus”, affichè dopo essere stata vagliata dallo stesso arcivescovo, fosse appesa in sacristia. La tabella fu effettivamente esibita due giorni dopo.

Quindi, l’arcivescovo passò alla visita dell’“Alt. SS.mi Rosarii positum à latere dextro Altaris Maioris in quadam Cap.a sub Fornice dealbata” che rinvenne ornato e munito di tutto il necessario. L’arcivescovo dispose che entro un mese, fosse sistemato nell’altare un “lapis sacratus”.

La “Cappella” si trovava “sub rigimine Confratruum” che nella prima domenica di ogni mese, “post Vesperas”, preceduti dal clero e dalla croce, facevano una processione “circa Ambitum Ecc.ae”.

L’altare aveva l’onere di celebrare la messa solenne cantata “ex devot.e” nel giorno della festa del SS.mo Rosario e nei singoli giorni festivi di ogni mese, nonché nelle quattro “Festivitatibus solemnibus B.M.”.

Successivamente, l’arcivescovo passò alla visita della “Capellam S. Jacobi positam à latere sinistro d.ae Ecc.ae sub Fornice dealbata de asserto Iure Patronatus de familia de Aquila”. L’arcivescovo ordinò che entro tre giorni, gli fossero presentati dal R.s D. Sanctus de Pace i documenti “de Fundat.e” e le “bullas suae Institut.ni”, cosa che avvenne “in Visitat.e personali”.

L’altare fu trovato ornato e munito di tutto il necessario, ma mancante di una “nova Carta Secretorum”, per cui fu dato mandato al rettore di provvedere entro quindici giorni. Entro il termine di due mesi, fu disposto invece di provvedere a fare indorare la “pars Columnae ex lapide posita à parte dextra dicti Altaris”, sotto pena del pagamento di dieci libre di “cerae albae”.

Il predetto D. Sancto de Pace aveva l’onere di celebrare tre ebdommade nel detto altare per l’anima del fondatore. Considerato però che secondo quanto asseriva il rettore, a causa di un “morbo Nervorum”, la celebrazione delle messe non aveva ancora avuto luogo, l’arcivescovo ordinò che entro tre giorni, fosse soddisfatto tale onere, sotto pena del pagamento di 25 libre di cera bianca “elaboratae”.

Considerato inoltre, che vi erano certamente altri oneri di messe oltre questi, l’arcivescovo ordinò ai RR.s Communeriis D. Joanne Baptista Pollaci e D. Julio Rizza i quali, “per turnum”, erano solitamente deputati a distribuire l’onere delle messe che, entro tre giorni, consegnassero nelle mani dell’arcivescovo una nota di tutte le messe con ogni singolo onere, tanto relativo alla cappella che alle altre chiese. La nota fu prodotta due giorni dopo.

La chiesa era dotata di una “Sacristiam positam à parte posteriori Altaris Maioris”, nella quale erano conservati i “Vasa Sacra” con vari ornamenti sacerdotali. L’arcivescovo vi rinvenne quattro calici, di cui uno dorato e quattro messali, due nuovi e due vetusti. Egli ordinò, entro due mesi, l’acquisto di un nuovo calice “cum Patena” e dispose la compilazione di un inventario relativo ai beni mobili della chiesa da produrre entro il termine di quattro giorni.

Da tale inventario apprendiamo che la chiesa possedeva una “Planeta cum Cappa et Dalmaticis”, un “Palleum albi coloris” di tela argentea, un’altra “Planeta” di seta “auro contexta”, due altre pianete di damasco di colore bianco, un’altra “Planeta” di raso rosso con “Cappa” e “dalmaticis” dello stesso colore, un’altra “Planeta” di colore ceruleo e di tela argentea, un’altra “Planeta” di damasco di colore verde, un’altra “Planeta” di damasco di colore violaceo, un’altra “Planeta” di velluto di colore nero ed altre sette bianche, un “Pallium Altaris” di damasco verde, un altro pallio rosso “vulgo d’imbroccato”, un pallio di seta violaceo, un “Vexillum” di damasco rosso “auro linitum cum imagine in medio SS.mae Annunciat.nis” ed un “Turribulum et Navicula” d’argento di sedici palmi detti volgarmente “d’Arprolino”.

I redditi della chiesa erano costituiti dal possesso di un “Molendinum in loco qui dicitur il Molinello”, confinante con i beni di Joanne Foresta e Joanne Dom.co Rizza, dal quale si percepivano, considerate le spese, “modia” venti di frumento e dalle elemosine che solevano fruttare ducati quindici all’anno che si spendevano per il necessario della chiesa.

L’arcivescovo ordinò che il procuratore della chiesa consegnasse nelle sue mani entro otto giorni i conti dell’ultimo decennio. L’ordine fu eseguito.

L’arcivescovo ordinò inoltre, di rinnovare il pavimento della chiesa con “Calce, et cimentis” entro sei mesi. Come suo ultimo atto, egli visitò la “Turrim Sacram” nella quale si trovavano quattro campane.

Il sette di ottobre, dopo aver visitato le chiese di Santa Maria delle Grazie e di Santa Maria li Francesi, l’arcivescovo Falabella giunse a visitare la “Ecc.am S.tae Annunciationis veteram positam extra moenia dicti Oppidi à parte inferiori”, dove si inginocchiò e pregò.

Quindi visitò l’altare “positum à parte occidentali” ornato con un pallio di seta bianco. Questo era corredato con tre tovaglie, “Lapide Sacrato”, “Carta Secretorum”, “Tabella In principiis”, quattro candelabri dorati vetusti, due altri “argentocelatis” vetusti ed un crocefisso.

Nella parete sopra l’altare vi era la “statua ex stucco SS.mae Annunciat.nis cum icona lapidea, et duobus columnis depictis variis coloribus” mentre, alla destra dell’altare, vi era la “statua lignea S. Fran.ci de Paola” e alla sinistra, la “statua ex stucco S. Leonardi”.

L’arcivescovo ordinò di realizzare ed apporre sopra l’altare un “Baldachinum ex tela depictum” entro il termine di due mesi, sotto pena del pagamento di dieci libre di cera bianca lavorata.

Egli, inoltre, ordinò di accomodare i “Grados circa Altare” entro lo stesso termine.

La chiesa aveva l’onere di celebrare sessanta messe per l’anima di Petri Elia, una ebdommada per l’anima del q.m D. Dom.ci Palaczo “et sororis”, una ebdommada per l’anima dei benefattori, una messa per l’anima della q.m Ippolita de Luca e dieci messe all’anno per l’anima del q.m Scipione Romano.

I redditi della chiesa ascendevano alla somma di venti ducati all’incirca che provenivano dalle elemosine. La chiesa possedeva cinque vacche.

Nella sacristia furono rinvenute cinque pianete di seta di diversi colori: due bianche di cui una vetusta e lacera, un’altra nera, due altre di colore violaceo. Si trovarono anche due pianete bianche, un calice con patena con i suoi ornamenti e due messali.

Alla fine della sua visita, l’arcivescovo ordinò di sistemare il pavimento della chiesa “effossum” e di accomodare il “Vas Acquae lustralis” “in Pariete inferiori à parte dextra Portae Maioris”. Fu annotato che il tetto della chiesa era coperto da tegole ed era dotato di un soffitto a cassettoni (“laqueare”) di legno mentre, nel campanile, si trovava una “Campanula”.[clxxv]

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Petilia Policastro (KR), piazza G. Marconi. Edicola votiva con dipinto raffigurante la Vergine del SS.mo Rosario.

 

La riduzione degli oneri

La chiesa della “SS.mae Annunciationis”, costruita con magnifico e molto ampio edificio, con annessa una confraternita laicale, risulta menzionata nella relazione del 1675 prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Muzio Suriano (1674-1679).[clxxvi]

Al suo interno, tra le diverse cappelle, si trovava quella di San Giacomo dove, qualche tempo dopo, fu trasferito l’altro beneficio eretto nella chiesa di San Giacomo.

Dopo la morte di Filippo Dulmeta, nel dicembre del 1673 la chiesa senza cura di “S. Iacobi” fu provvista al clerico Dominico Alessandro[clxxvii] mentre, successivamente, nel marzo del 1679, il semplice beneficio o cappellania di “S. Iacobi”, esistente nella chiesa dell’Annunziata, vacante per la morte di Filippo Dulmeta, fu provvisto al presbitero Vincentio de Alexandro.[clxxviii]

Successivamente, entrò in possesso di questo beneficio il R. D. Dominico Rocca di Policastro. Il 12 giugno 1706, essendo vacante la “Cappellania, seu simplici Ecclesiastico Beneficio ad Altare sub invocatione S. Jacobi Majoris de familia de Aquila”, esistente dentro la chiesa dell’Annunziata “nova”, per la morte del quondam R. D. Vincentio de Alexandro, sacerdote della terra di Moliterno, diocesi Marsicana, ultimo rettore, ossia suo cappellano e possessore, nella corte arcivescovile di Santa Severina, comparivano il R. abbate D. Dominico Coco e D. Antonio Riccio, procuratori della detta cappella, assieme al R. D. Nutio Pancalli, procuratore del monte di maritaggio della stessa cappella, presentando il R. D. Dominico Rocca, parente prossimo in grado del fondatore D. Jacobo de Aquila, affinchè potesse essere provvisto del beneficio.[clxxix]

In questa ultima parte del secolo, al fine di arginare la perdurante difficile situazione economica, si ricorse alla riduzione degli oneri delle messe che gravavano le principali chiese di Policastro. Succedeva, infatti, che le rendite dei beni che i benefattori avevano legato al tempo dei loro lasciti testamentari, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, fossero ormai divenute inadeguate a soddisfare la retribuzione dei cappellani che celebravano le messe di suffraggio, mentre, sempre a causa della crisi, erano anche aumentati i casi degli insolventi.

Dalla documentazione prodotta in questa occasione, per poter ottenere dall’arcivescovo tale riduzione, raccolta in un volume intestato “Reductiones Missarum loci Policastri” (1681),  sappiamo così qual’era al tempo l’onere principale delle messe che si celebravano nella “Chiesa della SS.ma Annunc.ta nova”, e qual’erano i beni che si trovavano nelle disponibilità della chiesa a tale scopo.

Per l’anima del diacono Matteo Rocca, messe 50 l’anno (1599), il clero possedeva un castegneto in loco detto “li Marrari”, per l’anima di Fran.co Ceraldo, messe 100 l’anno (1622), il clero possedeva un annuo censo di carlini 28, sopra una vigna ed un pezzo di terra in loco “li grandinetti”, per l’anima di Gio: Dom.co Rizza, messe 30 l’anno (1641), pagavano gli eredi carlini 30 sopra un pezzo di terra in loco detto “Agrillo”, per l’anima di Cornelia Strozza, messe 57 l’anno (1623), che si celebravano metà nella cappella del SS.mo Rosario e metà nella chiesa di Santa Caterina, onere per il quale detta chiesa possedeva un ortale di gelsi in loco detto “Il Ringo”, per l’anima di Gio: Tom.so Faraco messe 150 l’anno e per l’anima di Gio: Faraco messe 50 l’anno (1623), il clero possedeva un luogo detto “li grandinetti”, per l’anima del Rev.do cantore Salvatore Riccio, messe 250 annue (1600), il clero possedeva una possessione in loco detto “la Fiumara”, per l’anima di Giannino Capozza messe 100 l’anno (1603), il clero possedeva un pezzo di terra in loco “lo Salito, seu manca di Capozza”, e per l’anima di Salvatore Traijna, messe 50 l’anno (1604), il clero possedeva un vignale loco detto “S. Cesareo”.

In questa occasione, la riduzione dell’onere delle messe riguardò anche la chiesa dell’Annunziata vecchia. Nella “Ecc.a SS.mae Ann.s extra moenia”, per l’anima di soro Giovanna e D. Dom.co Palazzo, si celebravano 50 messe l’anno (1615 e 1620) e la chiesa possedeva un capitale di ducati 50, mentre altre 25 messe si celebravano per l’anima di Scipione Romano (1645), e la chiesa possedeva allo scopo una bottega, assieme ad altre due che però, erano state distrutte dai terremoti.[clxxx]

 

La chiesa dell’Annunziata “nova” agli inizi  del Settecento

La chiesa dell’Annunziata Vecchia fu diroccata al tempo dell’arcivescovo Carlo Berlingieri (1679-1719), e trasferita dal suo sito che si trovava “sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città”, in quello dell’antica chiesa di “Santa Maria delli Francesi”.[clxxxi] Il luogo, alberato di gelsi neri, in cui rimanevano i resti della “Chiesa diruta” dell’Annunnziata Vecchia, continuò in seguito ad essere detto “l’Annunciata di fuori”.[clxxxii]

Risale agli inizi del Settecento, la descrizione della chiesa dell’Annunziata “nova” fatta dal Mannarino, che ne mette in luce la magnificenza della struttura, evidenziando le sue ricche cappelle e ricordando la presenza di tre confraternite.

“Ma ritornando alla SS.ma Annunziata nuova, ben chiamasi la nuova, siccome à fronte di tutte l’altre chiese è la più bella, la più magnifica, e la più frequentata. Stà con frontespizio maestoso di Pietre, bianche, e quadre ligieramente lavorato, con tre Porte a simetria verso Aquilone e un’altra nel muro di sotto ad Oriente. Là pur di dietro un atrio assai vasto e vistoso, e tiene a destra, ed a filo di quel suo frontespizio un Campanile, il più magnifico, e spettabile di tutta la Comarca, nuovamente incatenato al di sotto con alcuni archi lavorati, che lasciano al mezzo, quanto egli è largo, una strada coverta, che conduce all’atrio, ed è lavorato, e fatto dell’istessa Pietra in guisa d’una Torre grande quadro fornito di cinque Campane, una grande di quatordici Cantara di Bronzo, e vi si sale per una scala fatt’à lumaca delle Pietre medesime ove la sua Cupola con artifizio composta ed’ornata di bellisimi Palchi con Palaustri, sicchè vi si potea sicuramente passegiar d’ogni lato. La quale nondimeno atterrata con buona parte della Chiesa, è stata l’una, e l’altra mediocremente restaurata. Sonovi pure tre Confraternite cioè dell’istesso mistero dell’Annunziata la prima, la seconda del SS.mo Nome di Gesù, e l’altra del SS.mo Rosario, di cui oltre alla Capella in oro sfondata che vi è al destro lato dentro la Chiesa si è fabricata con limosine de’ Benefattori anche una [dele]egazione dalla parte di fuora all’altro angolo nel fine […] grandi, e superbi Archi che sussiegono al Ca[mpanile] [q]uesta per li soli Uomini, restando per le femi[ne] […] di dentro ora però Ma dismessa e aperta […] Persone la frequentano ma finalmente […] il q.m D. Girolamo Caracciolo. (…) Hor in questa Chiesa della SS.ma Annunziata, ch’è così ammirabile per lavoro, riguardevole per ricchezza, ed inarrabile per designo, vi è a lato sinistro la Capella dell’apostolo San Giacomo lavorata in oro, assai ricca, perché D. Giacomo Aquila che la fondò con Chiesa a parte innanti il largo del diruto Castello, contigua al suo nobil Palazzo, da dove fù qui poi trasportata, oltre alla dote della Capella, vi è un benefizio di settanta scudi annui lasciato per tutti li suoi eredi e successori più intimi, dell’una, e dell’altra linea, che attualmente si possiede dal Sig.r D. Domenico Rocca, mio fratel Cugino e immediato Pronipote del Testatore e di più un Monte di Maritaggi di scudi Cinquanta per ciscuna donna sua Consanguinea ò sia del Mascolino, o del feminino, appresso à questa vi è la Capella Sfondata di S. Gioseppe col Jus Padronato della Famiglia Campitelli in legname nobilmente lavorata, e miniata d’oro, ed un’altra del Santo Padovano.”[clxxxiii]

 

Un nuovo oratorio

La recente erezione segnalataci dal Mannarino, di una “[dele]egazione” dell’oratorio del SS.mo Rosario, realizzata “dalla parte di fuora” della chiesa dell’Annunziata e destinata agli uomini del sodalizio, mentre per le donne rimaneva la cappella “di dentro”, risulta documentata da un atto del 31 agosto 1714. Quel giorno, il parroco D. Gio: Fran.co Bernardi, “Rec.re”, ed il Ch.o Tomaso Ant.o Scandale “Proc.re”, dell’oratorio dedicato alla “B.mae Virg.ni SS.mi Rosarii”, assieme a tutti i confrati del detto oratorio, rappresentavano all’arcivescovo, che questo si trovava “composto di tutta perfett.ne, ed ornato decentem.te l’Alt.e”. L’oratorio deteneva la somma di ducati 53, di cui ducati 41 depositati nella cassa del Pio Monte di S. Sebastiano del detto luogo, e ducati 12 impegnati in due capitali. Il primo di ducati 6, infisso sopra un vignale alberato di celsi nel luogo detto “lo Ringo”, che fruttava annui carlini 6, il secondo infisso sopra un vignale in loco detto “le Pianette”, dato al detto oratorio dal m.co Antonio Scandale, “fr(at)ello” di detto oratorio, che fruttava annui carlini 5 ½. Denaro e capitali che servivano per la dote del detto altare e riparo dell’oratorio.

I richiedenti chiedevano quindi all’arcivescovo, “di potersi celebrare nell’alt.e d’esso orat.rio il sacrificio della S. Messa per maggiorm.te aumentarsi la divot.e col divino Culto, e stabilirsi la solennità, che intendono fare ogn’anno nell’Ottava della B.ma Verg.e del Rosario”, impegnadosi ad offrire “di vantaggio”, alla chiesa metropolitana di Santa Severina, nel giorno della dedicazione di Santa Anastasia, una libra di cera bianca ogni anno, “in segno di Soggettione”. In questa direzione andava anche la relazione prodotta dal vicario foraneo di Policastro.[clxxxiv] La richiesta fu accolta. Tra coloro infatti, che furono chiamati “Ex Policastro”, in occasione del sinodo diocesano del 1715, risulta, per la prima volta, anche il “Rector Oratorii SS.mi Rosarii cum libra cerae”, ovvero “cum lib. cerae albae elaboratae”, come continua ad essere documentato nei sinodi successivi, fino alla metà del secolo.[clxxxv]

L’esistenza della chiesa o oratorio del SS.mo Rosario, in cui si trovava eretta la “Confraternitas SS.mi Rosarii”, è evidenziata dalla relazione arcivescovile del 1765 prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Antonio Ganini (1763-1795), quando l’oratorio era retto dal reverendo D. Thoma Antonio Scandale.[clxxxvi]

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Petilia Policastro (KR), porta d’ingresso all’edificio dell’oratorio del SS.mo Rosario.

 

In catasto

Tra le entrate della Mensa Arcivescovile in Policastro, al tempo della compilazione del catasto onciario (1742), risulta il pagamento del cattedratico da parte del “Proc.re dell’Ann.ta”, del chierico D. Scipione Tronca, del rettore di “S. Giacomo de Aquila”, dell’oratorio del “SS.mo Rosario” e del rettore di “S. Giacomo” (d. 0.6).[clxxxvii]

A quel tempo, la “Chiesa della SS.ma Annunciata” possedeva i seguenti beni: una continenza di terre dette “S.to Fran.co”, un vignale “in Comito”; un vignale “in Canino”, un vignale detto “La Destra di Callea”, un vignale nel luogo detto “Le Limine”, un vignale nel luogo detto “S. vito”, un vignale nel luogo detto “Le Scalille”, un vignale “in Paternise”, un vignale “nel Molinello”, possedeva ancora, lo “Jus quintae” sopra “la Difesa del Mon[acello]”, un vignale “nel olivano”, le castagne nel luogo detto “La …”, le terre “nel Pantano”, le terre “ad S. Cesario” e le terre “nella volta di Leuci”.

Esigeva inoltre diversi censi: duc. … da Leonardo e Gio: C…, duc. 0.24 dal Rev.do D. Leonardo Vallone, duc. 1,40 da Stefano Cavarretta, duc. 1,28 da Arzilia Conflenti, duc. 0,60 da Gio: Pietro Natale, duc. 0,70 da Innocenza Rizza, duc. 0,60 dagli eredi di Leonardo Carcea, duc. 2,10 dagli eredi di Tommaso Madia, duc. 1,98 da Matteo Berardi, duc. 1,05 dagli eredi del quondam Pompeo Mannarino, duc. 0,20 da Marco Pace e Titta Mauro, duc. 0,60 dagli eredi di Antonino Strongoli, duc. 4,61 dai mag.ci Antonio e D. Felice De Martino, duc. 5,39 sempre dai mag.ci Antonio e Felice De Martino, duc. 10 dal mag. Lorenzo De Martino.

Si annotava che “Tutte le sud:te entrade restano assorbite da pesi di messe, ed utensili delle med:me, e perciò non si tirano l’oncie, non essendovi veruno frutto.”[clxxxviii]

Anche le cappelle della chiesa detenevano al tempo alcuni possessi.

La “Cappella di S. Giacomo”, di cui era procuratore D. Vitaliano Giordano,[clxxxix] possedeva un vignale “in Gorrufi”, una chiusa “in Gorrufi”, le castagne “nel Monacello”, un altro castagneto in detto luogo, un vignale “nelle Scalille”, un vignale “nelle Canalette”, un vignale “nelle Manche”, la gabella detta “Il Cugno della vurga”, la gabella detta “Scavino”, il vignale “nelli Ien[i]”, la gabella di “Sca…”, la gabelluccia del …, la gabella di “Cere…”, il “Timpone delle …”, ed esigeva alcuni censi (dal rev.do D. …, da Lorenzo …, da Giuseppe Caccuri …).[cxc]

La “Congregaz.ne del SS.mo Rosario”, possedeva un vignale “in Gorrufi”, la chiusa “del Monacello” ed un vignale “nelle Scalille”. Esigeva duc. 0,70 da Tomaso Cavarretta e duc. 10,40 da D. Salvatore Madia. Sopportava pesi per le messe festive e domenicali, per il “Catredatico”, per il “Jus della visita” e per la celebrazione di messe.[cxci]

La “Cappella di S. Antonio dentro la Chiesa della SS.ma Ann.ta”, possedeva: un vignale “nel Pantano” ed un vignale “nell’Alfieri”, ma la loro rendita risultava assorbita dai pesi delle messe.[cxcii]

 

Annessa a San Nicola dei Greci

Secondo il Sisca, i registri parrochiali di San Nicola dei Greci, testimoniavano che questa chiesa “era ancora ufficiata nel 1747”, ma che nel 1764 “fu soppressa e trasferita” alla chiesa dell’Annunziata. L’autore riferisce di apprendere questa notizia da un manoscritto in suo possesso, nel quale il parroco D. Pietro Carvelli affermava: “Fu la mia (dell’Annunziata) dichiarata parrocchia fin dall’anno 1764.”.[cxciii]

La relazione arcivescovile del 1765 prodotta dall’arcivescovo di Santa Severina Antonio Ganini (1763-1795), riferisce invece che, la chiesa della Beata Vergine Maria “ab Angelo Annunciatae”, si trovava annessa alla parrocchiale di San Nicola dei Greci, di cui era parroco D. Nicola de Martino. Dotata di un ampio edificio adatto a riunire il popolo, la chiesa aveva cinque altari oltre il maggiore ed eccetto il battesimo, vi si amministravano tutti gli altri sacramenti.[cxciv] Al suo interno si trovava eretto il monte di pietà retto da un procuratore eletto dall’arcivescovo, per collocare in matrimonio le oneste fanciulle e, particolarmente, quelle affini al quondam Joannes Jacobo de Aquila, fondatore dello stesso.[cxcv] Nel 1751, il semplice beneficio di “S. Giacomo” era posseduto da D. Cesare Rocca.[cxcvi]

In seguito, fu procuratore della cappella Tommaso Scandale. Il 2 aprile 1768 Francesco Spinelli di anni 40, figlio del quondam Giovanni Pietro, “apprezz.re prattico in apprezzare alberi”, assieme a Carmine Caruso di anni 45, figlio di Giovanni, riferivano in merito all’apprezzo di un oliveto, sito nel luogo detto “Le Pianette”, appartenente al Mag.o regio notaro Michelangelo Rossi, eseguito per ordine del vicario foraneo di Policastro Giovanni Domenico Pace. La stima si rendeva necessaria per la concessione al detto Rossi, di un capitale di ducati 150 al 6 % da parte della cappella di S. Jacobo, di cui era procuratore Tommaso Scandale.[cxcvii]

policastro annunziata

Petilia Policastro, campanile della chiesa dell’Annunziata.

 

Al tempo della “Cassa Sacra”

Dopo il terremoto del 1783 che interessò la Calabria centro-meridionale, quando Policastro “fu in gran parte distrutta, e nel resto conquassata”, risultando “parte distrutto, e parte cadente”[cxcviii] dopo le scosse del 28 marzo di quell’anno,[cxcix] per provvedere al riparo dei danni ingenti provocati dal sisma, il 4 giugno 1784, il governo borbonico istituì la “Cassa Sacra”, che incamerò i beni di numerosi enti ecclesiastici soppressi allo scopo nell’occasione. Attraverso le liste predisposte in questo periodo che, accanto a tutta una ricca documentazione, si conservano presso l’Archivio di Stato di Catanzaro, dove ebbe sede la Giunta di Cassa Sacra, possiamo conoscere qual era al tempo lo stato dei possessi di diverse chiese del territorio.

Dalla “Lista di Carico Luoghi Pii di Policastro”, sappiamo che appartenevano alla “Annunciata”: “S. Fran.co” (d. 12.00), “S. Cesaro” (d. 35.00), “Comito” (d. 29.30), “Manca di Comito” (d. 05.00), “Callea” (d. 1.10), “S. Vito” (d. 1.44), “Limine” (d. 7.00), “Lo Scavo” (d. 14.80), “Scalille” (d. 2.11), “Valle di Coppola” (d. 2.20), “Molinelli denaro pagato d. 30.50”, “Cersitelli” (d. 8.44), “Paternise” (d. 2.40), “Salito” (d. 7.00), “Monacello quinta” (d. 8.00), “Misianelle” (d. 4.80) e “Trentademoni” (d. 1.16.8). All’Annunziata appartenevano anche una “Casa” (d. 2.26), un “Magazeno” esistente sotto il palazzo di Policastro dell’Arcivescovo di Santa Severina (d. 6.75), ed alcuni “Censi” (d. 54.25), per il totale di una rendita di d. 205.01.8.

Alla “Congregaz.e” del SS.mo Rosario appartenevano invece i fondi: “Fossa di Natale” (d. 6.40), “Fossa di S. Giacomo” (d. 4.00) e “Petto del Ceraudo” (d. 21.24), alle cui rendite si sommavano d. 17.33 per censi e d. 12.00 “per l’espositi”, determinando un totale di d. 40.97.[cc]

Il 6 febbraio 1790, il “Prorazionale” Gian Fran.co Capurro asseriva che, “avendo riscontrato le liste di Carico de Luoghi Pii Soppressi, e sospesi del Diparto di Mesuraca, e Policastro”, aveva trovato le seguenti rendite relative alla “Chiesa della SS.ma Annunziata” di Policastro: d. 6.75 per affitti di case, d. 47.93 per censi bullari, d. 11.80 per censi enfiteutici e d. 145.04 per affitti di gabelle. Per quanto riguardava invece, la Congregazione del SS.mo Rosario, le sue rendite risultavano costituite da d. 12.23 per censi bullari, d. 5.10 per censi enfiteutici e d. 12.45 per affitti di gabelle.[cci]

I “Luoghi, e Terreni d’affittarsi, della SS.a Annunciata di d.a Città” alla data del 2 agosto 1790, risultavano: Mancha di Comito, Callea, Pantano, Scalille, Valle di Coppula, Molinello, Cersitello, Giardino di Paternise, Salito, vignali d.ti Olivano, Casa confinante con Leonardo Mancini, Giuseppe Cavarretta, Dom.co Caruso e via publica”.[ccii]

In seguito tali rendite furono sostituite da una “congrua”. Nel “Piano de’ Luoghi Pii, e loro rendita, formato per ordine di Sua Ecc.a Sig.r Marchese di Fuscaldo dal Sig.r Archid.no D. Diodato Ganini Vicario Generale Capitolare di questa Diocesi di S.ta Severina”, redatto il 7 agosto 1796, la congrua assegnata al curato della “Parrocchia della SS.ma Annunciata”, “siccome non possidea rendita veruna”, ovvero “non tiene rendite proprie”, risultava costituita da d. 46.74.6 “in tanti cenzi assegnati”,[cciii] a cui si sommavano d. 103.26.6 in contanti.

A quel tempo, Policastro risultava il “Paese più grande della Diocesi” con i suoi 3459 abitanti, dove esistevano tre parrocchie, tra cui quella di San Nicola dei Greci/l’Annunziata che aveva la cura di 1152 anime. In essa si facevano “le pubbliche preghiere” ed altre funzioni che riguardavano “l’intiero Comune”, come in occasione della Settimana Santa, quando “porzione del Clero è obbligato funzionare in d.a Chiesa la q[uale] per esser la più vasta, e nel centro del Paese ha maggior concer[to] di Popolo per cui dal defunto Arciv.o accanto alla stessa fu costru[ito] un Palazzo per commodo degl’Arciv.i che vogliono andar colà ad esti[va]re.”.[cciv]

Vacante per la morte di Nicola de Martino, avvenuta nel mese di agosto del 1790, nel febbraio dell’anno successivo, la chiesa parrocchiale della “Annuntiationis B.M.V. et S. Nicolai Graecorum” fu provvista al presbitero Francisco Pullano. Per dimissione di quest’ultimo, nell’ottobre 1795 gli subentrò Petro Carvelli, presbitero oriundo di anni 49.[ccv]

Ai suoi tempi, in base alle disposizione del Marchese di Fuscaldo, che prevedevano di prelevare dalle rendite dei Luoghi Pii di Policastro, le somme necessarie ai lavori di riparo dei danni provocati dal recente sisma, “si assegnarono annui ducati 100 per la rifazione della Chiesa Parochiale dell’Annunziata”, in maniera che “quando saranno rifatti la Chiesa dell’Annunziata, ed il Campanile”, questa somma sarebbe potuta essere utilizzata “per la costruzione, e mantenimento dello Spedale”.[ccvi]

In una fede del cancelliere dell’università di Policastro Simone Mayda del 3 novembre 1798, si evidenziava che dal “Libro catastale” del corrente anno, risultava che, tra le altre cose, la Mensa Arcivescovile di Santa Severina esigeva in Policastro: d. 1.20 “per quarta beneficiale” dal parroco di “S. Nicola de Greci”, d. 2.00 dalla “Cappella di S. Giacomo” e d. 0.60 dal “Rettore della stessa Cappella”.[ccvii]

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Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata. Angeli murati sopra una delle finestre, all’esterno della navata sinistra.

 

Affitti e vendite

Come rileviamo dall’inventario dei beni appartenenti ai Luoghi Pii del “Diparto di Policastro e Mesoraca”, compilato il 29 agosto 1796, oltre ad alcuni affitti che maturavano l’otto settembre, giorno della fiera di Mulerà, la “Chiesa dell’Annunciata” di Policastro esigeva le annualità relative ad alcuni fondi venduti ed alcuni censi enfiteutici.

“Chiesa dell’Annunciata

Corpi Stabili Affittati

S. Fran:co Gabella affittata a D. Gregorio Poerio, che matura ad 8 7mbre del corrente Anno d. 12.00

S. Cesario Gabella comune con la Chiesa Madre per la metà di q:o Luogo Pio, affittata a D. Leonardo Carvello per d. 75 che maturano in mulerà d. 37.50

Le Limine Vignale affittato a D. Muzio Scandale, che matura nel tempo come sop.a d. 07.00

Vignale d:o Pantano affitato a D. Gio: Battista Portiglia, che matura in d.o tempo d. 00.12

Vignale d.o Valle di Coppola Comune con la Cappella del Purgat.io per rata spettante a q:o Luogo Pio sull’affitto si paga dal Proc:re di d:a Cappella in ogni Agosto d. 02.00

Vignale Salito affittato a D. Nicola Scalise per D. 7 pagabili in mulerà d. 07.00

Annualità de’ Fondi venduti

D. Gaetano de Martino per annualità sul Fondo Comito venduto dalla C.S. per D. 732.50 come per Istrumento di N:r D. Fran:co Sgrò di Catanzaro a 3 di marzo 1792 deve in d.o di d. 29.30

D. Michele Ferraro per annualità sul Vignale Callea, venduto dalla C.S. per D. 28.82.6, come per Istrum:to di N:r Caliò di Catanz:ro de 9 Aprile 1792, deve in d:o di d. 01.15

Salvad.e Rizza per canone sul vignale d:o S. Vito come per Istrum:to di N.r Nicoletta di Belcastro de 15 Aprile 1795 deve in d.o di d. 01.44

D. Gio: Battista Portiglia per annualità sul Vignale Sbano, venduto dalla C.S. per D. 1370, come per Istrumento di N:r Sgrò de 22 Aprile 1792 deve in d.o di d. 14.80

Il Sud:o per annualità sop:a la Gabella d:a Volta di Leuci, venduta per ducati 1800, che tiene d:o Luogo Pio comune colla Chiesa Madre per rata spettante a q:o sud:o Luogo Pio deve nel venturo Aprile d. 36.00

D. Michele Ferraro per annualità sul Vignale Carditello venduto per docati 210.83.4, come per Istrumento di Not:r Marini di Catanzaro a 17 luglio 1794 deve in d.o di d. 08.44

Tomaso Ierardo per Annualità sul Giardino d:o Paternise venduto per D. 60 come per Istrum:to di Notar Lerose di Mesoraca a 16 Feb.o 1795 deve in d.o di d. 02.40

D. Bruno Martino per Capitale di D. 200 deve in Agosto d. 10.00

D. Giachino Ferraro di Catanz:ro per Capitale di D. 231, deve in Agosto d. 11.50.

Censi Enfiteutici

D. Nicola Scalise per canone sul Fondo d:o Manca di Camino come per Istrum.to di Notar Lerose di Mesoraca de 29 Maggio 1791 deve in Agosto d. 05.00

Vittoria Rotella sul Giardinello d:o Scalille come per Istrum:o di N.r Lerose a 26 Magg.o 1793, deve in Agosto d. 02.16

D. Bened:o Mancini per canone sul Castagneto d:o Misianelle come per Istrum:to di not:r Caliò a 2 Magg:o 1791, deve in Novembre d. 04.80

Dom:co Rocca per canone sulla Casa come per Istrum.o stipulato da Notar Lerose a 14 Luglio 1791 deve in Agosto d. 02.26.6

Salvad:e Ierardo per canone sul Castagneto d:o Trentademone come per Istrum:to di Notar Lerose a 14 Luglio 1791 deve come sop.a d. 01.06.8”.

La “Congregazione del Rosario” poteva contare invece, sulle seguenti rendite:

“Dal Proc:re di d.a Congregazione per il sussidio degli espositi imposto per la Ravvivaz.ne della med.a d. 12.00

Giusepp:e Castagnino, e per esso D. Nicola Rotella per canone sul Castagneto Fossa di S. Giacomo deve in’ogni 8bre d. 04.00

Gio: Battista Pilò, e per esso Fran:co Toscano per canone sul Castagneto d:o petto di Ceraudo, deve in d:o mese d. 01.24.9”.[ccviii]

Nel 1794, il “Semplce Eccl(esiasti)co Beneficio di S. Giacomo Ap(osto)lo di Iuspatronato della Famiglia Aquila fond.o nell’anno 1641”, possedeva invece una “Rend.a effettiva” di ducati 45, dovendo sopportare pesi per un totale di ducati 34.20, così ripartiti: “Messe 100” (d. 10), “più messe 36 Cant.e” (d. 06.60), “per il canto di d.e Messe Cant.e” (d. 12.00), “Cenzo all’Annunciata” (d. 08.00) e “Cattedratico alla Mensa” (d. 00.60).[ccix]

policastro annunziata

Petilia Policastro (KR), chiesa dell’Annunziata. Particolare dell’ingresso laterale murato.

 

Verso l’età moderna

Una relazione del 13 aprile 1807, fatta da D. Pietro Carvelli, parroco della SS.ma Annunziata, all’arcivescovo di Santa Severina, illustra “lo Stato attuale” della parrocchiale:

“Da tempi a Noi incogniti fino al 1784 la Parrocchiale Chiesa era quella di S. Nicolò de’ Greci, in cui il Parroco esercitava i suoi offici. In occasione del Tremuoto del 1783 fù trasferita dalla Chiesa di S. Nicolò sudetto, luogo angusto in questa della SS.ma Annunciata, vaso più ampio, e comodo al Popolo. Furono abolite le Decime, ed altri Jussi ch’esigeva il Parroco, e li furono assegnati per Congrua sul principio annui docati cento cinquanta, che si pagavano dalla Giunta della Cassa Sagra: quale abolita e rimessi i beni de’ Luoghi Pii alla Communeria, questa contribuiva al Parroco cento venticinque. Finalm.te a ricorso di detto Parroco al Sig.r Marchese di Fuscaldo, ordinò lo stesso, che li fussero dati docati cento quaranta, che attualm.te esigge dalla sud.ta Communeria, …”.[ccx]

A quel tempo (1810), appartenevano ancora alla “Chiesa della SS. Annunziata”, i fondi: “Santo Francesco”, “Limina”, “Valle di Coppola”, “Pantano” e un magazzino, mentre, in precedenza, erano stati venduti quelli denominati: “Comito”, “Callea”, “S. Vito”, “Chiusa dello Scavo”, “Leuci”, “Cerzitello” e “Paternise.”. Appartenevano invece al SS.mo Rosario, le castagne dette “Fossa di Natale”.[ccxi]

In seguito la parrocchiale passò ad essere “succursale” della chiesa matrice. Nello “Stato de’ Sacerdoti, ed altri Ordinati in Sacris appartenenti all’Arcidiocesi di S. Severina”, compilato il 21 maggio 1826, tra i 18 ecclesiastici di Policastro, che “Sono incardinati tutti alla Chiesa Matrice, ch’è Chiesa parocchiale”, risultava anche Domenico Giordano di anni 54, economo curato dell’Annunziata, per essere la stessa divenuta Succursale della Chiesa Matrice”.[ccxii]

A quel tempo, i benefici semplici ancora esistenti nella “Parrocchiale Chiesa della SS.a Annunciata di questa Comune di Policastro”, sono riportati in uno “Stato de’ Benefici vacanti e Legati Pii”, compilato il 5 ottobre 1820. Questi erano: il beneficio semplice di “S. Giacomo Apostolo detto di Aquila”, fondato dal 12 gennaio 1640 ed attualmente posseduto dal Sig. D. Gaetano de Sesse di Catanzaro, a cui appartenevano i fondi “Cervellino” (d. 29.08), di cui il quinto apparteneva alla “Comuneria di questa Comune”, “Scardiali” (d. 51.28), “Schiavino” (d. 54.80), “Cugno di Vurga” (d. 22.77) e “Timpone di Rose” (d. 5.77) per metà, mentre l’altra metà apparteneva agli eredi Caccuri; la cappellania o legato pio di “S. Giuseppe”, attualmente posseduta dal Sig. D. Rafele Campitelli, a cui apparteneva “il Feudo di Urrico” (d. 16.00); il legato pio perpetuo “dell’Angelo Rafele”, posseduto dal Sig. D. Muzio Portiglia, a cui apparteneva il “Fondo Salinara” (d. 2.40).[ccxiii]

La chiesa fu gravemente danneggiata dal terremoto del 8 marzo 1832, quando Policastro ebbe 29 morti. Nel 1846, al tempo in cui D. Domenico Rosa era parroco dell’Annunziata, gli “Ufficiali della Congrega del SS. Rosario”, “essendosi approssimato il tempo per la solennità della Vergine SS. del Rosario”, protestavano nei suoi confronti, affinchè si compiacesse “di rendere sgombro almeno l’altare maggiore per avere l’agio i confratelli di apparecchiare e solennizzare la festa nella chiesa dell’Annunziata come si era praticato in passato, fuorchè nell’anno precedente 1845 per causa che trovavasi diruta la chiesa dell’Annunziata talmente che l’oratorio del Rosario ebbe a sostituire la chiesa parrocchiale.”[ccxiv] Dopo la venuta a Policastro delle “Suore Francescane di Gesù Bambino” (1896), la “chiesetta del Rosario” fu trasformato in oratorio estivo.[ccxv]

Altri danni si registrarono alla “S.S. Annunziata” in occasione del terremoto dell’otto settembre 1905 quando, assieme alla “Chiesa Matrice” ed a “S. Maria Maggiore”, la chiesa era una delle tre parrocchie di “Petilia Policastro”, cui apparteneva un territorio definito da confini che abbracciavano anche lo spazio extraurbano.[ccxvi]

Il 28 marzo 1906, relativamente ai danni causati da questo nuovo sisma alla chiesa della “Parrocchia della SS. Annunziata”, il perito Tommaso Misaggi evidenziava che l’edificio aveva subito un “Ribassamento di suolo avvenuto nella Sagrestia” con “lesioni interne” e “soffitta pericolante in tutto”, che la “soffitta di gesso” della nave destra era per metà pericolante, che la “soffitta” della nave sinistra era interamente lesionata e prossima a cadere, che la “soffitta” del coro era “in parte pericolosa”, che la navata di mezzo era in parte lesionata gravemente, che si erano verificate “lesioni gravi nel Campanile, per il quale occorrono due grosse catene di ferro, e un completo restauro”, che la “Cappella di S. Giuseppe” era da restaurare interamente e che nella “Cappella di S. Filomena” il soffitto era completamente caduto. Per tutto il restauro si prevedeva una spesa di L 2965.[ccxvii]

 

Note

[i] 16 giugno 1425: “Visitantibus ecclesiam Annuntiationis B. Mariae de Fratribus de Policastro, S. Severinae dioc., cui contigua est alia sub vocabulo salviferae Crucis Domini, diebus vigesimaquinta Martii, Beatae Mariae, et tertia Maii, mensium, S. Crucis, concedit indulgentiam duorum annuorum et totidem quadragenarum.” Russo F., Regesto II, 9672.

[ii] Mannarino F.A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[iii] “Rector et Cappellanus divae nunctiatae t(er)rae policast.i tenetur Comparere personaliter Cum censu cerae librarum trium C. L. iij”. AASS, 18B.

[iv] Nel “Libro de tutte l’intrate de lo arcivescovado de’ s(a)nta Anastasia”: “Da la adnunciata libre due (sic) de cera” (17.05.1545), “Denari receputi ad lo sinido nello iorno de s.ta anastasia de lo ij.o anno de lo afficto 1546”: “Dala adnunciata de policastro per censo libre tre de cera”, “Dinari reciputi de lo sinido nello iorno de s.ta anastasia nello anno retro scripto 1547”: “Dala ad nunciata libre tre de cera”, AASS, 3A. 1564: “Rector dive annuntiate de pulicastro cum censu cere librarum trium” comparve e pagò le dette tre libre di cera. 1579: “Rector Divae Annuntiatae dictae T(er)rae Cum Censu Cere lib. Trium”, comparve D. Ant.o de Natale “pro capp.no”, pagando le tre libre di cera. 1581: “Rector Divae Annunciatae de Polic.o cum censu cerae librarum trium”, non comparve nè altri lo fecero per lui, quindi fu condannato. 1582: “Rector divae Annuntiatae de polic.o Cum Censu librarum Cere trium”, non comparve. 1584: “Rector Divae Annuntiatae de polic.o Cum Censu lib. cere Trium”. 1587: “Rector divae Annuntiatae dictae Terrae Cum Censu cere librarum trium”, non comparve, quindi fu condannato alla solita pena. 1588: “Rector et capp.s S. Ann.te”, chiamato in sinodo “more solito” non comparve, nè pagò il solito censo, quindi fu condannato al pagamento della terza parte dei frutti. 1590: Non risulta annotata la sua chiamata in sinodo. 1591: “Rector S.me Annuntiate de policast.i cum censu”, comparve e non pagò. 1593: “Il capp.no dell’Anuntiata di detta T(er)ra con tre libre di Cera”, comparve. 1594: “Il Capp.no dell’Annuntiata di d.ta t(er)ra con tre libre di Cera”. 1595: “Il Cappellano della S.ma Annuntiata di Policastro con tre libre di Cera”, pagò. 1596: “Il capp.no della S.ma Annuntiata di detta t(er)ra con tre libre di Cera”, fu condannato. AASS, 6A.

[v] AASS, 16B.

[vi] AASS, 16B.

[vii] “R.to da D: Antonio Caldarani per S(an)ta Maria nova da Policastro per decima d. 0.1…” AASS, 2A.

[viii] “Denari de le carte” (1545): “De donno ant.no caldararo de pollicastro per s.ta m.a lanova d. 0.4.10”. “Conto de dinari de le quarte exacti in lo predicto anno 1546”: “De donno Antonino Caldararo per s.ta m.a lanova d. 0.4.10”.  “Conto de quarte exacte per lo R.do quondam Don Jacobo rippa como appare per suo manuale q.ale sta in potire de notari mactia cirigiorgi et sonno de lo anno 1547”: “Da donno Antonino de policastro per s.ta m.a lanova d. 0.4.10”. “Dinari q.ali se haverano de exigere de le quarte de lo anno vj jnd(iction)is 1548”: “Da donno Antonino Caldararo per la quarta de S.ta maria lanova d. 0.4.10”, a margine : “persa per non havere Intrata”. “Denari delle quarte de tutti li benefitii della diocesa de s(an)cta s(everi)na” (1566): “S(an)cta Maria la Nova pagha de quarta ogne anno d. 0.4.10.” AASS, 3A.

[ix] “Introito di danari essatti dal Rev.do D. Marco Clarà delle rendite della Mensa Arciv.le” (16.10.1630): “Il Capellano di S.ta Maria la nova d. 0.4.10”. “1654 4.a de Benefici Policastro.” “Capell.o di S. M.a la nuova d. 0.4.10” (a margine: “sol.t”). “4.a de Benefici Policastro.” (1655): “Cap.o di S. M.a la nuova d. 0.4.10” (a margine: “sol.t”). AASS 035A.

[x] 1597: “Capp.nus seu Confratres S.mae Annunciatae Terrae Policastri cum Cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1598: “Capp.nus seu Confratres S.mae Annuntiatae Policastri cum Cathedratico cerae librarum trium”. 1600: “Cappellanus seu Confratres S.mae Annuntiatae terrae Policastri cum cathedratico cerae librarum trium”, comparve. 1601: “Cappellanus seu Confr(atr)es S.mae Annunciatae t(er)rae Policastri cum cathedratico lib. cerae trium”, comparve con la solita cera. 1602: “Cappellanus seu confratres S.mae Annunziatae t(er)rae Policastri cum cathedratico librarum cere trium”, non comparve. 1603: “Cappellanus seu Confratres s(anctissi)mae Annuntiatae terrae Policastri cum cathedratico librarum cere trium”, comparve. 1604: “Cappellanus seu Confratres S(anctissi)mae Annuntiatae terrae Polic.i cum cathedratico librarum trium Cerae”, pagò. 1605: “Cappellanus seu confratres s(anctissi)mae Annuntiatae terrae Policastri cum cathedratico cere librarum trium”, comparve. 1606: “Cappellanus seu Confratres s(anctissi)mae Annuntiatae t(er)rae Polic.i cum cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1607: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annuntiatae terrae Policastri Cum Cathedratico Cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1608: “Cappellanus seu Confratres S.mae Annunciatae T(er)rae Policastri cum Cathedratico Cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1609: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annuntiatae T(er)rae Policastri Cum Cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1610: “Cappellanus seu Confratres Sanctissimae Annuntiatae terrae Policastri Cum Cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1611: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annuntiatae terrae Policastri Cum Cathedratico Cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1612: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annunciatae terrae Policastri cum cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1613: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annunciatae terrae Policastri cum cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1614: “Cappellanus, seu Confratres Sanctissimae Annuntiatae terrae Policastri Cum Cathedratico cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1615: “Cappellanus seu Confratres Sanctissimae Annunciatae terrae Policastri Cum Cathedratico Cerae librarum trium”, comparve e pagò. 1616: “Cappellanus, seu confratres Sanctissimae Annunciatae Terrae Policastri Cum Catredatico librarum Cerae trium”, comparve e pagò. 1617: “Rector, seu Confratres Sanctissimae Annunciatae Terrae Policastri Cum catredatico librarum trium Cerae”, comparve e pagò. 1618: “Rector seu Confratres Sanctissimae Annunciatae Terrae Policastri cum catredatico librarum trium Cerae Comp.t  cum cera”. 1619: “Rector seu Confratres Sanctissimae Annunciatae Terrae Policastri cum catredatico cerae librarum trium”, comparve con la cera. AASS, 6A.

1634: “Rector Annuntiationis cum tribus libris cerae – Salvator Venturinus procurator obtulit.” Scalise G. B., (a cura di), Siberene Cronaca del Passato, p. 30.

1635: “Rector Annunciationis cum trib. libris cerae obtulit”. 1636: “Rector Annunciationis cum tribus libris cerae Pro eo Alfonsius Campitellus obtulit tres libras cerae”. 1637: “Procurator Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, comparve ed offrì le tre libre di cera. 1638: “Procurator Annunciat.nis cum tribus libris cerae”. AASS, 26A.

[xi] “Così parimenti le due restanti Parocchie suppresse di San Demetrio, e di Santa Maria la Nuova, la cui chiesa al certo è l’istessa che oggi la nuova Annunziata, unitasi alla quarta hodierna Parocchia con cui confina; ch’è la più ampia e numerosa di tutte alla stessa reggion di Borea ma nella parte più mezzana chiamata San Nicolò delli Greci ove di più è la Capella col Monte del Purgatorio, ed ogni lunedì si celebrano messe lette, e cantate con gli soliti Notturni per quelle Sante Anime.” Mannarino F. A., cit.

[xii] “Policastro è terra Regia, qual’essendo stata venduta dal Conte di S. Severina fù fatta di demanio con l’opra, e patrocinio del Cardinale di S. Severina, è habitata da tre milia anime incirca vi sono quattro chiese parocchiali, e nella matrice è l’Arciprete, e Cantore con venti altri preti, quali per il più vivono delloro patrimonio, et elemosine che ricevono dal servitio delle chiese, e confraternità, tra le quali la maggiore è quella della S.ma Annuntiata ben servita di messe, e principalmente i giorni festivi con canto, et organo, …”. ASV, Rel. Lim. 1589. “Policastro è terra Regia habitata da tre milia anime incirca. Vi sono quattro chiese Parocchiali, e nella Maggiore è l’Arciprete il Cantore e vinti altri Preti, quali p(er) il più vivono di loro patrimonio, et elemosine che ricevono dal serv.o delle chiese, e Confratie tra le quali la maggiore è quella dell’Annuntiata ben servita di Messe e principalm.te li giorni festivi con canto, et organo …”. AASS, 19B.

[xiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 170-171.

[xiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 007-007v.

[xv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 010v-011.

[xvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Busta 78, prot. 287 ff. 103-103v.

[xvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 165v-166v.

[xviii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 037v-039.

[xix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 058-059.

[xx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 7-8.

[xxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 163v-164.

[xxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 45v-46v. ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81, ff. 31-32v e 37-40. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 073-074; prot. 806, ff. 117v-119.

[xxiii] “… petii terre arboratum sicomorum in loco ubi dicitur lo ringo positum ante Ecclesiam s.me Nuntiate vecchie …” ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 098-099v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 806, ff. 049v-051.

[xxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 107-108; Busta 80 prot. 303, ff. 056-057v.

[xxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 002v-003. Il Mannarino pone “illis de Petralia” tra le “Famiglie nobili di Policastro descritte da Giacomo Vicedomini nell’anno 1538”, a cui riferisce l’appartenenza di “Ioannes Berardinus Petri filius Ecclesiam Sactissimae Annuntiatae extra muros ne dura ampliari, sed rinovari curavit, ut pose quia erat Jus Patronatus suae familiae” (Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723).

[xxvi] 10.10.1616. Mutio Campana vendeva a Marco Amannito, la “Continentiam terrarum” di 7 tomolate circa, arborata con “sicomis, nucis, et olivae”, posta nel territorio di Policastro “et proprie sotto parte la nuntiata di fora et mangonise”, confine le terre di Sebastiano Traijna, “vallone mediante”, ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 141v-143). 22.09.1617. Il chierico Innocentio Accetta, con l’assenso di suo padre Joannes Paulo Accetta, retrovendeva a Marco Ammannito, un “vignale arborato di celsi” della capacità di circa una mezalorata, posto dentro il territorio di Policastro “loco ditto sotto la nutiata di fora”, confine le terre di detto Marco appartenute a Mutio Campana, i gelsi di Vespesiano Popaianni, la via pubblica ed altri fini (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291, ff. 046-050v). 22.02.1654. Vignale arborato di “Celsi” posto nel territorio di Policastro, loco detto “Sotto la Nunciata de fora”, confine i “Celsi” degli eredi del quondam Fran.co Converiati, i “Celsi” degli eredi del quondam Gorio Converiati, ed altri fini (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 016-017).

[xxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 002v-003. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 043-047v.

[xxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. sciolti; Busta 79 prot. 296, f. 091v; Busta 79 prot. 300, ff. 002v-003; Busta 80 prot. 302, ff. 128v-129.

[xxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 072v-074.

[xxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 305, ff. 089v-096.

[xxxi] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 049v-050v.

[xxxii] 16.09.1613: Il chierico Joannes Fran.co Arcomanno e Joannes Vincenso Callea, in qualità di eredi del quondam Michele Arcomanno, possedevano in comune ed indiviso alcuni beni, tra cui: la “continentiam domorum”, posta dentro la terra di Policastro, confine la domus che era appartenuta al quondam Franceschello Cortise, “et rupem affacciantem Ecc.e san.me nuntiate nove”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288, ff. 098-099v.

[xxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 098v-099v.

[xxxiv] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 292, ff. 069-070v; Busta 80 prot. 302, ff. 127v-128v.

[xxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 154v-155v.

[xxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 091-091v.

[xxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 095-096.

[xxxviii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 016-017.

[xxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 163v-164.

[xl] Il 27 settembre 1629, D. Joannes Fran.co Rocca, “Vicarius foraneus et parocus” della chiesa di San Nicola “de grecis”, avendo fatto ricerca “in libris matrimoniorum” della detta chiesa, asseriva di aver rinvenuto l’atto, attraverso cui, il giorno 11 luglio 1623, il quondam parroco D. Joannes Leotta aveva unito in matrimonio “per verba de p(rese)nti”, “in clesie Santiss.e nuntiate nove”, Alfonso Mannarino “incola Cotroneorum” e Julia Fontana.  ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, f. 60v.

[xli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 119v-120.

[xlii] “Prefata Archiep(iscopa)lis ecc.ia habet tam in Civi.te s(anc)tae s(everi)nae que in omnibus aliis t(er)ris et locis sue diocesis jus mortuorum tam denariorum que luminarium et candelarum”, AASS, 18B.

[xliii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 113v-115.

[xliv] “habet que dicta Archiep(iscopa)lis ecc.ia jus quarte in omnibus aliis ecc.iis et monasteriis quibus sepelliuntur mortui luminarium faciendorum super eis”, AASS, 18B.

[xlv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 288 ff. 014v-016.

[xlvi] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 178v-179.

[xlvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 180v.

[xlviii] “Et habet dicta archiep(iscopa)lis ecc.ia jus sepolture tam de legantibus in sepultures Archiep(iscopa)lis ecc.ie que de decedentibus ab intestatis tarenorum sex”, AASS, 18B.

[xlix] 17.05.1545: “Da donno Jacobo faraco vic.rio de policastro p(er) dicto Conto ducati cinque tari quatro et grana diece d. 5.4.10”, “Dalo Cap.lo de policastro d. 0.1.10”. 1545: “De donno tonno de pol.tro d. 1.3.0”, “Da lo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 2.0.0. Da lo Sup.a dicto vic.rio per iure mortuorum in alia d. 2.0.0”, “Da donno nicola coriglano de policastro per iure mortuorum d. 0.4.4 ½”. “Dinari reciputi de iure mortuorum de lo predicto anno 1546”: “17 maii Dalo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 2.0.0. 22 junii Da donno nicola curiglano per iure mortuorum d. 1.0.0. 25 sectembris Da donno fran.co curiglano per iure mortuorum et candile d. 1.3.0”. “De lo vic.rio de policastro per iure mortuorum d. 3.0.0”. “Dinari reciputi de iure mortuorum del retroscripto anno 1547”: “Da lo vic.rio de policastro d. 2.0.0”. 1566: “Lo Jus mortuorum de policastro si fa per la ec.a quanto frutta”. AASS, 3A.

[l] “1654 Ius mortuorum Policastro sol(vit) per l’Arcip.e carl. 10, per d. Callea carl. 9, per li Communeri carl. 23, e per d. Parisi”. AASS 035A.

[li] 11.08.1604: Lucretia Carcelli dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 39-39v). 28.08.1604: Laurentio Palatio dispone di essere seppellito “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 45-45v). 19.09.1604: Cornelia de Simmari dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286 ff. 53-53v). 26.09.1604: Lucretia Rocca dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 55-56). 12.11.1604: Joannes Turchi Valente del casale di S. Giovanni in Fiore, ma al presente abitante dentro la terra di Policastro, dispone di essere seppellito “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 221-221v). 27.12.1604: Feliciana Catanzario dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 225-225v). 31.12.1604: Joannes Angilo Rotella di Taverna, ma abitante in Policastro, dispone di essere seppellito “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 225v-226). 20.01.1605: Scipione Stratioti della città di Catanzaro, ma abitante in Policastro, dispone di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata la Nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 227-227v). 22.01.1605: Isabella Scandale dispone di essere seppellita nella chiesa della “nuntiata la nova”, “di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286, ff. 228-228v). 28.02.1605: Franciscina de Iordano dispone di essere seppellita nella chiesa della “nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 229v-230v). 13.10.1605: Salvatore Blasci dispone di essere seppellito dentro la venerabile chiesa della “nuntiata” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 240v-241v). 03.12.1605: Minica Cavarretta dispone di essere seppellita “nella chiesa della nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 1-1v). 07.01.1606: Isabella Schipana dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 8-8v). 10.02.1606. Isabella Coco dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 9-10). 21.06.1606: Castiglia de Vono dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della ss.ma Annuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 23-23v). 24.09.1606: Ottavio de Pace disponeva di essere seppellito “nella venerabile chiesa della nunciata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 31-32v). 26.11.1606: Leonardo Curto disponeva di essere seppellito “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 35-36). 02.01.1609: Joannella Campagna disponeva di essere seppellita “dentro la venerabile chiesa della nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 158-158v). 13.03.1609: Laura Furesta moglie di Lutio Faraci, disponeva di essere sepolta nella “venerabile chiesa della s.ma nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 163-163v). 11.04.1609: Nicolao de Strongoli disponeva di essere sepolto “venerabile chiesa della nuntiata nova di detta terra”  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 163v-164). 24.02.1610: Paulo Curto disponeva di essere seppellito nella “chiesa della s.ma Nuntiata nova di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 203). 16.12.1610: Salvatore Fasoli disponeva di essere seppellito nella “venerabile chiesa della s.ma Nuntiata la nova di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 168-168v). 07.12.1611: Julia Castelliti disponeva di essere seppellita nella “chiesa della venerabile s.ma nuntiata nova di detta terra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 213-213v). 25.04.1630: Il Clerico Joannes Fran.co Capozza disponeva di essere sepolto “nella santissima nuntiata” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 105). 16.06.1630: Su richiesta di Joannes Ventorini disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 116-117). 11.07.1630: Jannino de Parise del “Casalis Cuti”, pertinenza della città di Cosenza, disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 119v-120). 18.09.1630: Fiore Palmeri disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 162v-163). 08.10.1630: Cornelia Rotella, moglie di Antonio Ligname, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 175-175v). 18.10.1630: Donna Aluise de Angilo del casale di “Vici”, pertinenza di Cosenza, ma “habitante” in Policastro, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 179-179v). 19.12.1640: Joannes Barone disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 005-006). 05.06.1643: La vedova Isabella Jerardo disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 032-033). 06.05.1644: Vittoria Ligname, moglie di Vincentio Tuscano, disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 051-052). 24.07.1645: Dianora Scuraci, moglie di Fran.co Campana, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 070v-071). 25.08.1645: Francisco Ceraudo disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 074-075v). 03.09.1645: Feliciana Cavarretta, vedova dell’olim Nicolao Joannes Lamedaglia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 076-076v). 07.08.1646: Claritia Caccurio de Paulo, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 095v-096v). 27.09.1646: Michaele Angelo Curcio disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 102-102v). 27.12.1652: Feliciana Cavarretta, vedova di Nicolao Joannes La Medaglia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 008-009). 01.02.1653: Lucretia Serra “alias La bicenda”, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 011v-012). 08.04.1654: Catharinella Campagna disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 040-040v). 16.09.1654: Minicella Converiati, moglie di Joseph Carvello, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 114v-115). 18.10.1654: Il presbitero Luca Antonio Fanele disponeva che il suo corpo fosse seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 135v-136v). 09.02.1655: Elisabeth Venturino, moglie di Leonardo Tuscano, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 023-024). 08.03.1655: Sancto Poleo, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 058-059). 13.03.1655: Minico Pinello disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 060-061). 25.04.1655: Martio Galluzzi del casale di Albi, al presente “incola” in Policastro, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 069v-070). 25.06.1655: Fabritio Cirisani, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 088v-089v). 14.07.1655: Francisco Tavernise disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 094-095). 01.08.1655: La vedova Elisabeth Tassitano disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 102v-103). 09.08.1655: Maria Dardano, moglie di Alfonsi Galluzzi, delli Albi casale di Taverna, al presente “incola” in Policastro, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 103-104). 13.08.1655: Alfonso Pagano disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 111-111v). 28.08.1655: Francisco Luchetta disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 118v-119). 06.09.1655: Agostina Jerardo, moglie di Blasio Ritia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 131v-132v; foto 343-344). 10.09.1655: Vittoria Polla disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 137-138). 01.10.1655: La vedova Elisabeth Jerardo disponeva di essere seppellita nella chiesa dellla SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 166-167). 29.10.1655: Hyacintho Palmeri disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 178-179).

[lii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 103-103v.

[liii] 20.07.1624: Precedentemente a questa data, il quondam U.J.D. Joannes Agostino de Cola era stato sepolto “in una sua sepultura” nella chiesa della “ss.ma Annonciata nova de q.ta Città” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 040v-054). 29.09.1630: Marina Alemanno, vedova del quondam Petro Alemanno, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” nella “loro sepoltura” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 168v-169). 29.09.1630: Joannes Dom.co Lamanno disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” nella “sua sepoltura” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 169-169v). 29.09.1630: Marcello Alamanno disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” nella “sepoltura loro” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 169v-170). 08.01.1643: Stephano Capotia, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella propria sepoltura (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 026v-027). 10.04.1654: Michaele Curto disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sua sepoltura (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 040v-042). 23.07.1654: La vedova Dominica de Fiore disponeva di essere sepolta nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sua sepoltura (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 067-068). 29.10.1654: Elisabeth Bruno, moglie di Horatio Ritia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sua sepoltura (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 141-142v).

[liv] 12.07.1655: Hyeronimo Poerio, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, “nella sepoltura delli Cansoneri per esser herede di d.a Chiatra, seu sepoltura lasciatali d’Antonina Cansoneri P(at)rona di d.a sepoltura, ed Antonio Cansonieri” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880).

[lv] 14.03.1606. Carmosina Cavarretta disponeva di essere seppellita nella “venerabile chiesa della nuntiata di detta terra nella sepoltura dove si seppelli suo frate” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 15-15v). 20.02.1609: Auleria Apa, moglie di Joannes Thoma Carise, disponeva di essere seppellita “dentro la venerabile chiesa della sant.ma Nuntiata nova eiusdem terre”, dove si trovava sepolto suo fratello (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 160-161). 10.07.1609: Romano Autimari disponeva di essere sepolto “nella chiesa della santiss.ma nuntiata nova di detta terra”, nella sepoltura dove era stata seppellita sua madre (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 164-165v). 18.01.1630: Fabritio Alemanno disponeva di essere sepolto nella “venerabile chiesa della Santissima nuntiata nova”, nella sepoltura del presbitero D. Gio: And.a Alemanno “eius avuncoli” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 078-078v). 24.03.1630: Joannes Zagaria disponeva di essere seppellito nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del quondam Gio: Dom.co Zagaria (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 094-095). 25.11.1630: Caterina Bruna, moglie del magister Luca Cavallo, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del quondam Mutio Bruna suo padre (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 184v-185). 23.04.1643: La vedova Cassandra Foresta disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “di Casa furesta” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 028v-030). 05.05.1643. Vittoria Cavarretta, moglie di Fran.co Catanzaro, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura di Marc’Ant.o Cavarretta. Nel caso però che questi avesse rifutato, disponeva di essere sepolta in quella del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 031-032). 09.07.1643: Diana de Martino, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del quondam Ottavio de Pace (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 034v-035v). 04.02.1644: Livia Caccurio, vedova del quondam Jo: Vincentio Ritia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura dove era sepolto suo marito (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 043-044v). 27.08.1654: Maria Ritia, moglie di Romulo Ettore, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura di suo padre (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 096-097).

[lvi] 06.03.1609: Fran.co Amannito disponeva di essere seppellito nella “venerabile chiesa della s.ma nuntiata la nova di detta terra” nella sepoltura del quondam Antonio Cansoneri. Nel caso però, che si fossero opposti gli eredi di quest’ultimo, disponeva di essere seppellito nel monastero di “santa Maria della spina” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 161-162v). 23.02.1630: Julia Giliverto della città di Catanzaro, commorante in Policastro, vedova del quondam Vitaliano Pollaci, disponeva di essere sepolta nella “venerabile chiesa della santiss.a nuntiata nova”, nella sepoltura del quondam Mattio Fasolo (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 086v-087). 22.07.1654: Il magister Carulo Caccurio “de Magistro Joanne”, disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del R. D. Santo de Pace (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 063v-065). 05.11.1655: Francisco Antonio de Mauro disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura che avrebbe costruito Fabritio Rattà (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 180v-181v).

[lvii] 24.08.1606: Marco Inbriaco dispone di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata la Nova “nella sepoltura del fonte” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 29-30). 25.05.1630. Laura Virardo, vedova del quondam Crucetto Tuscano, disponeva di essere sepolta nella “venerabile chiesa della santiss.a nuntiata nova nella sepoltura de inansi l’altare di sangioseppe” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 113-113v).

[lviii] 27.02.1630: Antonio Lanso di Policastro, disponeva di essere sepolto nella “venerabile chiesa della santiss.a nuntiata nova”, nella sepoltura che avrebbero scelto gli eredi. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 089-090; foto 091-092). 09.06.1641: Fran.co Nigro disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura che avrebbero scelto gli eredi (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 013v-014v). 09.01.1643: Livia Cepale, moglie di Andrea Ritia, disponeva di essere sepolta nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura che avrebbero scelto i suoi eredi (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 027v-028). 07.07.1643: Elina Vecchio, moglie di Jo: Dom.co Schipano, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura che avrebbe scelto suo marito (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 033-034). 10.08.1644: La vedova Vittoria Tuscano disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura che avrebbero scelto gli eredi (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 054v-055v). 08.02.1653: Faustina Zurlo, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura scelta dai suoi eredi (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 019-020). 08.08.1654: La vedova Laurella Aquila disponeva di essere sepolta nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, dove fosse piaciuto al suo erede (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 080-081).

[lix] 25.03.1630: Joannes Paulo Cavarretta disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura dei “Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 095-096). 11.08.1630: Francisco Rizza de Petro, disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura dei confrati (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 131v-132). 23.08.1630: Hijeronimo Santella della città di Napoli, ma commorante in Policastro, disponeva di essere sepolto nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura dei “Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 137v-138). 29.04.1641: Octavio Accetta, disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 009v-010v). 04.09.1642: Joannes Dom.co de Natale disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 023-024). 06.08.1643: Martino Vecchio, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 036-037v). 10.09.1643: Lelio Panevino disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 037v-038v). 28.07.1644: Andrea Campana disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” “nella sepoltura delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 053v-054v). 09.01.1645: Andrea Tronga disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepolura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 061-061v). 01.01.1646: Salvatore Lamanno disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 082-082v). 02.09.1654: Marco Antonio Converiati de Gorio disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura delli “Confrati” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 099v-100v). 09.09.1654: Paulo Ritia disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura “delli Confrati” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 107-108v).

[lx] 29.11.1643: Paulo Venturi, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delli Confrati che l’habbino da sepellire con l’habito” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 040v-041v).

[lxi] 13.05.1604: Laura Carise disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 6-6v). 05.06.1604: Petro Antonio Popaianni disponeva di essere seppellito nel “venerabile chiesa di la nuntiata la nova nella Cappella del santissimo rosario”(ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 19-19v). 05.07.1604: Laura Carise disponeva di essere seppellita “nella chiesa della santiss.ma nuntiata nella Cappella del santissimo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 20-20v). 22.07.1604: Isabella Popaianni disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del s.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 22-22v). 08.08.1604: Dianora de Diano disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata nova nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 33-33v). 19.08.1604: Caterina Berardi dispone di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 43-43v). 02.09.1604: Polita Misiani disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del s.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 47v-48v). 04.09.1604: Polita Misiani disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 49-50v). 18.09.1604: Camilla de Scalise di Cutro, ma abitante in Policastro disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del s.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 52v-53). 06.10.1604: Julia Gerardi disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della santiss.ma Nuntiata nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 58v-59). 14.11.1604: Mariella Cortise disponeva di essere seppellita “nella chiesa della nuntiata la nova nella cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 221v-222). 11.08.1605: Marina Polla disponeva di essere seppellita nella chiesa della “nuntiata nella Capp.la del s.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 236-237). 03.11.1605: Camilla Liveri disponeva di essere seppellita dentro la venerabile chiesa della “nuntiata la nova nella cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 242v-242v). 10.11.1605: Lucretia Glimaldis disponeva di essere seppellita dentro la venerabile chiesa della “nuntiata la nova nella Cappella del santiss.mo rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 243-243v). 03.06.1606: Portia Girardone disponeva di essere seppellita nella cappella del SS.mo Rosario della chiesa della SS.ma Annunziata la Nova (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 21v-22v). 03.02.1630: Caterina Jerardo “seu petua”, vedova del quondam Vangelistri Condo, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 081v-082). 05.11.1630: Vittoria Faraco, moglie di Lupantonio Rotella, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 182-182v). 04.01.1641: Francischa d’Ascanio disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 006v-007v). 08.08.1642: Andrea Scoraci disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 022-023). 03.05.1643: Joannes Dom.co Caccurio de Paulo disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 030-030v). …07.1645: Isabella de Martino disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 068-068v). 07.10.1644: Didaco Montaleone disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 057-057v). 21.10.1645: Giulia Piccolo, moglie di Cesare Franco, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. s.n.). 28.03.1646: Victoria Curto, moglie di Antonio de Vona, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delle Consoro del SS. Rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 087v-088). 23.07.1646: Sancto Misiani disponeva di essere seppellito nella chiesa parrocchiale di San Nicola “delli Greci”, nella sepoltura di “Mastro” Fran.co Converiati. Nel caso invece che questi non avesse voluto, disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 090v-092).

03.08.1646: Feliciana Ritia, moglie di Nutio Carvello, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 092v-093). 05.08.1646: Feliciana Mazzuca, moglie di Joseph Ammannato, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 094v-095v). 24.08.1646: Beatrice Juliano, moglie di Joannes Dom.co Cavallo, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 099v-100v). 04.10.1646: Gasparo Misiano disponeva di essere seppellito a scelta del suo erede, o nella chiesa del monastero della Madonna delle Manche, oppure nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 102v-103v).

01.01.1653: Joannes Dom.co Valente de Salvatore, disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annuziata “nova” nella sepoltura del “SS. Rosario” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 001v-002). 15.05.1653: Jacobo Cavarretta disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 036v-037). 05.09.1653: Paulo Converiati disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 062v-063). 07.09.1653: Cesare Ritia disponeva di essere seppellito nella chiesa dell SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 065-065v). 16.09.1653: Philippo Lamanno disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 073v-074). 19.06.1654: Bartulo Vaccaro disponeva di essere sepolto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 058v-060v). 08.09.1654: Lucretia Pettinato, vedova del quondam Joannes Dom.co Ritia de Mundo, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 103v-104v). 21.09.1654: La vedova Lucretia Cavarretta, disponeva di essere seppellita nella chiesa del SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 118-119v). 28.09.1654: La “Sororis” Dianora Ritia, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario, ovvero dove avessero voluto i suoi eredi (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 127-128).

[lxii] 28.03.1646: Victoria Curto, moglie di Antonio de Vona, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura “delle Consoro del SS. Rosario” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 087v-088).

[lxiii] 07.08.1604: Isabella Grano disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntiata la nova nella Cappella del santiss.mo rosario”, alla quale lasciva una tovaglia di seta (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 44-44v). 26.02.1606: Polita Coiello disponeva di essere seppellita “nella venerabile chiesa della nuntia la nova di detta terra nella Cappella del s.mo rosario”, a cui lascia 5 carlini. Lasciato poi annullato (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 13-14). 06.08.1606: Dianora de Ceraudo disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata. Lasciava carlini 5 alla cappella del SS.mo Rosario, per essere seppellita nella “sepultura di detto rosario” (ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81 ff. 27-28). 30.06.1630: Francischina Cavarretta, moglie di Minico Launetti, disponeva di essere sepolta nella SS.ma Annunziata nella sepoltura del SS.mo Rosario, alla quale lasciava una tovaglia di tela e un “Cambra con pizzilli” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 118-119). 27.07.1641: Lucretia Cavarretta disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario, cui lasciava una tovaglia di “tela accattatizza pinta con punti curti” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 016-017). 21.06.1642: Berardina Vallone disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” nella sepoltura del SS.mo Rosario, alla quale lasciava “uno Cambrà pinto torniato di Pizzi”. Nel caso però, che il procuratore di detta cappella avesse negato il suo consenso, la testatrice disponeva che il suo corpo fosse seppellito dove avrebbe deciso suo marito Gio: Thomaso Gatto. Disponeva che il R. D. Gio: Battista Favari, facesse celebrare sette messe in lode della Vergine dove ad esso piacerà, ed altre 5 “nell’Altare del SS. Rosario di d.ta Chiesia, e che p(er) elemosina habbia d’avere un carlino per ciasched’una”. Disponeva che il R. D. Blasio Capozza facesse celebrare 33 messe “di S. Gregorio” per la sua anima, in una chiesa scelta dal detto reverendo (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 020-021v). 09.01.1645: La vedova Massentia Marsica, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”. Lasciava carlini 5 alla cappella del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 062-062v). 28.11.1654: Lucretia Cavarretta, disponeva di essere seppellita nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario alla quale lasciava una tovaglia (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 153v-155).

[lxiv] 08.08.1642: Andrea Scoraci disponeva di essere seppellito nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario. Disponeva che fossero celebrate 40 messe “nella chiesia del SS. Rosario dico nella Cappella del SS. Rosario”, eretta nella SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 022-023). 17.10.1654: Maria Levato, moglie di Joseph Ammannato, disponeva di essere seppellita nella chiesa dellla SS.ma Annunziata “nova”, nella sepoltura del SS.mo Rosario. Disponeva che “la sua Gonnella de Rascia” fosse venduta e con il ricavato, fossero celebrate tante messe nell’altare maggiore della detta chiesa (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 134v-135).

[lxv] 03.12.1623: Il notaro Fran.co Accetta vendeva al R.do D. Petro Giraldis, procuratore del SS.mo Rosario nel presente anno, un “ortale di Celsi” posto nel territorio di Policastro loco “lo ringo”, precedentemente appartenuto alla quondam Cornelia Strozza, che a detto notaro era stato concesso dalla chiesa di Santa Caterina e dalla cappella del SS.mo Rosario. In relazione a tale concessione, il detto notaro pagava annui carlini 28 a Santa Caterina, ed altrettanti alla cappella del SS.mo Rosario eretta dentro la SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294 ff. 119-120). 30.09.1635: Joannes Thoma Scandale vendeva ad Aloisio Lovallone, un vignale o ortale arborato di “sicomorum” che, negli anni passati, aveva acquistato dalla quondam Isabella Giorlandino, posto nel “tenimento” di Policastro loco detto “lo ringo”, con l’onere di annui ducati 5 e carlini 7, di cui metà alla chiesa di Santa Caterina e metà alla cappella del SS.mo Rosario (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 302, ff. 104v-105).

[lxvi] 21.05.1633: Lucretia Vaccaro, vedova del quondam Fran.co Lavigna, vendeva al presbitero D. Joannes Paulo Mannarino, la “Continentiam terrarrum” posta nel territorio di Policastro loco “la salinara”, per la somma di ducati 28. Si pattuiva che alla scadenza, il denaro della vendita, sarebbe stato consegnato a D. Joannes Andrea Alemanno, procuratore della cappella del SS.mo Rosario “pro riparatione ipsius Cappelle”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 030-030v.

[lxvii] Durante la prima metà del Seicento, è documentato che l’Annunziata “nova”, possedeva un castagneto in loco detto “li marrazzi”, ovvero nella “montagna” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 024-024v e 155-155v; Busta 80 prot. 305, ff. 017v-020), un vignale in loco detto “gorrufi” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 306, ff. 038v-039v), e vignali in loco detto “la Valle” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 044v-046).

[lxviii] ASCZ, Notaio Ignoto Policastro, Busta 81, ff. 37-40. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286 ff. sciolti; Busta 78 prot. 288, ff. 014v-016; Busta 78 prot. 290, ff. 133-134; Busta 79 prot. 293, ff. 043v-044; Busta 79 prot. 294, ff. 027v-028v, 120-121v, 121v-123; Busta 79 prot. 295, ff. 032-033v, 105, 107v-108v; Busta 79 prot. 297, ff. 009-009v, 012v-013v, 036-037v, 125v-126, 137v-138, 178v-179; Busta 79 prot. 299, ff. 068v-069; Busta 79 prot. 300, ff. 081-081v; Busta 80 prot. 301, ff. 130-130v; Busta 80 prot. 302, ff. 128v-129; Busta 80 prot. 303, ff. 030v, 031-031v, 073v-076; Busta 80 prot. 306, ff. 073v-076v; Busta 80 prot. 307, ff. 009v-010v; 037v-038v, 061-061v, 093-094v. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 805, ff. 046-053; ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 080-081, 157v-159; prot. 880, ff. 138-142, 180v-181v.

[lxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 133-134; Busta 79 prot. 297, ff. 012v-013v.

[lxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 293, ff. 043v-044.

[lxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, ff. 120-121v.

[lxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 032-033v.

[lxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 135-135v.

[lxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 009-009v e 012v-013v.

[lxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 092v.

[lxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299 ff. 068v-069.

[lxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300 ff. 081-081v.

[lxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78, prot. 286 ff. Sciolti; Busta 80 prot. 302, ff. 128v-129.

[lxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 030v e 031-031v.

[lxxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 306, ff. 073v-076v.

[lxxxi] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 093v-094v e 096-097.

[lxxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 293, ff. 044-045; Busta 80 prot. 302, ff. 041v-043, 065v-067, 068-068v, 108-109v, 109v-111; Busta 80 prot. 303, ff. 010-011, 017-018.

[lxxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 013v-014v, 034-034v; Busta 79 prot. 299, ff. 076-077; Busta 80 prot. 303, ff. 007-007v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 066-067.

[lxxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro Policastro, Busta 78 prot. 286, ff. 6-6v; Busta 79 prot. 295, ff. 127-128v e 135-135v; Busta 79 prot. 297, ff. 092v e 113v-115; Busta 80 prot. 302, ff. 111-112; Busta 80 prot. 307, ff. 061-061v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 040v-042 e 134v-135.

[lxxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 153-154v.

[lxxxvi] Il 15 settembre 1636, Horatio Gervino della città di Napoli, dovendo conseguire ducati 78 dall’università di Policastro, per commissione del regio tesoriere provinciale, li donava alla chiesa della SS.ma Annunziata Nova e, per essa, al suo procuratore il R. D. Joannes Andria Alemanno, che così li avrebbe potuti esigere dall’università.  ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 116v-117.

[lxxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 286, ff. 223-224v.

[lxxxviii] AASS, 6A.

[lxxxix] AASS, 6A e 26A.

[xc] AASS, 26A. A margine della chiamata relativa al sinodo del 1735, si annotava che non vi era “cappella”.

[xci] AASS, 25A e 26A.

[xcii] AASS, 6A.

[xciii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 149-151.

[xciv] AASS, 4D fasc. 3.

[xcv] Luglio 1644: “De uno, asserti patronatus laicorum, sub invocatione S. Ioannis Baptistae, per ob. Io. Nicolai de Flore, et altero, sub invocatione S. Ioseph, in ecclesia Annuntiationis B.M.V., civ. Policastri, S. Severinae dioc., simplicibus beneficiis, quorum fructum insimul XX duc., vac. per ob. Petri Pedace, a triennio et ultra def., providetur Lucae Ant. Fanello, (sic) pbro oriundo.” Russo F., Regesto VII, 34507.

[xcvi] AASS, 26A.

[xcvii] AASS, 6A, 25A, 26A.

[xcviii] AASS, 6A.

[xcix] AASS, 6A, 25A, 26A.

[c] 10 maggio 1623: “Io. Petro Pedacchio, (sic) canonico S. Severinae, in Utroque seut alteri Iure Doct., providetur de canonicatu S. Andreae, nuncupato praebenda, in ecclesia S. Severinae, vac. per ob. Marci Sancti de Abbatibus, exr. de Ro. Cu. de mense Augusti anni praeteriti def., cum retentione ecclesiae seu cappellae S. Mariae de Flumine, prope et extra muros terrae Roccae Bernardae, S. Severinae dioc., et perpetuae cappellaniae S. Ioseph, in ecclesiae SS. Annuntiatae, terrae Policastri eiusdem dioc.” Russo F., Regesto VI, 28759.

[ci] Nel suo testamento del 25 maggio 1630, Laura Virardo, vedova del quondam Crucetto Tuscano, disponeva di essere sepolta nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova nella sepoltura de inansi l’altare di sangioseppe”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 113-113v.

[cii] Il 12 agosto 1632, Joannes Ant.o Campana vendeva al presbitero D. Joannes Baptista Favari, il “vinealem parvum” di una quartucciata circa, arborato con un “pede” di noce, uno di olivo ed uno di fico, posto nel territorio di Policastro loco “la fiomara”, confine la vigna di Fabritio Piccolo, la possessione di “Santi Joseffi”, appartenuta al presbitero D. Scipione Rizza “Cantoris”, i “vinealia” del detto compratore ed altri fini. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 299, ff. 057v-058.

[ciii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 113v-115.

[civ] Ottobre 1640: “De beneficio simplici in parochiali (sic) ecclesia S. Ioseph, terrae Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus VI duc., vac. per ob. Iosephi (sic) Pedace, de mense Augusti def., providetur Martino Megali, pbro diocesano, praesentato a decennio.” Russo F., Regesto VII, 33673.

[cv] Luglio 1644: “De uno, asserti patronatus laicorum, sub invocatione S. Ioannis Baptistae, per ob. Io. Nicolai de Flore, et altero, sub invocatione S. Ioseph, in ecclesia Annuntiationis B.M.V., civ. Policastri, S. Severinae dioc., simplicibus beneficiis, quorum fructum insimul XX duc., vac. per ob. Petri Pedace, a triennio et ultra def., providetur Lucae Ant. Fanello, (sic) pbro oriundo.” Russo F., Regesto VII, 34507.

[cvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 287, ff. 205-207.

[cvii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 011v-012.

[cviii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 103v-105v.

[cix] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, ff. 127-128v.

[cx] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 031v-035v.

[cxi] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 073v-076.

[cxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 306, ff. 020v-021v.

[cxiii] AASS, 25A.

[cxiv] AASS, 26A.

[cxv] AASS, 26A, 25A.

[cxvi] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290, f. 010v.

[cxvii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, f. 026.

[cxviii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 131-131v.

[cxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 043v-044v.

[cxx] ASCZ, Notaio G.M. Guidacciro, Busta 182 prot. 805, ff. 046-053.

[cxxi] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296, ff. 158-159v.

[cxxii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 289, ff. 042v-043.

[cxxiii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 133v-135.

[cxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 303, ff. 140-142v; Busta 80 prot. 306, ff. 005-008. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 802, ff. 059v-060v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 168-170. AASS, 010D.

[cxxv] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803, ff. 131-133.

[cxxvi] ASCZ, Notaio G.M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 026-031, 126v-132v.

[cxxvii] ASCZ, Notaio G.M. Guidacciro, Busta 182 prot. 806, ff. 042v-045.

[cxxviii] AASS, 010D.

[cxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 188v-189v.

[cxxx] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 117-119v.

[cxxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 304, ff. 113-118v.

[cxxxii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 803 primo, ff. 017v-019.

[cxxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 099v-109v.

[cxxxiv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 068-071v.

[cxxxv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 129v-130v.

[cxxxvi] “… nell’anno trent’otto del caduto centinaio che successe la sua rovina per quel terribil Terrimoto di tutta la Calabria, accaduto à 27 Marzo nella Domenica delle palme à 21 ora.” Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[cxxxvii] “… la notte seguente, verso le cinque in sei ore, da più orribile terremoto furono abbatute alcune Città, Terre e Castelli (…) Policastro città fu abbattuta dalle fondamenta”. Boca G., Luoghi sismici di Calabria, 1981, p. 220.

[cxxxviii] “… che Policastro per essere d’alto sito, ed arenoso, fosse il più danneggiato nella Comarca in trecento cinquanta tre tra Templi, Palaggi, e Case atterrati, secondo il Conto di Luzio Orsi.” Mannarino F. A., cit.

[cxxxix] “… nell’anno mille seicento trent’otto sol nelle fabriche fu daneggiata in più di quaranta mila docati d’oro, il che appare dalla Relazione che nè fà l’Avvocato Fiscale della Regg.a Provinciale Audienza, delegato della Camera per tall’effetto, e da Sua Eccellenza di Napoli; per li quali danni, e rovine furno concesse à Cittadini cinque anni di franchezze …” Mannarino F. A., cit.

[cxl] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 306, ff. 086-089.

[cxli] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 096-097.

[cxlii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 804, ff. 011v-013, 015-016v, 103-105, 144-146, 201-203; Busta 182 prot. 806, ff. 079v-080v.

[cxliii] 1639: “Procurator novae Ecc.ae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, non comparve. 1640: “Procurator novae Ecc.ae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, non comparve. 1642: “Procurator novae Ecc.ae SS.mae Annunciationis cum Tribus libris Cerae”, il presbytero Fran.co Gardo offrì per se stesso. 1643: “Procurator Ecclesiae nove S.mae Annunciationis cum Tribus libris Cerae”, il R.do Salvator Desiderio comparve ed offrì per se stesso. 1644: “Procurator novae Ecc.ae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, lo stesso procuratore offrì per se stesso. 1645: “Procurator novae Ecc.ae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, non comparve. 1646: “Procurator novae Ecc.ae Sanctissimae Annunciationis cum tribus libris cerae”. 1647: “Procurator novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”. 1648: “Proc.r novae Ecclesiae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris Cerae”. 1649: “Procurator novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris Cerae”, non comparve. 1651: “Procurator novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris Cerae”, non comparve. 1653: “Procurator novae Ecc.ae Sanctiss.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, lo stesso Rev.o Salvatore offrì per se stesso. 1655: “Proc.r novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, comparve ed offrì. 1656: “Proc.r novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, comparve ed offrì. 1658: “Proc.r novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, comparve ed offrì tre libre di cera. 1661: “Proc.r SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae” comparve ed offrì d. 0.3.0. 1662: “Procurator novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus lib. cerae”, che sarebbe dovuto comparire, offrendo sei carlini (d. 0.3.0), non comparve. 1663: “Proc.r novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris Cerae”, comparve ed offrì d. 0.3.0. 1664: “Proc.r novae Ecc.ae SS.mae Annunciat.nis cum tribus libris cerae”, comparve e pagò d. 0.3.0. AASS, 26A.

[cxliv] “D. Gio And.a Alemano Proc.re della nova chiesa della Nunciata di Polic.o espone alla R.ma Corte Archivescovale di S.ta S(everi)na che moltiss.mi devoti di d.a Città si sono scritti alla Confraternità del Pio monte de morti che intendano fondare nella sud.a chiesa con il consenso et autorità di essa Corte qual si supp.ca che si compiaccia promovere tal devot.ne con il suo assenso et con la volontà sua reverendi.a che si haverà a gr(ati)a.” AASS, 4D fasc. 3.

[cxlv] AASS, 4D fasc. 3.

[cxlvi] Nel suo testamento del 6 marzo 1646, Blasio Ritia lasciava ducati 3 al Pio Monte dei Morti eretto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova”, di cui carlini 20 per “elemosina” e carlini 10 per tante messe (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 084v-087). Anche Agostina Jerardo, moglie di Blasio Ritia, nel suo testamento del 5 agosto 1646, lasciava al detto monte ducati 3 (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 093-094v). Il 28 gennaio 1647, Catharina Schipano, vedova dell’olim Francisco Cavarretta, donava al Monte dei Morti posto nella chiesa della SS.ma Annunziata “nova” e per esso, a Joseph Ritia “hodierno Priore Pii Montis Mortuorum Venerabilis Ecclesiae Sanctissime Annunciationis novae”, la domus terranea posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della chiesa parrocchiale di San Nicola “Grecorum” (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 806, ff. 016-017). Nel suo testamento del 4 agosto 1654, Michaele de Aquila lasciava ducati 3 al Pio Monte dei Morti eretto dentro la chiesa della SS.ma Annunziata “nova” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 077v-079).

[cxlvii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 066-067.

[cxlviii] AASS, 4D fasc. 3.

[cxlix] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 093v-094v.

[cl] AASS, 26A.

[cli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 088v-089.

[clii] AASS, 4D fasc. 3.

[cliii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 038v-039v.

[cliv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 878, ff. 043-047v.

[clv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 002v-003.

[clvi] AASS 035A.

[clvii] AASS, 4D fasc. 3.

[clviii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 085v-088v.

[clix] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 156v-158.

[clx] AASS, 29A.

[clxi] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 119-121.

[clxii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 124-126.

[clxiii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 126-128.

[clxiv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 153v-156.

[clxv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 168-170.

[clxvi] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 195v-197v.

[clxvii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 204-205v.

[clxviii] AASS, 29A.

[clxix] AASS, 25A e 26A.

[clxx] AASS, 37 A.

[clxxi] AASS, 26A.

[clxxii] AASS, 4D fasc. 3.

[clxxiii] AASS, 4D fasc. 3.

[clxxiv] AASS, 24B, fasc. 1.

[clxxv] AASS, 37A.

[clxxvi] “Praeter Eccl(e)sias p(raedi)ctas Parochiales Curatas extant aliae Ecc.ae sex, inter quas Ecc.a sub titulo SS.mae Annunciationis magnificis, et valde amplis aedificiis constructa cui annexa est Confraternitas Laicalis.” ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1675.

[clxxvii] Dicembre 1673: De s.c. ecclesia S. Iacobi terrae Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 12 duc., de iurepatronatus laicorum, vac. per ob. Philippi Dulmese, (sic) providetur Dominico Alessandri clerico.” Russo F., Regesto VIII, 42987.

[clxxviii] Marzo 1679: “De beneficio simplici seu s.c. cappellania ad altare S. Iacobi, in ecclesia SS. Annuntiatae, oppidi Policastri, S. Severinae dioc., de iurepatronatus laicorum, vac. per ob. Philippi Dolmete, a 4 annis def., providetur Vincentio de Alexandro, pbro.” Russo F., Regesto VIII, 44210.

[clxxix] AASS, 011D fasc. 6.

[clxxx] AASS, 29A.

[clxxxi] “È questa chiesa appunto situata dentro il Circulo della stessa Parocchia immediatamente Posta à mezzo giorno, à differenza dell’altra chiesa dell’Annunziata detta di Fuora, che diroccatasi l’anni passati proprio nel fine del caduto secolo con tutte le sue pertinenze per ordini di Monsig.r Berlingieri è stata mutata di sito, e dà sotto le mura della Città in bocca alla Porta della Città è stata trasportata nell’antica di Santa Maria delli Francesi, che smantellata tutta la vecchia, con nuovo è più bel modello refabricatasi da fondamenti, apparisce più vasta.” Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723. La “SS.ma Nunz.ta di Fuori oggi chiesa di S. Fran.co di Paula” (1742). ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991, f. 139.

[clxxxii] In una fede del 10 ottobre 1742, leggiamo che, il 4 maggio 1724, il Rev.o D. Vincenzo Grossi aveva comprato da Marzio Cerantonio una continenza di celsi neri posta nel luogo detto “sotto le rupi di d.ta Città di Policastro vicino la Chiesa diruta della SS.ma Annunciata di fuori” (AASS, 24B, fasc. 1). Nel 1742, il mastro sartore Nicola Rotella di anni 63, possedeva un vignale di ¼ di moggio, alberato con gelsi neri, “nella Nunz.ta di fuora”, confinante con il vignale di Salvatore Licciardo (ASN, Catasto cit., ff. 47 e 197v), mentre il massaro Francesco Lepera, possedeva un vignale “nell’Ann.ta di fuori” (ASN, Catasto cit., f. 21). In un atto del 28 settembre 1743, che elenca i beni appartenenti alla “Cappellania Manuale” sotto il titolo di S.to Vincenzo Ferreri, si menziona: “un V(i)g(na)le alborato di Celzi neri sotto le Rupi di q.ta Città nel luogo detto l’Annunciata di fuori” (AASS, 24B, fasc. 1).

[clxxxiii] Mannarino F. A., cit.

[clxxxiv] AASS, 011D fasc. 6.

[clxxxv] AASS, 25A.

[clxxxvi] “Ecclesiae, sive Oratorium SS.mi Rosarii regitur per R(everen)dum D. Thoma Antonium Scandale. (…) Confraternitas SS.mi Rosarii erecta in Suprad.o Oratorio cum suis Sacris insignibus et ministris.”. ASV, Rel. Lim. Santa Severina, 1765.

[clxxxvii] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991, f. 76.

[clxxxviii] ASN, Catasto cit., ff. 68-68v.

[clxxxix] AASS, 24B, fasc. 1.

[cxc] ASN, Catasto cit., f. 71v.

[cxci] ASN, Catasto cit., f. 72.

[cxcii] ASN, Catasto cit., f. 73.

[cxciii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 202-203 e nota n. 1.

[cxciv] “Parochialis Ecclesia S(an)cti Nicolai Graecorum regitur per R(everen)dum D. Nicolaum de Martino eius Parochum curatum; habet suum fontem Baptismalem cum Sacris Oleis, et praeter Altare majus alterum tantum eidem Ecclesiae adnexum, Eucharistiae vero Specias asservantur in Ecclesia B. M. V.s ab Angelo Annunciatae quae adnexa reperitur supradictae Parochiali, et magis ampla, et apta videtur Populo, cui in ea praeter Baptismi Sacramentum caetera administrantur, et Parochialia exercitia persolvuntur, et quinque habet Altaria praeter majus.” ASV, Santa Severina, Rel. Lim. 1765.

[cxcv] “Mons pietatis pro honestis puellis etiam in Matrimonium collocandis, et praecipue Sanguine propinquioribus q.m R.do D. Joanni Jacobo de Aquila fundatori, regitur per Proc(urato)rem à me eligendum.” ASV, Rel Lim. Santa Severina, 1765.

[cxcvi] “Collat.e del Semplice Beneficio di S. Giacomo della fam.a de Aquila in persona del Can.e D. Cesare Rocca.” AASS, 72A.

[cxcvii] AASS, 24B fasc. 3.

[cxcviii] Vivenzio G., Istoria e Teoria de Tremuoti in generale ed in particolare di quelli della Calabria e di Messina del 1783, Napoli 1783, p. 326.

[cxcix] “Policastro, che fu in gran parte distrutta dal temuoto del dì 28 e il restante fu fracassato, ma non morì alcun cittadino”. De Leone A., Giornale e Notizie dè Tremuoti accaduti l’anno 1783 nella provincia di Catanzaro, 1783.

[cc] AASS, 24B fasc. 3.

[cci] ASCZ, Cassa Sacra, Segreteria Pagana, Busta 50, fascicolo 784. I censi bullari ed enfiteutici, dovuti alla chiesa della SS.ma Annunziata di Policastro, risultavano: D. Gio: Battista Portiglia per canone sul vignale “Pantano”, annui d. 8.00, D. Michelangelo Ferrari per canone sopra le terre dette “S. Ligorio”, annui d. 7.50, Cesare Curto Mantisto per canone sul castagneto detto “La Fossa”, annui d. 1.50, D. Carlo Tronca per canone sulle terre dette “Manconise”, annui d. 0.80, D. Gaetano Maratea per capitale di d. 86.70, d. 5.00, D. Nicola Scalise per capitale di d. 30.50, d. 2.44, D. Gio: Gregorio Tronca per capitale di d. 48, d. 2.40, D. Pietro Carvello per capitale di d. 9, d. 0.45. AASS, 24B fasc. 3. La particolare importanza dell’Annunziata come ente finanziario, nel panorama dei luoghi pii del “Distretto di Policastro (comuni di Policastro e Mesoraca)”, è messa in evidenza dal Placanica: “… mette qui conto ricordare la Chiesa dell’Annunziata di Policastro che vantava 14 censi bollari per duc. 38.14 (capitale presunto duc. 762.80 al 5 per cento), tra i quali ne troviamo uno dovuto dal ricco catanzarese Gioacchino Ferrari (capitale di duc. 240).” Placanica A., Il Patrimonio Ecclesiastico Calabrese nell’Età Moderna, Vol. I, 1972, p. 351. Tra i censi enfiteutici e bullari, assegnati dalla Cassa Sacra in conto della congrua, al parroco di Santa Maria Maggiore di Policastro, troviamo anche quelli che alcuni particolari, pagavano all’oratorio del SS.mo Rosario: Salvatore Anania per annuo canone sopra il vignale detto “Paterniso” (d. 1.60), Vito Rizza sopra il vignale detto “la Grossi” (d. 00.50), Andrea Catanzaro sopra il vignale detto “Paterniso” (d. 3.00), Fran.co Rizza per capitale di d. 40 (d. 3.20), Dom.co Cavarretta per capitale di d. 12.00 (d. 01.43), Francesco Castagnino per capitale di d. 15.00 (d. 00.90), D. Gregorio Poerio per capitale di d. 100 (d. 6.00) e Fran.co Ant.o Poerio per capitale di d. 10 (d. 00.70), per il totale di una rendita di ducati 59.05. AASS, 24B fasc. 3.

[ccii] ASCZ, Cassa Sacra, Atti Vari 308/3.

[cciii] I “Censi assegnati al parroco della SS.ma Annunciata”, risultavano: dal rettore della “Cappella di San Giacomo Ap(osto)lo” d. 3.20, dal procuratore della cappella suddetta d. 3.00, dal procuratore del Monte Frumentario d. 6.75, dal Sig. D. Michele Ferrari d. 7.90, dal Sig. D. Carlo Tronca d. 0.80, dal Sig. D. Gio: Portiglia d. 2.00, dagli eredi di Pasquale Parise d. 5.00, dagli eredi di D. Nicolò Scalise d. 2.44, da Santa Parise d. 2.00, da Carmine Toscano per Leonardo Mancino d. 3.10, dagli eredi di Francesco Valente d. 0.45, dagli eredi di Cesare Curto d. 1.50, dal Sig. Giangregorio Tronca d. 2.40, da Gio: Paolo e Antonio Rizza “Zingarello” d. 0.72, da Giuseppello Greco d. 1.98, dagli eredi di Bruno Carvello d. 0.70, dagli eredi del Sig. Gio: Battista Carvelli d. 0.63, da Vito Carvelli di Luca d. 1.12 ½,  da Rosario Carvelli di Nicola d. 1.00, “Dal n.o R.do D. Pietro Par.co Carvelli” d. 0.45. AASS, 24B fasc. 3.

[cciv] AASS, 086A.

[ccv] Febbraio 1791. De parochiali Annuntiationis B.M.V. et S. Nicolai Graecorum oppidi Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 24 duc., vac. per ob. Nicolai de Martino, de mense Augusti praeteriti anni def., providetur Francisco Pollano, pbro, in concursu approbato.”. Russo F., Regesto XII, 68273. Ottobre 1795: “De parochiali SS. Annuntiatae e S. Nicolai oppidi Policastri, S. Severinae dioc., cuius fructus 24 duc., vac. per dimissionem Francisci Pullano, in manibus Ordinarii de mense iunii factam et admissam, providetur Petro Covelli (sic), pbro oriundo 49 an., Theol. Moralis Prof., concionatori oeconomo curato, in concursu, unico comparente, approbato et a Vicario Capitulari commendato.”. Russo F., Regesto XIII, 68876.

[ccvi] AASS, 24B fasc. 3 e 86A.

[ccvii] AASS, 24B fasc. 3.

[ccviii] AASS, 24B fasc. 3.

[ccix] AASS, 72A.

[ccx] AASS, 092A.

[ccxi] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 257.

[ccxii] AASS, 24B fasc. 2.

[ccxiii] AASS, 24B fasc. 2.

[ccxiv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 247-248.

[ccxv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 251-252.

 

[ccxvi] “S.S. Annunziata. Il suo territorio è compreso nella parte sud-est, partendo dal ponte di ferro sul Soleo a salire lungo la rotabile Cutro tutta la destra, o di sopra sino al territorio di Mesoraca da una parte, e da questa andando verso sopra si estende fino al ponte della S. Spina.”  AASS, 034B.

[ccxvii] AASS, 34B.

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Gli abitati scomparsi di Paterno e Neto

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Scandale corazzo

Resti di colonne d’età romana in località Corazzo di Scandale (KR).

Il Piccinato, illustrando il passaggio dalla città romana a quella medievale, attribuisce le trasformazioni avvenute alla “pressione delle invasioni barbariche”, quando “le città di fondazione romana in condizioni di essere difese subiscono una contrazione edilizia con restrizione della cinta muraria”, mentre quelle “indifese o indifendibili”, “vengono addirittura abbandonate per la fondazione di nuovi centri in posizioni più sicure, difese naturalmente”.[i]

Tali effetti sulla struttura urbana del territorio, probabilmente leggibili anche in prospettive diverse, rispetto a quella legata alle sole esigenze difensive, trovano riscontro nel Crotonese, dove diversi centri antichi furono abbandonati in età altomedievale per dare origine a nuovi abitati.

 

L’incastellamento

Al tempo della costituzione della metropolia di Reggio, “che esisteva nei primi del secolo IX”,[ii] sappiamo che tutte le sedi vescovili della Calabria, erano ancora rappresentate dai principali centri abitati dell’età classica.[iii] Nel corso dello stesso secolo, però, cominciamo ad assistere all’erezione di nuovi vescovati, in luogo di quelli antichi appartenuti ad abitati ormai abbandonati e scomparsi. Compaiono così Nicastro e Amantea al posto di Tempsa, e Rossano che ereditò, in parte, il ruolo di Thurii.

L’affermazione di nuovi centri in questa fase, emersi al posto di altri attivi in precedenza, appare particolarmente evidente nel Crotonese dove, al tempo di Leone VI il Filosofo (886-911), risulta documentata l’erezione del nuovo vescovato di “Santa Severina di Calabria” (Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας), istituito come nuova metropolia in una vasta area ai confini della Sila, cui furono sottoposti i quattro nuovi vescovati di Umbriatico (ὁ Eὐρυάτων), Cerenzia (ὁ ’Aϰερεντίας), Belcastro (ὁ Kαλλιπόλεως) e Isola ([ὁ] τῶν ’Aησύλων).[iv]

Tra questi non compare più “Paternum” che, in precedenza, troviamo invece tra le sedi vescovili della regione. L’abitato risulta menzionato già in età romana, tra le stationes elencate dall’“Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti” (sec. III-IV d.C.), lungo il tragitto tra Capua e Reggio (“ab Equo tutico per Roscianum Regio”), tra Rossano e Neto (“Meto”),[v] statio posta verosimilmente, in prossimità dell’omonimo fiume che, analogamente a Paterno, scomparve durante il periodo altomedievale.

 

Una via interna

L’importanza delle aree interne del Crotonese poste a ridosso della Sila ed estese verso il Rossanese, è messa in luce durante il periodo romano, dall’esistenza di una viabilità locale inserita nella maglia stradale principale che attraversava la penisola.

Troviamo infatti che, in epoca imperiale, accanto ad un percorso costiero che passava per Thurii, Petelia, Crotone, Lacinio, Annibali e Squillace, documentato dalla Tabula Peutingeriana, (la copia medievale di un originale romano databile al 300 d.C. ca.) ed dalle più tarde opere geografiche dell’Anonimo di Ravenna (sec. VII) e di Guidone (verso gli inizi del sec. XII), esisteva anche un importante percorso interno documentato dall’Itinerario Antonino che, proveniente da Capua, giungeva a Thurii e, transitando per Rossano, attraversava il territorio Crotonese, escludendo tutte le località costiere prima menzionate, fino a ritornare sulla costa a Tacina, proseguendo poi per Squillace, fino a Reggio.

Secondo quanto riporta questa fonte, da “Roscianum”, statio posta a XII miglia (17,8 Km) da “Turios”, dopo aver percorso XXVII miglia (40 Km), si giungeva a “Paternum”, distante XXXII miglia (47,4 Km) da “Meto”. Da quest’ultima bisognava percorrere XXIV miglia (35,5 Km) per raggiungere “Tacina” che, a sua volta, era distante XXII miglia (32,5 Km) da “Scylacio”.[vi] Come riporta la Tabula Peutingeriana, da “Scilacio” era possibile attraversare l’istmo di Catanzaro, percorrendo le XXX miglia (44,4 km) necessarie per raggiungere il Tirreno.

Queste distanze riferite dall’Itinerario Antonino trovano un preciso riscontro con quelle esistenti tra Thurii e Rossano e tra Tacina e Squillace. Attraverso una misurazione in linea d’aria, rileviamo infatti, che l’attuale città di Rossano dista circa 20 Km dall’area archeologica di Sibari/Thurii, mentre circa 32 Km separano l’area archeologica dove si conservano le rovine di Squillace, sita in località Roccelletta di Borgia (CZ), dalla località Timpone San Luca, attualmente in territorio di Cutro (KR) dove, in posizione dominante la foce del fiume, è stato individuato l’abitato di Tacina.[vii]

Rispetto all’identificazione di questi quattro centri, agevolata dalla loro persistenza in età medievale, dalla conservazione di vestigia e di una consistente tradizione tramandata dalle fonti antiche, più complesso risulta pervenire all’identificazione degli abitati di Paterno e Neto, che non raggiunsero l’età bassomedievale e che, in relazione alla loro struttura pre-urbana ed alle loro dimensioni ridotte, comuni alla gran parte degli abitati posti tra Crotone e Thurii durante l’epoca romana,[viii] non ci hanno lasciato tracce altrettanto evidenti.

 

Un’antica realtà

Rimane controverso stabilire se l’esistenza di “Paternum” risulti documentata precedentemente all’epoca romana. La fondazione di “Pathron”, assieme a quelle di Crotone e di Sibari (709-708 a.C.), è riferita nella versione armena del Cronicon di Eusebio, al tempo della diciottesima olimpiade, quando: “Croton condita, et Pathron, et Sybaris”,[ix] mentre, nella versione di Girolamo, troviamo invece: “Croton, et Parion et Sybaris conditae sunt”.[x] L’epitome di Dionisio Telmaharensis dello stesso Cronicon, riferisce: “Anno MCCCVII urbes Croton et Parion et Sybaris et Egbatana conditae sunt”.[xi]

In età medievale, il toponimo compare in relazione al potente monastero greco della “intemeratae Dei Matris et Novae Hodegetriae Patris”,[xii] fondato presso Rossano al tempo della dominazione normanna, quando risulta associato al nuovo titolo di questo monastero dedicato alla Vergine, testimoniando così, la sua origine precedente alla fase di formazione dei territorii in epoca feudale.

Rispetto a questi pochi accenni, valutabili con difficoltà, le prime certezze circa l’esistenza di Paterno cominciano ad essere documentate solo attraverso l’Itinerario Antonino che, come abbiamo visto, ne localizza la presenza tra l’abitato di Rossano ed il fiume Neto. All’interno di quest’area, attualmente, il toponimo “Paterno” compare in territorio di Umbriatico a breve distanza dal centro urbano, sulle carte a diversa scala dell’Istituto Geografico Militare.[xiii] Un luogo o territorio chiamato “paterno”, posto in territorio della città di Umbriatico, risulta anche da un atto del 2 agosto 1564 scritto dal notaro Cesare Cadea di Cirò, quando Lucretia Pastore, moglie di Nardo Cosentino, cedette a Joannes Dom.co de Paula, il territorio di “paterni” posto “in territorio et p(er)tinentiis um.ci”, ovvero la possessione “positam in territorio civi.tis um.ci loco detto paterno”.[xiv]

Sembrano confermare questi elementi che riconducono l’esistenza di Paterno alle vicinanze di Umbriatico, anche alcune considerazioni che possiamo esprimere circa i principali percorsi viari esistenti in quest’area in età medievale, che dimostrano di ricalcare in parte, quelli già in uso al tempo dei Romani.

Un importante itinerario interno passante per Umbriatico, infatti, si segnala ancora verso la metà del secolo XII, quando il geografo musulmano Edrisi descrive la viabilità principale di questa parte della Calabria. La sua descrizione consente di ricavare che, da Rossano (rûsyânû), seguendo un percorso litoraneo (“la marittima”), si poteva raggiungere Cirò (’.b.shrû), mentre, dirigendo per l’interno e passando per Pietrapaola (bât.r bawl), si raggiungeva Umbriatico (’.brîâtiqû).[xv] Considerando questo percorso interno per Pietrapaola passante per Castiglione di Paludi, luogo posto a “circa sessanta stadi” da Rossano secondo Procopio di Cesarea, in cui, ancora al tempo della guerra greco-gotica (535-553 d.C.), esisteva un “fortissimo castello” (φρούριον) costruito dagli “antichi Romani”,[xvi] possiamo rilevare che Umbriatico dista attualmente in linea d’aria, circa 36 Km da Rossano, che corrispondono all’incirca, alle XXVII miglia (40 Km) segnate nell’Itinerario Antonino tra Rossano e Paterno.

castiglione di paludi

Ruderi di fortificazioni d’epoca romana in località Castiglione di Paludi (da Wikipedia).

 

Il peso della tradizione

Rispetto a questi indizi che sembrano confermare l’origine di Umbriatico dalla più antica Paterno, cui dona sostegno il fatto che entrambe risultano essere state vescovati durante il periodo altomedievale, troviamo in seguito, invece, una tradizione tendente a riconoscere Cirò quale sede vescovile originaria di questa diocesi. Una tradizione basata su di una ricostruzione cinquecentesca, su cui però, pesava il fatto che, già dagli inizi del Trecento, Cirò era divenuta il luogo abituale di residenza del vescovo di Umbriatico, a causa della decadenza della città devastata assieme ai suoi casali, durante la guerra del Vespro ed impoverita dalle vicende che ne seguirono.

Favorirono questo tipo di ricostruzione le poche notizie esistenti circa il vescovo di Paterno, la cesura esistente durante la fase d’Incastellamento, e l’antico spopolamento di Alichia agli inizi della dominazione normanna,[xvii] abitato medievale che sorgeva presso l’attuale Punta Alice, le cui vicende furono spesso erroneamente associate a quelle dell’antica Crimisa (Κρίμισσα), la mitica fondazione di Filottete indicata da Strabone sul promontorio omonimo,[xviii] dove nel Cinquecento si riconosceva la “cremissam regionem dictam lo capo de lalice”.[xix]

L’esistenza del vescovato di Paterno è documentata, unicamente, in relazione alle vicende del suo vescovo Abundantio che, in occasione del sinodo romano dell’anno 680, fu designato tra i legati papali a partecipare al concilio costantinopolitano. Una testimonianza che, pur controversa, ci consente, comunque, di poter documentare la persistenza dell’abitato romano, durante questi primi secoli del periodo altomedievale. Egli, infatti, risulta menzionato come “Abundantium Paternensem” nel Liber Pontificalis[xx] e negli atti del concilio costantinopolitano, dove lo troviamo menzionato come “Abundantio episcopo civitatis Paternensis”[xxi], ovvero della “civitatis Paterni”[xxii] o “Paternae”[xxiii] mentre, negli atti del sinodo romano che si trovano inseriti in quelli del sesto concilio svoltosi a Costantinopoli nel 681, lo troviamo sottoscritto quale vescovo di Tempsa.[xxiv]

Diversi secoli dopo il suo abbandono, le vicende del vescovato di Paterno furono ricostruite di sana pianta da Gabriele Barrio che, alla metà del Cinquecento, elaborò una tradizione non suffragata da prove documentali, che legava le sue vicende a quelle del vescovato di Umbriatico, la cui esistenza comincia ad essere documentata verso la fine del secolo IX,[xxv] ponendole in relazione a quelle di Cirò e riconducendo ad essa, le notizie circa l’esistenza di mitiche città addirittura preesistenti alla venuta dei Greci, quali Crimissa e Brystacia.

Sulla base dell’assonanza di quest’ultimo nome con quello di Umbriatico, egli affermava così che la sede vescovile di Umbriatico, sorta sull’antica Brystacia, città degli Enotri menzionata da Stefano Bizantino,[xxvi] era stata traslata dalla città di Paterno che, a sua volta, anticamente, era stata detta Crimissa ed attualmente era divenuta Cirò.[xxvii]

Nei primi anni del Seicento, questa ricostruzione prodotta dal Barrio fu accolta acriticamente dal Marafioti: “E’ stata questa città Chrimissa, ch’oggi è chiamata Ziro sede Vescovale, ma sotto altro nome, perche dianzi, che si chiamasse Ziro, doppo ch’à lei fù mutato’l nome di Chrimissa, è stata chiamata Paterno, che già sotto questo nome si vede notata nell’itinerario d’Antonino Pio.”.[xxviii] Il Marafioti ricordava anche la figura di “Abbondantio” o “Abondantio Vescovo di Paterno”, accanto a quella di “Abbondantio Vescovo Tempsano”.[xxix]

Anche il Fiore, verso la fine del Seicento, descrivendo Umbriatico, affermava: “Ne’ secoli della Grazia divenne sede vescovale, trasportatavi dal vicino Cirò, altre volte Paterno, onde ne ricevè molto splendore, …”[xxx], convenendo sul fatto che Cirò: “Altre volte fu sede vescovale, con nome di Paterno, trasferita poi nel vicino Umbriatico; e questo ne’ secoli più primi della Grazia”.[xxxi]

A proposito della cattedrale di Umbriatico, dove attualmente permangono alcune colonne di spoglio provenienti da qualche edificio dell’età classica, egli argomentava: “la qui notata cattedrale è la medesima che la già fu nell’antico Paterno, oggidì Cirò o Zirò o Ipsicrò; onde suoi furono Abbondanzo, vescovo e legato al Concilio Costantinopolitano sotto papa Agatone”, “Ma quando fu fondata in Paterno, e quando trasferita in Umbriatico, non abbiamo in alcuno scrittore”, “e se le conghietture hanno qui luogo, io aggiongerei che rimasta ella rovinata fra l’universali saraceniche scorrerie del 900, risorta poscia sotto al regnante de’ Normanni, fu qui trasferita”.[xxxii]

Relativamente all’epoca del trasferimento della cattedrale da Paterno ad Umbriatico, in assenza di notizie certe, una relazione seicentesca attibuiva invece anacronisticamente questo atto all’opera del papa Sisto III (432-440), individuandolo al tempo dell’imperatore Valentiano III (425-455),[xxxiii] senza poter fornire comunque alcuna prova di ciò.

umbriatico cattedrale

Colonne di spoglio esistenti nella c.d. “Cripta” della cattedrale di Umbriatico (da ilcirotano.it).

 

Un vescovo fuori sede

Le vicende dell’antica Paterno, che non sono mai menzionate nelle relazioni dei vescovi della diocesi di Cerenzia-Cariati, trovarono invece posto nella relazione vescovile del 1684, prodotta dal presule di Umbriatico Giovanni Battista Ponzio (1682-1688).

Essendo fondato sulla base della ricostruzione operata dal Barrio, che legavano le antiche vicende ben distinte, di Crimissa e Paterno a quelle più recenti riguardanti Cirò ed Umbriatico, il racconto del vescovo Ponzio risulta però poco utile al fine di pervenire ad una ricostruzione storica credibile, anche se ci fornisce qualche elemento di comprensione sulle ragioni eminentemente pratiche che lo motivarono.

Tale racconto, infatti, tradisce la sua intenzione di sposare una tradizione capace di giustificare la sua residenza a Cirò che, invece, cotravveniva ai precetti stringenti del concilio tridentino, secondo cui tutti i vescovi dovevano risiedere inderogabilmente nella loro sede. Ricostruendo le vicende dell’oppido di Cirò sulla base di quanto aveva esposto il suo predecessore Agostino de Angelis (1667-1682),[xxxiv] il vescovo Ponzio affermava dunque che, ottocento anni prima, Cirò si trovava “in Promontorio Alicinio” ed era detta “Paternum”, il cui vescovo “Abundantius” era intervenuto al sesto sinodo costantinopolitano nel 680. A seguito però, delle continue incursioni dei Turchi, i suoi stessi abitanti avevano dato alle fiamme l’antica città e si erano ritirati sul monte “qui nomen habet Ipsigrò”. Da questo fatto la città aveva preso il nome di “Cremissa”. Per porre al sicuro le cose sacre, anche il suo vescovo si era ritirato nel luogo remoto di Umbriatico.[xxxv]

Sulla base di quanto era stato scritto sull’argomento fino a quel momento, agli inizi del Settecento anche l’Ughelli infine affermava: “Umbriaticum (olim Brystacia) mediterranea est civitas Calabriae citerioris, mille à mari passibus distans, condita ab Oenotriis, ut ait Stephanus, …”, sottolineando che: “Umbriaticensis Episcopatus mentionem facit Abbas Joachimus, licet mendose legatur Antiblacensis : fuit autem Episcopalis sedes huc translata ex Paterno urbe.”.[xxxvi]

 

Un toponimo antico

Rispetto al caso dell’abitato di Paterno, per il quale risulta incerto ricondurre il suo toponimo ad una realtà documentata in epoca precedente a quella romana, per quello di Neto, invece, esiste una tradizione più solida, che collega le vicende avvenute presso questo fiume, a fatti addirittura precedenti alla fondazione della città di Crotone.

Licofrone, poeta vissuto nel sec. III a.C., ma la cui composizione erudita contiene numerosi riferimenti remoti, ricorda il “Nieto” (Nαύαιϑος) relativamente al luogo dove sarebbe esisitita la tomba di Filottete,[xxxvii] l’eroe greco a cui Strabone (sec. I a.C. – I d.C.), citando Apollodoro, attribuiva la realizzazione di un insediamento sul promontorio di “Crimisa” (Κρίμισσα) e la fondazione della città di “Chone”, al tempo in cui era giunto nel territorio di Crotone.[xxxviii]

In relazione a tale antichità, ancora Strabone riferisce lo sbarco dei coloni Achei reduci dalla guerra di Troia alla foce del “Neeto” (Nέαιϑος) che, secondo il suo racconto, avrebbe così assunto questo nome che, in greco, starebbe a significare “luogo delle navi bruciate”, in relazione all’episodio dell’incendio delle navi dei coloni, da parte delle loro donne Troiane che li seguivano.[xxxix] Episodio ricordato ancora verso gl’inizi del sec. XII, nell’Etymologicum magnum.[xl]

Come fa notare Mario Napoli, questa interpretazione di Strabone lascia molti dubbi, perché appare linguisticamente forzata, evidenziando così lo scopo dell’autore di trovare a tutti i costi una origine greca al nome del fiume.[xli] Ciò fa ritenere che tale origine sia diversa, come è stato ipotizzato anche in altri casi,[xlii] potendo forse trovare una correlazione con Nethu-ns, da cui deriva il nome latino di Poseidone (Nettuno). Una interpretazione che ci consente di legare le caratteristiche di questa divinità, attraverso la quale i Greci usavano rappresentare la sacralità della vita marina, dei fiumi e dei promontori protesi sul mare, alla natura dell’area del nostro fiume, che fungeva da luogo di attracco e da via principale di penetrazione per l’interno.

scandale corazzo

Marmo di epoca romana esistente nella chiesa di S. Giuseppe a Corazzo di Scandale (KR).

Una statio fluviale

Anche se rimane incerta l’identificazione dell’abitato romano di Neto, attraverso l’attribuzione sicura di questo toponimo a ritrovamenti archeologici chiaramente riferibili ad una realtà urbana (pur non mancando i resti in diversi luoghi della media valle di questo fiume), i riferimenti contenuti nell’Itinerario Antonino che si legano alla sua natura di statio fluviale, ci permettono comunque, di circoscriverne l’esistenza ai principali luoghi di attraversamento del suo corso che, in epoca antica, assumeva le funzioni di confine naturale, costituendo il principale sbarramento tra la parte settentrionale e quella meridionale della regione lungo il versante ionico.

In questa direzione possiamo rilevare, in primo luogo, che la distanza di XXXII miglia (47,4 Km) segnata nell’Itinerario Antonino, si dimostra oltremodo eccessiva per individuare un qualsiasi punto di attraversamento del fiume Neto posto ad una tale distanza da Umbriatico/Paterno, cosa che potrebbe comunque trovare una giustificazione, nella probabile corruzione del passo in questione, considerato che alcuni codici, riportano tra Paterno e Neto una distanza inferiore (XXII miglia).[xliii]

Considerata poi l’ubicazione degli attraversamenti più importanti posti sul fiume Neto in età medievale, e l’articolazione della viabilità principale che li collegava a quelli sul fiume Tacina in questo periodo, possiamo risalire al percorso del tratto stradale che, in età romana, collegava la statio di Neto a quella di Tacina.

Quest’ultimo attraversava il fiume Neto presso la salina, vicino al luogo dove ancora oggi esiste il “p.te di Neto” e, passando per la località di “Mulerà Vecchio”, discendeva la valle del Tacina lungo la sponda sinistra del fiume fino alla sua foce, dove si trovava la statio omonima, percorrendo la strada che, agli inizi del Seicento, era detta “la Chiubica de Niffi” e passava “in piedi di d.a Valle, per la q.ale via si và in Cosenza, e per tutto il marchesato di Cotrone, et in altri luoghi”.[xliv]

Relativamente a questo percorso, che risulta di circa 27 km, rispetto alle XXIV miglia (35,5 Km) segnate nell’Itinerario Antonino, il passaggio di un’antica strada principale nel luogo dove corre attualmente il confine tra i comuni di Cotronei e Roccabernarda, è documentata dalla reintegra del feudo di Policastro fatta ad Andrea Carrafa nel 1520, in cui troviamo la località detta “Ponte veteri” al confine orientale del “Feudum Crotoneorum”.[xlv]

cartina calabria centrale

Ricostruzione del percorso viario tra Rossano e Squillace segnato nell’Itineario Antonino.

 

Il tenimento di Neto

Le fonti documentarie medievali in nostro possesso, non menzionano mai l’abitato di Neto.[xlvi] Di esso non parla il geografo musulmano Edrisi che, alla metà del sec. XII, descrive gli abitati esistenti lungo il percorso del fiume (nahr nîṭû), dalle pendici della Sila fino alla sua foce,[xlvii] dove riferisce l’esistenza di un porto “che è al sicuro dai tre venti”.[xlviii]

Tracce riferibili alla sua esistenza passata, si rinvengono invece in un atto dell’ottobre 1209, che documenta l’esistenza della chiesa di “S. Martini de Neto, quae in tenimenti Calabromariae confinio sita est”,[xlix] “obedientiam” del “monasterium quod dicitur de Abbate Marco”[l] mentre, la documentazione successiva, evidenzia che il tenimento detto “Neto”, posto in territorio di Roccabernarda, costituiva un antico possesso del monastero di Calabromaria, poi detto anche Santa Maria di Altilia, all’interno del quale si trovava la salina regia detta di “Neto”.

Ancora nel secolo XVI, il monastero di Calabromaria che, solo dalla seconda metà del sec. XV, comincia ad essere richiamato dai documenti in territorio di Santa Severina,[li] ma che, in precedenza, ebbe una propria autonomia territoriale, conservava “In primis uno tenimento chiamato Neto”, all’interno del quale era situata “la salina chiamata di Neto de la quale sua maestà e suoi ministri pagano annuatim a detta Abatia d(uca)ti cinquanta et tari due” e l’ “Ill.re S.r Abbate può in essa salina haver sale quanto ad esso parerà conforme a d(et)ti privilegii”.[lii]

La minore antichità rispetto a “Neto” del toponimo “Calabria”/“Calabro”, che possiamo ricondurre al tempo della costituzione della metropolia di Santa Severina “di Calabria”, consente di riferire a questo periodo le prime importanti trasformazioni del territorio strutturato dai Romani che, comunque, cominciano a poter essere apprezzate solo agli inizi del periodo Normanno, quando prese l’avvio il processo di formazione dei feudi, ed il territorio di Santa Severina, oggetto di una riorganizzazione in questa chiave nella seconda metà del sec. XI,[liii] si trovò a limitare per un lungo tratto, il tenimento di Neto posto in territorio di Roccabernarda, mediante un confine che attraversava le località “Caprari”, “Armirò”, “Castelluzzo”, “Caria”, “Bosco” e “Scalille di Altilia” per giungere al “fiume Neto”.[liv]

Accanto a queste considerazioni circa il tenimento di “Neto”, che rimangono in linea con l’antichità di questo toponimo ed il suo permanere in un’area posta alla destra idrografica del corso del fiume, altre ci permettono di poterne rilevare la presenza anche in altri luoghi posti da questa parte, come quelli vicini al guado da cui transitava “la via publica che se va a cotroni”[lv] dove, agli inizi del Seicento, troviamo il luogo detto “la Valle di S. Martino”, che confinava con i beni del priorato di San Pietro di Niffi (Latina, S. Elia) e, dalla parte orientale, con quelli della corte di Santa Severina (Scrivo).[lvi]

Scandale corazzo

Marmo d’età romana in località Corazzo di Scandale (KR).

Nelle vicinanze, il toponimo “Neto” permaneva anche alla sinistra del corso del fiume, dove troviamo la chiesa di Sant’Elena “de Neto”,[lvii] grancia del monastero di Santa Maria de Patirio, posta “iuxta flumen Neti subtus Roccam S. Petri de Cremasto”,[lviii] abitato preesistente a quello dell’attuale Rocca di Neto, identificato dalle carte moderne con il toponimo di “Rocca Vecchia”.[lix]

Qui, solo verso la fine del sec. XIV, comincia ad essere documentata l’esistenza della terra di Rocca di Neto, in luogo del casale di Rocca S. Pietro de Camastro (camastra = catena) che, per tutto il periodo svevo, risulta invece posto in territorio di Santa Severina ed in diocesi di questa città, cui ne fu distaccato agli inizi del periodo angioino, a seguito della ridefinizione del confini tra il giustizierato di Calabria e quello di Valle Crati e Terra Giordana lungo il corso del fiume Neto, continuando comunque a permanere in diocesi di Santa Severina.

Queste informazioni relative alla sopravvivenza dell’antico toponimo “Neto”, esteso in una vasta area che, durante l’epoca feudale, in parte era divenuta una pertinenza del territorio della città di Santa Severina, e parte di altre terre, pur non consentendoci di poter risalire ad una definizione precisa del territorio pertinente anticamente alla statio romana, ci permettono, comunque, di porre in risalto, grossomodo, i suoi limiti principali e di accertare il fatto che queste realtà medievali, furono formate in uno spazio che possedeva una propria struttura ed una precisa identità già precedentemente all’età feudale.

Un territorio anticamente posto al confine di quello appartenente alla Crotone romana, destinato alle coltivazioni (“ager”), e pertinente a quello dell’interno boschivo, dove esistevano gl’insediamenti del Brettii romanizzati dediti alla pastorizia (“saltus”), come c’indica la sopravvivenza del toponimo “salto” durante il periodo medievale, che risulta documentato in corrispondenza dell’importante attraversamento del fiume Neto in località “Timpa del salto”,[lx] dove consistenti e diffusi sono stati i ritrovamenti archeologici del periodo romano e dove, ancora agli inizi del dominio angioino, esisteva l’abitato di “Rocca de Saltu”.[lxi]

A questa realtà preesistente a quella altomedievale di Santa Severina, la cui diocesi non compare “nella primitiva costituzione della provincia di Reggio”, cosa che ci permette di escludere che sia esistita “in epoca anteriore al secolo IX”,[lxii] dovevano appartenere le colonne di spoglio esistenti nel c.d. “Battistero” della città, e forse anche anche altri resti ancora rintracciabili nelle vicinanze di Altilia, in particolare nella località “Serre di Altilia”, ma anche presso le sponde del fiume Neto, come si rinviene nelle vicinanze dell’attuale chiesa di San Giuseppe a Corazzo di Scandale (KR).

santa severina battistero

Colonne di spoglio esistenti nel c.d. “Battistero” di Santa Severina (da www.paesionline.it).

Agli inizi del Seicento il Marafioti menzionava l’esistenza di un antico “castello dal nome del fiume chiamato Neto”, posto presso il corso dell’omonimo fiume, dove si trovavano le antiche saline (“Rocche di sale in Neto”), affermando, in maniera del tutto anacronistica, che nel suo “territorio”, erano posti i casali di San Mauro, San Giovanni Monaco e Scandale[lxiii] che, al tempo, appartenevano invece, a quello della città di Santa Severina.

neto-abitato

In evidenza l’abitato di “Neeto” nelle vicinanze del fiume omonimo e della città di “S. Severina”, com’è raffigurato in un affresco cinquecentesco della Galleria delle carte geografiche ai Musei Vaticani.

 

Note

[i] Piccinato L., Urbanistica Medievale, 1993, p. 10.

[ii] Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi C.A.M., Napoli 1957, p. 44. Basilii Notitia, in Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 27.

[iii] “… la metropolia di Reggio, alla quale furono sottomesse tutte le diocesi della Calabria, e cioè Gerace (Locri o S. Ciriaca), Squillace, Crotone, Cosenza, Vibona, Tropea, Nicotera, Tauriano, Tempsa e Turio. Le ultime due esistevano solo nominalmente.” Russo F., cit., 1957, p. 44.

[iv] “MH. Tῇ Ἁγίᾳ Σευηρινῇ τῆς Kαλαβρίας. ὁ Eὐρυάτων, ὁ ’Aϰερεντίας, ὁ Kαλλιπόλεως, [ὁ] τῶν ’Aησύλων.”. Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 82.

[v] Parthey G. e Pinder M., Itinerarium Antonini Augusti et Hierosolymitanum, 1848, pp. 52-53.

[vi] Parthey G. e Pinder M., cit., pp. 52-53. La distanza in km riportata tra le parentesi è stata ricavata considerando 1 miglio romano = 1000 passi = 1,480 Km.

[vii] Pesavento A., Da Tacina a Turris Tacinae a Steccato di Cutro, www.archiviostoricocrotone.it.

[viii] Strabone, Geografia VI, 1, 2.

[ix] P. Jo: Baptistae Aucher Ancyrani, Eusebii Pamphili Chronicon Bipartitum, Pars II, Venezia 1818, p. 181.

[x] Mai A., Zohrabian J., Eusebii Caesariensis et Samuelis Aniensis Chronica, Milano 1818, p. 323.

[xi] Siegfried C, Gelzer H., Eusebii Canonum Epitome ex Dionysii Telmaharensis Chronico Petita, Lipsia 1884.

[xii] Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum 1865 pp. 138-141 n. CVI.

[xiii] Carta d’Italia scala 1:50000 Foglio N° 561 – S. Giovanni in Fiore; Carta d’Italia 1:25000 Foglio 230 – II S.E. Umbriatico e sulla Sez. B dello stesso foglio alla scala 1:10000.

[xiv] ASCZ, Notaio Cadea C., busta 6, ff. 178-179.

[xv] “(…) Da Simeri pure ad ’.sṭ.r.nǵ.lî (Strongoli) ventun miglio. / E da Strongoli a Cotrone ventiquattro miglia. / Tra Strongoli e il mare sei miglia. / Inoltre da Strongoli ad ’.brîâtiqû (Umbriatico) undici miglia. / Da Umbriatico a bât.r bawl (Pietrapaola) ventisette miglia. / Da Pietrapaola a ’.b.shrû (Ipscrò, oggi Cirò) trentatre miglia. / Tra Cirò a rûsyânû (Rossano) la marittima quindici miglia. (…)”. Amari M. e Schiapparelli C., L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero”compilato da Edrisi, in Atti della Reale Accademia dei Lincei anno CCLXXIV, 1876-77, serie II – volume VIII, Roma 1883, p. 112.

[xvi] Procopio di Cesarea, De bello Gothico III, 28. Ed. Comparetti D., La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, voll. 3, Roma 1895, 1896, 1898, in Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano.

[xvii] Delaville Le Roulx J., Cartulaire Général de l’Ordre des Hospitaliers de S. Jean de Jérusalem (1110-1310), Parigi 1897, tome second (1201-1260), pp. 900-901.

[xviii] VI, 1, 2-3.

[xix] ASCZ, Notaio Consulo B., busta 8, f. 503v.

[xx] Duchesne L., Le Liber Pontificalis, tome premier, Paris 1886, p. 350.

[xxi] Mansi J. D., Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio …, 1759-1798, XI, coll. 210, 218, 230, 323, 327, 334, 379, 458, 519, 583, 603, 612-14, 622, 626.

[xxii] Ibidem, coll. 387, 742.

[xxiii] Ibidem, coll. 551, 739.

[xxiv] “Abundantius humilis episcopus Tempsanae ecclesiae provinciae Brutiorum …”, Ibidem, col. 302. “Abundantius humulis episcopus sanctae ecclesiae civitatis Tempsanae, legatus totius concilii sanctae sedis apostolicae urbis Romae definiens subscripsi.”, Ibidem, col. 642. “Abundantius humulis episc. sanctae ecclesiae civitatis Tempsanae, legatus totius concilii sanctae sedis apostolicae urbis Romae similiter subscr.”, Ibidem, col. 670. “Abundantius minimus episc. S. ecclesiae Tempsanae, Brutiorum provinc. etc.”, Ibidem, col. 773. “Abundantius episcopus Tempsanae, et apocrifiarius totius synodi sanctae et apostolicae sedis urbis Romae, subscripsi et definii.”, Ibidem, col. 900.

[xxv] Gelzer H., Georgii Cypri Descriptio Orbis Romani, Lipsia 1890, p. 82. L’antichità del vescovato di Umbriatico risalta in un atto del 9 giugno 1434 (AASS, 040A, ff. 37-37v).

[xxvi] Ethinicorum quae supersunt, ed. Meneike (Berolini, 1849) p. 188.

[xxvii] “Inde est Brystacia, nunc Briaticum civitas sedes episcopalis, ex Paterno urbe, de qua mox, huc translata, cuius meminit Ioannes ioachinus abas, et si, antiblacensis depravate legatur. Situm est oppidum in vertice montis saxei, ab Oenotriis conditum, ut ait Stephanus, …”. Egli poi riferiva: “Inde urbs haec Crimissa dicta fuit Paternum, cuius meminit Antoninus Pius in itinerario, qua a Rossano m. p. duodetriginta distare dicit. Nunc, ut dixit, Cirum dicitur. Fuit sedes episcopalis, quae post vastationem regionis a poenis, cretensibus, et mauris in Briaticum transalata est. Abundantius episcopus Paternensis interfuit Synodo Constantinopolitanae sextae sub Agathone papa …”. Barrio G., cit., p. 377.

[xxviii] Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Padova 1601, libro III, p. 202.

[xxix] Marafioti G., cit., libro I, pp. 56-57, libro III, p. 203 e libro V, p. 308.

[xxx] Fiore G., Della Calabria Illustrata, tomo I, p. 477.

[xxxi] Fiore G., cit., p. 478.

[xxxii] Fiore G., Della Calabria Illustrata, tomo II p. 547.

[xxxiii] “Non si sa di questa Città altro dell’esser suo ne de suoi principii se non che nell’Imperio di Valentiniano fu riformata da Sisto 3o, l’ordinazione del Vescovo, la di cui sede venne dalla città di Paterno trasferita nella sua Cattedrale col titolo di S. Donato, servita solo da quattro Sacerdoti. Si venerano le Reliquie del Santo Gregorio Papa, Lorenzo, Donato, Stefano, Gregorio e Geremilla con piccole porzioni delle vesti de Signore e della SS. Madre, risalendo nel centro di essa sul dorso di ruvidissime pietre non tagliate, con Torre alta con in tre Ali il suo corpo partito. Ella è situata sopra di una rupe di malagevole accesso, e poco grata tra sentieri di precipizio e spavento poco più di un miglio distante dal Mare. Chi ve la piantò non hebbe forsi alcun impulso che di fabricarvi un ricovero per fuggitivi, o malcontenti, potendosi pensare a capriccio quello che può più piacere al genio, mentre non si rinviene chi ne dia maggior lume. Sono però le sue campagne non scarse del necessario e del dilettevole, producendovi in abbondanza de Capperi con Copia di animali di pelo ne suoi Boschi, e di penne nelle sue campagne, oltre la Manna il Terebinto, il Gesso e l’Alabastro ed altre molte specie di herbe per salute e delizia. Con quattro Parrocchie, Seminario, Spedale, Monte per poveri, due Conventi di Regolari, ed uno di Suore, terminando con quattro Terre la sua Diocesi, in una de quali per mezzo di un Prete Albanese accasato si pratica il Rito de Greci. Numera non più di 42 fuochi; e della Casa Rovegna è Marchesato”. Arch. Gen. Agostiniano, Carte Rocca, Testi, 93; in Amirante G., Passolano M. R., Immagini di Napoli e del Regno, ESI Napoli 2005, p. 101.

[xxxiv] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1678.

[xxxv] “P.us ex oppidi est Cirò; Oppidum istud 800 ab hinc annis situm erat in Promontorio Alicinio p(er) Orientis Equora navigantibus celeberrimo; Dicebatur tunc Paternum, eiusque Urbis Paternenses Ep(iscop)i dicebantur, quorum unus morum Sanctiate, doctrinaque insignis, ut in Urbis Antiquariis habetur, Abundantius ille Sextae Constantinopolitanae Synodi intervenit anno Xpi 680; At quia Turcarum incursionibus saepissime vexabatur, postremo pene diuturna obsidione circumdatum ispimet oppidani illud incendio devastarunt, unde fuit ei nomen Cremissa, idest se ipso crematum et asportabiliora vehentes, in montem secesserunt, qui nomen habet Ipsigrò; idest mons altior namque inter duos alios laterales ibi notabiliter eminet; Ep(iscop)us …, ut cautius reliquiarum caelestes conservaret divitias superiorem, magisque remotum se recepit in locum Umbriaticen … .”. AVC, Rel. Lim. Umbriaticen., 1684.

[xxxvi] Ughelli F., Italia Sacra, tomus octavus, Venezia 1721, 525.

[xxxvii] “Egli cadrà in battaglia, e il Crati ne scorgerà la tomba verso il luogo in cui sorge il tempio del nume Aleo di Patara, dove il Nieto scarica le sue acque in mare” (Licofrone, Alessandra, vv. 918-921). Il fiume è ricordato anche da Plinio il Vecchio: “A Lacinio promontorio secundus Europae sinus incipit, magno ambitu flexus, et Acroceraunio Epiri finitus promontorio, a quo abest LXXV M pass.. Oppidum Croto, amnis Neaethus. Oppidum Thurii inter duos amnes Crathin et Sybarin, ubi fuit urbs eodem nomine” (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 97. Ed. Domenichi M.L., 1844, p. 369).

[xxxviii] “E’ fondazione di Filottete anche l’antica Crimisa (Κρίμισσα), che si trova press’a poco in questi stessi luoghi. Apollodoro, nel suo Catalogo delle Navi, parlando di Filottete, racconta che secondo alcuni egli, giunto nel territorio di Crotone, stabilì un insediamento sul promontorio di Crimisa e, un po’ all’interno rispetto ad esso, fondò la città di Chone, dalla quale, quelli che abitano li, presero il nome di Conî; alcuni, poi, sarebbero stati inviati da lui in Sicilia nella zona di Erice con il troiano Egesto ed avrebbero fortificato Egesta.” Strabone, VI, 1, 3.

[xxxix] “La prima di queste città è Crotone, a 150 stadî dal promontorio Lacinio; c’è poi il fiume Esaro con il porto e poi un altro fiume chiamato Neeto (Nέαιϑος), che dicono abbia avuto questa denominazione da un fatto avvenuto là. Raccontano infatti che alcuni Achei, al ritorno della spedizione di Troia, errando qua e là furono spinti in questi luoghi e vi approdarono per esplorarli. Le donne troiane che navigavano con loro, quando si accorsero che le navi erano vuote di uomini, le incendiarono, perché erano stanche di navigare. Così quelli furono costretti a rimanere qui tanto più che avevano anche potuto constatare la fertilità della terra. Presto vi giunsero anche parecchi altri della stessa stirpe, che seguirono il loro esempio e fondarono molte colonie a cui posero per lo più nomi uguali a quelli di fiumi; [il fiume Neeto (Nέαιϑος) derivò il suo nome dall’incendio]. Strabone VI, 1, 12.

“Il Neto è un fiume dell’Italia. Secondo Apollodoro ed altri autori, fu così chiamato per questo motivo: dopo la distruzione di Troia, le figlie di Laomedonte, sorelle di Priamo, Etilla, Astioche e Medesicasta giunsero con le altre prigioniere in questo posto d’Italia e, per non essere costrette a subire la schiavitù in Grecia, diedero fuoco alle navi. Per questa ragione il fiume fu detto Neto e le donne Nauprestidi. Perdute le navi, i Greci che erano con loro si stabilirono là.” Apollodoro, La Biblioteca, in Attianese P., Kroton: le monete di bronzo, p. 41.

[xl] Neto: fiume dell’Italia. Alcuni Elleni, navigando da Troia, si fermarono presso questo fiume, dove le loro prigioniere, temendo una volta giunte in Grecia, la schiavitù e la futura gelosia delle loro donne, bruciarono le navi ed il fiume fu chiamato Neto (Nαύαιθος) da questo incendio, mentre le donne Nauprestidi e le navi Prestidi. Etymologicum magnum, 598, 36, Ed. Gaisford T., 1848. Nel Lexicon Suda o Suida (circa sec. X), Naeethus (Nαίεϑος) risulta il nome di un fiume. Suidae lexicon graece et latine, Cantabrigiae, Typis academicis, Tomus II 1705, p. 602.

[xli] Napoli M.,, op. cit. p. 218.

[xlii] A questo riguardo P.G. Guzzo, partendo dall’indicazione in Strabone (VI, 1, 10) a proposito del nome “femminile” del fiume Sagra, ipotizza un anallenismo sia per quest’ultimo che per il fiume Medma. P. G. Guzzo, L’archeologia delle colonie arcaiche, p. 224, in Storia della Calabria Antica, Cangemi editore, 1987.

[xliii] Parthey G. e Pinder M., Itinerarium Antonini Augusti et Hierosolymitanum, 1848, p. 52. Romanelli D., Antica Topografia Istorica del Regno di Napoli, parte prima, Napoli 1815, p. 303.

[xliv] AASS, 041A, f. 65v foto 075.

[xlv] “Incipiendo a p.e Orientis à loco ditto Ponte veteri, et vadit ad flumen Neheeti et cursus finendo ponit ad [flumen A]mpolini à p.e Boreae et ferit ad Collem lariae ab occidente, et viam publicam, et … vadit et ferit ad terram de Sprolverio, et ca[la]ndo dà Rivioti a p.e meridei et vadit ad vallonum turbidum et ferit ad collem Grotti et concludit ad dictum locum de Ponte veteri”. Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.

[xlvi] Circa l’esistenza dell’abitato di Neto durante il Medioevo, una traccia potrebbe forse celarsi in un atto del novembre 1118 edito dal Pratesi, nel quale, in occasione di una sentenza pronunciata da “Girardo baiulo Sancte Severine et Cutroni”, si menziona la presenza di alcuni testi giunti “a Filetu” (sic). Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958, pp. 27-30.

[xlvii] “Il nahr nîṭû (fiume Neto) scende da ’aṣṣîlâ (la Sila) a destra di ǵ.runtîah (Cerenzia) e si dirige verso levante. A sinistra di questa città esce un altro fiume (fiume Lese) che si unisce col precedente nel luogo chiamato ’al mallâḥah (“la Salina” in oggi Salina di Altilia), distante da ǵ.runtîah, che dicesi pur ǵ.ransîah (Cerenzia), nove miglia. Il Neto quindi continua il suo corso fino a che passa sotto śant samîrî (Santa Severina) lontano un miglio e mezzo, e proseguendo tra quṭrûnî (Cotrone) e ’.str.nǵ.lî (Strongoli) mette in mare.” Amari M. e Schiapparelli C., L’Italia descritta nel “Libro di Re Ruggero”compilato da Edrisi, in Atti della Reale Accademia dei Lincei anno CCLXXIV, 1876-77, serie II – volume VIII, Roma 1883, p. 128.

[xlviii] “Da Cotrone al porto [che è all’imboccatura] del wâdî ś.bîrìnah («fiume di [Santa] Severina», fiume Neto), porto che è al sicuro dai tre venti, dodici miglia. Da questo al râs ’alîǵah («capo Alice», oggi Punta dell’Alice) ventiquattro miglia.” (Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 73). “Dalla città di Cotrone al wâdî s.t.rînah (leg. sabirînah «fiume di [Santa] Severina», fiume Neto), fiume piccolo, dodici miglia. Da questo ad ’aln.ǵah (leg. [râs]’alîǵah, «capo Alice», oggi Punta dell’Alice) ventiquattro miglia.” (Amari M. e Schiapparelli C., cit., p. 133).

[xlix] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 35-38.

[l] De Leo P. (a cura di), cit., pp. 73-76 e pp. 239-241.

[li] Il 25 febbraio 1466, Ferdinando d’Aragona approvava le richieste fatte dall’università di Santa Severina, tra le quali che “lo monastero de Calabromaria, e de Santo Petro de Niffi, quali sono fundati intro lo tenimento de la d.a Citta …” (AASS, 023A).

[lii] Così è descritto il tenimento di Neto “nel territorio della Rocca Bernarda”: “Incominciando dal fiume di Neto dallo luoco proprio chiamato Lo Cafaro, la cabella di S.ta Maria di Mulerà vecchio et ascende per le criste criste delli sterei ed ascende alli terreni delli Giuliani per le timpe timpe, et esce e confina alla cabella della Feretta, li frunti frunti de d.a cabella, et esce alli vignali di S.ta Maria de la Magna della Rocca Bernarda, li frunti frunti di d.i vignali, esce alli vignali di S.to Nicola della Rocca pre.tta, li frunti frunti, et esce alla cabella de Cuvalari nominata dell’her.i del q.m Alfonso Masso li frunti frunti et esce alla serra di S.to Andrea de la suprad.a cabella di d.i her.i e li frunti frunti esce alla cabella de Berardino di Bona e frati nominata la cabella dello Suvero, et esce allo timpone de Castelluzzo, et discende lo timpone a bascio termino med.te et esce allo canale de Caria, et ascende lo vallone ad irto de Caria confinando con lo Castelluzzo e confina alla serra de Crapari, e de volta volta esce alla cabella chiamata Armerò, e le colle colle esce alle Scalille, e de volta volta confinando ad Armerò verso levante, et esce allo timpone d’Armerò, dallo quale timpone a bascio ferisce alle terre, e sararmaco di Francesco delle Serre, et lo sararmaco sararmaco esce allo vignale di S.to Nicola con lo quale confina termino med.te, con lo quale confinando sempre da man destra caminando verso Ardavuri finisce alla medesima cabella di Ardavuri, e segue la serra a pennino cristone cristone, et esce alle terre di Francesco delle Serre, e di Battista delle Pira, e lo termine termine esce allo cristone di S.ta Anastasia, e da esso cristone cala a bascio confinando da man destra con li Ficuti, e da man manca con la cabella d’Ardavuri, e fere allo termine di S.ta Anastasia, et termino mediante lasciando d.o termine da man destra termino termino ferisce ad un pezzo di terre, e molino d’Alessandro Infosino acquaro mediante confinando con d.e terre ferisce allo (giardino) delle molina dell’Ill.e S.r Gio. Baracco, e seguendo la sepala sepala di d.o giardino ferisce allo galice prima dello prato di d.e molina venendo dalla città di S.ta Severina et ascendendo lo galica ad irto, et esce allo timpone dell’aira, e da d.a aira descende all’altro galice dello Scinetto della cabella d’Ardavuri, confinando da man destra de d.o prato, et delle molina di d.o Ill.e S.r Giovanni, e da d.o Scinetto scende mezze coste mezze coste, et esce allo timponello delli Scini delle mezze coste, et esce all’altro timponello di più sopra sempre confinando da man manca quando se va alla salina de Neto, e si viene dalla città di S.ta Severina confinando de d.e terre di d.o Ill.e S.r Giovanni, e ferisce alle timpe, e delle timpe timpe ferisce allo Galice dove e l’Aquicella de Femina Morta, e de detta acqua ferisce al fiume di Neto e de Neto ad irto conclude allo primo sciere (?) sopra la Menta”. ASCZ, Copia di Platea antica con i pesi de vassalli di d.a scritta a foliate numero 29, in Miscellanea. Monastero di S. Maria di Altilia (1579-1782).

[liii] Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, parte I, pp. 59-60.

[liv] Pesavento A, Antichi casali della vallata del Neto: Calabrò, Caria ed Altilia, in www.archiviostoricocrotone.it

[lv] AASS, 002A.

[lvi] AASS, 41A.

[lvii] “eccl.am Sanctae Helenae de Neto cum omnibus pertinentiis suis”. ASV. Arm. XXIX, f. 237.

[lviii] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 517-520.

[lix] Pesavento A., San Pietro di Camastro, Rocca di Neto e la grancia di S. Maria della Terrata, www.archiviostoricocrotone.it

[lx] Il toponimo “timpa dello salto” compare già nel 1507 (AASS, 109 A).

[lxi] L’esistenza della terra di “Rocca de Saltu” o “de Vivo” (sic), precedentemente appartenuta al dominio feudale di Iohannes de Manerio ma, successivamente, devoluta alla regia corte per il suo tradimento, c’è riferita dal Minieri Riccio, che menziona atti della cancelleria angioina ormai perduti: “In Rocca Berardi et in Rocca de Saltu Dictae Terrae sunt in mainibus domini nostri Regis devolutae ex proditione domini Ioannis de Manerio, et capta ibi informatione de numero Iudicum, qui creari solent in Rocca Berardi, constat esse unum – Alla p. 514 dove si cita il fol. 104 del Fasc. 23. Nell’anno della sesta e settima indizione sotto Carlo 1° di Angiò Ruggierio Manerio aveva feudi in Calabria. – Alla p. 578, dove si cita il fol. 101 del Fasc. 28 il 1°.” Minieri Riccio C., Studi Storici su Fascicoli Angioini dell’Archivio della Regia Zecca di Napoli, 1863, pp. 19-20. “In Rocca de Vivo dominus Iohannes de Manerio erat dominus dictae terrae sed devolvit ad Curiam per eius proditionem – Alla p. 94 dove si cita il fol. 14 del Fasc. 5.”. Ibidem, p. 12.

[lxii] Russo F., La Metropolia di S. Severina, cit., pp. 44-45.

[lxiii] “(…) tra Cutro, e’l fiume Neto occorre un castello dal nome del fiume chiamato Neto : dove si veggono le rocche, dalle quali hoggidì si cava’l sale bianchissimo (…)”; a margine: “Rocche di sale in Neto”. “(…) e nel suo territorio sono questi Casali, S. Mauro, S. Giovanni, e Scaualio. (…)”; a margine: “Casali di Neto”. Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Padova 1601, libro III, p. 211v.

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Per una storia del pane nel Crotonese

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Forno (Melissa).

Il pane fu l’alimento più importante fin dall’antichità assumendo un significato di sacralità (vedi la moltiplicazione dei pani nel Nuovo Testamento). La religione cristiana lo elevò ad elemento eucaristico assieme al vino. Nessun altro alimento può essergli accostato, tranne il vino, o può sostituirlo.

Innumerevoli sono i proverbi e modi di dire, che mettono in risalto la sua importanza presso le popolazioni del Crotonese. Tra questi ne riporto solo uno, che evidenzia la sua essenzialità.

“Su’ puru bùani i fichi e ri cirasi, ma amara chira trippa chi pani un ci trasa”. Saranno anche buoni i fichi e le ciliegie, ma sfortunato chi non ha la possibilità di mangiare pane.[i]

 

Una lunga storia

Durante il Medioevo i feudatari imposero l’uso del proprio mulino e del proprio forno. Privilegi feudali che troviamo ancora nel Cinquecento, come si legge in una difesa giudiziaria del barone di Melissa Giovanni Maria Campitelli: “isso mag.co Barone, come è utile S.re et Barone de detta terra de Melissa, et suo territorio con lo mero, et misto imperio, et jurisditione con la cognitione de le prime cause Civile criminale et miste, quale terra, et suo territorio e stato concesso alli suoi antecessori per li predecessuri Re del Regno di Napoli con li vassalli difise sfida e disfida l’acque, et cursi d’acque, valli monti : piani: colli: boschi, terre culte et inculte prati molina trappiti passaggii herbagii furni centimola, et integro suo stato in virtù deli Privileggii fatti e concessi ut supra Montagne cersiti vigne feudi et sufeudi oliveta, et giardini existenti in ditto territorio”.[ii]

In seguito si svilupparono forni pubblici e privati; tuttavia la produzione del pane, anche se fatta da privati, fu sempre sottoposta a regole e vigilanza da parte del potere, di solito rappresentato dal catapano feudale o dal governo cittadino.

Nel Cinquecento tra i “Capitoli et or(dinamen)ti della Catapania li quali s’havranno d’osservare per li Cittadini habitanti e comoranti in la Terra di Melissa”, troviamo “Che quelle persone che faranno pane à vendere lo debbiano fare à peso secondo per lo Catapano loro sarà ordinato havendo consideratione il Catapano che darà il peso secondo valeranno li grani, e che guadagnino agiustamente à talche il comperatore non sia gravato, e contravenendo accaschino alla pena di carlini cinque. Per ogni volta che contraveneranno.[iii] Lo stesso leggiamo nelle consuetudini di Crucoli vigenti nell’anno 1561. In esse è scritto: “Che tutte le cose commestibili si vendano in piazza della Porta di S. Elia perfino alla Portella e chi contravvenerà incorra alla pena di grana cinque da esigere per la Baronal Corte”. “Declarando quanto allo pane s’intenda quello si farà per ordine delli Sindaci, cioè del partito”.[iv]

Essendo il pane l’elemento base dell’alimentazione, specie nei periodi di carestia, il potere vigilava affinché non mancasse mai per prevenire possibili ribellioni popolari. Nel 1687, anno di carestia, il feudatario di Policastro, il Granduca di Toscana Cosimo III, comandava al visitatore di Policastro Giuseppe Domenico Andreoni, che quanto alla annona “di invigilare perché i poveri non siano frodati nel peso e nel prezzo del pane, particolarmente nell’anno in corso”.[v]

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Forno esistente nella masseria Zurlo in località Scifo di Crotone.

Lo “ius prohibendi”

Col tempo venne meno lo “ius prohibendi” del feudatario e gli abitanti ebbero la possibilità di fare il pane nel proprio forno o di prepararlo in casa e di portarlo in un forno pubblico o privato. All’inizio del Settecento a Cotronei vi era una “taverna con più camere, e stalle colla bottega lorda colla potestà di far pane, e vendere ogni altro comestibile”.[vi] Il tavolario Giuseppe Pollio nel 1760 ci informa che nel casale di Savelli “taluni poi si fanno il pane in casa propria, che vanno a cuocere ne’ forni publici al num. di 4 che descrivere, né al Barone rendenti e tengono anco delle proviste per loro uso, e comodo così del vino, oglio, formaggi, come d’ogni altro bisognevole, giusta la loro possibilità, non vi è jus prohibendi per tali generi ed a Verzino sebbene molta gente si fa il pane in casa propria e tengono delle provviste per loro comodo, ed uso del vino, oglio, formaggio ed altro, non essendovi alcun jus proibitivo di detti beni”.[vii]

 

Greci e latini

Alla fine del Cinquecento e per buona metà del Seicento sorsero delle dispute religiose tra i sacerdoti dei casali albanesi di rito greco e la gerarchia cattolica del luogo. Tra i vari contrasti vi era che il rito “greco”, per l’eucarestia usava il pane lievitato, mentre il latino usava il pane azzimo, cioè senza lievito. Diversa era anche la preparazione del pane prima della celebrazione. Il 14 febbraio 1572 il vicario di Crotone Don Gerolamo Valente, nella cui diocesi era situato il casale di Papanice, inviava una lettera al cardinale di Santa Severina e inquisitore Giulio Antonio Santoro, accusando di eresia i rettori della chiesa di San Nicola del casale dei Greci di Papanice. Tra i capi di accusa di eresia vi era che “… Quando gli preti vogliono dire messa, poneno lo pane ne la patena, et lo vino nel calice, et mentre lo portano dall’altare minore al maggiore, che non è fatta la consacratione, il popolo fa reverentia et l’adora, et dopo ch’è condotto nell’altare maggiore et consacrato, non se li fa segno di veneratione”.[viii]

L’inquisizione colpì anche gli abitanti dei paesi albanesi di Carfizzi, Pallagorio e San Nicola dell’Alto situati in diocesi di Umbriatico. Il roglianese Antonio Ricciulli, vescovo di Umbriatico dal 1632 al 1638, dapprima tardò a visitare la diocesi, prendendo a pretesto i consigli dei medici, poi dopo una breve permanenza fu chiamato a Napoli per ricoprire l’ufficio di ministro generale dell’inquisizione. Il 16 dicembre 1634 da Napoli inviava al suo vicario delle disposizioni “Circa Sanctissimorum Sacramentorum et administrationem eorumdem in Civitate et castris latinis”. In esse si ordinava di istruire i parroci greci circa il modo di amministrare i sacramenti e per quanto riguardava il Sacramento dell’Eucharestia “… Si ministri sotto la specie del pane tanto in chiesa, quanto in casa dell’infermi, ne sotto colore di devotione, ò sotto qualunque altro pretesto s’amministri sotto la specie del sangue sotto pena di sospensione d’incorrersi ipso facto, et d’altre pene etiamdiu corporali”. Inoltre aggiungeva che “Nelle chiese de greci, non celebri nessuno sacerdote latino, se non in caso di necessità, et in quel caso deve celebrare in pane azimo, et non fermentato … il sacerdote greco, non consacri in pane azimo, ma in fermentato e nel medesimo fermentato communichi quelli che sono nel rito greco …”.[ix]

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Patena di rito greco (Papanice).

Il pane nutrimento dell’anima

Seguendo i riti pagani era uso accompagnare l’anima del defunto con acqua, pane e olio. Tale usanza era presente in tutta l’area del Crotonese. A Cirò il Pugliese nota che “Quando alcuno è agonizzante, la famiglia pensa al viaggio dello spirito, e prescindendo da’ soccorsi della religione, fa dono al vicino più povero di un bocale di acqua, di piccola quantità di olio sufficiente per vivificare una nottata, e due pani, ovvero un piatto di farina. S’intende far precedere con quell’elemosina l’acqua per dissetarlo, il lume per guidarlo, e ‘l pane per ristorarlo”.[x]

Più o meno lo stesso avviene a Crotone ed a Rocca di Neto: “Poi, la persona più cara di famiglia pone sopra un tavolo un bicchiere di acqua, una fetta di pane, e vicino, ancora, altre sette fette di pane. L’acqua e la prima fetta di pane dovranno servire a dissetare e sfamare il morto nel lungo e doloroso viaggio, e le altre sette fette a calmare i furori dei < sette cani della Caninea>, che latrando, attendono le anime dei trapassati al difficile varco tra la vita e la morte.”.[xi]

“… quando l’anima esala l’ultimo respiro, di buttare nella strada sottostante alla casa dell’estinto, dell’acqua e tre fette di pane per saziare i cosiddetti “cani i da caninea”, ossia gli spiriti cattivi che possono ostacolare il passaggio dell’anima”.[xii]

 

Usi e tradizioni

“Le donnicciuole dopo imbrunito il giorno non prestano alla vicina né cribro, o buratto, né lievito da far pane,e che dicesi criscito; ma se per circostanza di necessità lo debbon fare vi pongono un carbone, e lo danno ben cautelato, e coperto: si crede che nella casa donde esce senza tali precauzioni ed in tempo di notte o il buratto, o il lievito, muoja quanto prima il capo di famiglia”.[xiii] “Le vecchie massaie imprimevano tre segni di croce sulla farina che s’impastava nella majiddra (la madia) e dicevano: “Fa ca sa pasta criscia cuami ha crisciutu u Mimminuzzu intra a fascia” (fa che questa pasta cresca com’è cresciuto Gesù Bambino nella fascia).[xiv] “Molti, fra’ quali il prossimo Crucoli si servono di acqua di mare per fare il pane …”.[xv] “Il lievito (u livatu) veniva preparato la sera precedente e messo sotto il materasso per lievitare”.[xvi]

 

Il pane della sposa

Nei paesi albanesi vige l’uso che “la sera del Giovedì, che precede la Domenica delle nozze, la sposa, con la famiglia tutta si reca alla casa dello sposo, ed allora si dà principio al cosidetto “brum”, pasta. Si prende perciò un chilogrammo di farina che viene impastato con acqua da una giovinetta zitella, che avesse padre e madre, e mentre si fa codesta operazione, tutti in coro cantano. Sempre nella serata del Giovedì, qualche ora più tardi dall’ostensione del corredo, avveniva la cerimonia detta “brumi” (pasta). L’impasto avveniva senza l’uso del lievito o altro … per tutto il tempo della durata del canto e della cerimonia, la sposa, circondata da tutti i parenti e dalle persone più intime, stava seduta in modo serio, composto e assorto … Terminato l’impasto, le donne presenti si alzavano, si gettavano sulla pasta e ognuna ne prendeva un po’, essa doveva sparire al più presto. Con la pasta presa e portata a casa si faceva una focaccia (kukulle) che veniva consumata personalmente. Mi hanno riferito che, una donna sposata, prima dell’impasto, nella pasta di nascosto, metteva un anello. La ragazza che, assieme alla pasta prendeva anche l’anello, era la prossima sposa”.[xvii]

“La “preparazione del pane” accompagnata dal canto in cui si ripeteva la parola “nuovo” era un rito propiziatorio per augurare abbondanza alla nuova famiglia. Alla fine del canto, dopo che la ragazza aveva segnato con la mano sette croci sulla pasta, gli astanti la dividevano”.[xviii]

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Scandale (KR), preparazione dell’impasto nella “maijlla” di legno (foto tratta dal libro di Manlio Rossi-Doria, Un paese di Calabria, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2007).

La Confezione del pane

“Il pane sempre presente sulla tavola, non ha mai perso il suo valore primordiale … un pezzo di pane non si spreca e non si butta mai, anzi se cade per terra lo si raccoglie e lo si bacia. Inoltre, sulla tavola apparecchiata, il pane intero, cioè ancor prima di essere affettato, si posa sempre senza mai capovolgerlo … Viene preparato … in casa utilizzando la farina di grano “cappello” (duro) e la vecchia “maidda” di legno, e rispettando le tecniche dell’impasto fatto con le mani, i tempi di lievitazione naturale e quelli di riposo; nel vecchio forno a “frasche”.[xix]

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Il pane prima di entrare nel forno (Melissa).

Il forno era gestito dalla “furnara”, la quale oltre al compito di infornare e curare il pane, spesso provvedeva anche alle “frasche” (fronde di ulivo, quercia e cespugli). L’impasto fatto a casa dentro una “majidda” era portato al forno in apposito cesti. Nel forno poi era fatto a vari pezzature (scanare il pane) e lo si metteva a cuocere. Fatta la cottura il pane era portato a casa e si metteva nel “cannizzo” in legno, che era appeso al soffitto, sia per arieggiare il pane, sia per ripararlo dai topi.[xx]

Dalle “Memorie storiche sul Novecento” del Generale Prof. Salvatore Gallo a Zinga. Per confezionare il pane “in linea di massima si preferiva utilizzare semolato di grano duro per circa il 75% e per la restante parte grano duro (la cigna). La lavorazione iniziava con la setacciatura della farina per mezzo di un setaccio (‘u crivu) a rete stretta. All’impasto, formato con acqua e farina, si aggiungeva il lievito (‘u livatu), detto anche crescente o levato. L’impasto così preparato veniva lasciato fino al momento del suo impiego. Quando l’impasto era ben amalgamato si passava alla “pezzatura”, nel senso che la pasta veniva modellata a mano per assumere più spesso la forma tonda e quindi i vari ritagli venivano coperti e posti a lievitare per circa un’ora su tavole di legno. Prima di disporre i pani nel forno su ciascun pezzo veniva effettuato un taglio superficiale (a forma di croce bene augurante) per evitare nei pani stessi aperture disordinate. Il pane veniva cotto in forni a legna, che erano tipiche costruzioni in lastre di pietre e con cupola in mattoni di argilla.”.[xxi]

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I segni del pane (San Giovanni in Fiore).

Il giorno fissato si chiedeva “a lla furnara” del forno prescelto “’u levatu” con il quale preparava “‘a criscente”, un impasto di circa un Kg di farina da far lievitare una notte, tenuto al caldo mediante coperte di lana. Nel frattempo “cernita” la farina nell’apposita “majilla”, una prima volta “cu llu crivu o cerniglia e la caniglia”, una seconda con quello “e ra granza”… Quando si considerava “’a criscente” ben lievitata, di buon mattino, si diluiva con acqua tiepida salata in giusta misura e veniva incorporata alla farina nella “majilla”, ‘mpastannula” a mano. L’impasto veniva coperto con coperte di lana per la dovuta lievitazione, quando era pronto, la fornaia riscaldava il forno “cu fascine e mucchi” e portava a casa le tavole per il pane che veniva elaborato nella classica forma rotonda, del peso di circa Kg 1 … Quando il pane elaborato era stato messo sulle tavole, quasi sempre due, la fornaia lo trasportava al forno per la cottura …” La padrona di casa, legata da solidarietà cristiana verso i bisognosi, inviava o recava direttamente a loro uno dei freschissimi pezzi di pane … “viatu chine fa llu pane, amaru chine aspetta lla cullura”.[xxii]

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La sfornatura del pane (Melissa).

Le quattro fasi per la preparazione del pane DOC

La preparazione del pane avviene attraverso le seguenti fasi: 1) formazione del lievito: la sera precedente l’impasto viene preparato il lievito con 8-10 Kg. di farina dura più un Kg. di lievito conservato dalla “fatta” del pane precedente. 2) formazione della pasta all’interno dei tini di legno, le materie prime 80% di grano duro e il 20% di grano tenero vengono impastate a forza di braccia per circa 40 minuti fino ad ottenere una pasta omogenea ed elastica (livatu). La velocità delle braccia e la durata dell’operazione hanno notevole importanza sulla qualità del prodotto. 3) foggiatura al termine dell’impasto dopo circa due ore, si passa alla foggiatura, si preparano cioè le forme del pane (scanare). Le forme così ottenute vengono messe sul “tavulieru” e ricoperte con una coperta, per mantenere la temperatura costante 25-30° C. e si lasciano lievitare. Si interrompe la lievitazione ponendo il pane in forno. Quando la pasta è sufficientemente elastica, cioè quando, schiacciata con un dito, riprende con rapidità la forma iniziale. 4) cottura: il forno si prepara subito dopo la “scanatura”. Quando il forno all’interno raggiunge una colorazione biancastra, vuol dire che si è raggiunta la temperatura ideale per infornare le forme di pane. La cottura avviene alla temperatura di 250-350° C.. Si allontanano le braci e per prima si informano le “pitte” che richiedono una cottura di 15-20 minuti, dopo si inforna il pane che viene tolto dal forno dopo circa un’ora.[xxiii]

 

Note

[i] Iappella Armando, La saggezza dei nostri nonni, Proverbi, detti e modi di dire dialettali in uso a Belvedere Spinello, 2002, p. 52.

[ii] ASN, Fondo Pignatelli Ferrara, fs.15, inc. 51, f. 1.

[iii] ASN, Fondo Pignatelli Ferrara, fs. 1 inc. 48, f. 46v.

[iv] Maone P., Dominatori e dominati nella storia di Crucoli, Rossano 2000, p. 85.

[v] Sisca D., Petilia Policastro, Catanzaro 1996, p. 169.

[vi] ASN, Apprezzo della città di Policastro, 1711.

[vii] Arch. Com. Savelli, Apprezzo dell’Ing. Tavolario Giuseppe Pollio del 1760.

[viii] Vaccaro A., Kroton, I, 363.

[ix] SCC, Rel. Lim. Umbriaticen. 1634, f. 395.

[x] Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione di Cirò, Napoli 1849, II, p. 135.

[xi] Vaccaro A., Kroton, II, pp. 314-315.

[xii] Spina Lombardi E., Rocca di Neto, S. Giovanni in Fiore 2010, p. 239.

[xiii] Pugliese G. F., cit., II, p. 148.

[xiv] Spina Lombardi E., cit., p. 213.

[xv] Pugliese G. F., cit. II, p. 77.

[xvi] Le antiche tradizioni cutresi, s.d., p. 47.

[xvii] Giudice G., Shin Mikelli Shin Koll (S. Michele a S. Nicola), Catanzaro 1997, p. 175.

[xviii] Gentile C., Spigolando in Arberia, Multimedia 2016, p. 65.

[xix] Maffei E., Belvedere di Spinello tra scoperta e significati, Belvedere Sp., 1990, p. 74.

[xx] Cistaro S., Mesoraca, Soveria Mannelli 1996, p. 68.

[xxi] Tallarico G., Zinga, Publisfera 2006, pp. 117-118.

[xxii] Aragona G., Cerenzia, Crotone 1989, pp. 391-392.

[xxiii] Pucci A., Il pane DOC di Cutro, Il paese n. 10, 1988, p. 11.

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Le “verità” del signor barone di Melissa

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Arme dei Campitelli nella cappella di San Giuseppe della chiesa dell’Annunziata a Petilia Policastro (KR).

Il documento rinvenuto dal prof. Antonio Cosentino, presso l’Archivio di Stato di Napoli (ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fas. 15 inc. 51, ff. 2-11), dettagliatamente analizzato nel suo lavoro “Melissa Medievale e Moderna” (Ed. Grafosud 2001), costituisce una memoria giudiziaria prodotta del barone Gio: Maria Campitelli, al tempo in cui deteneva il feudo di Melissa (1561-1574), per difendersi dalle accuse mosse nei suoi confronti da quella università nel Sacro Regio Consiglio in Napoli.

n.b. Nella trascrizione sono state omesse le annotazioni esistenti al margine del documento.

Foto n. 2 Dia 359 Stemma Campitelli su portone chiesa S.Giacomo

Arme dei Campitelli posta sull’ingresso della chiesa di San Giacomo a Melissa (KR).

(f. 2r)

“Infrascritta Summarie offeruntur probanda in Sac.o R.io Cons.o et coram mag.co domino Vincentio de franchis, Reg.io Cons:io, et causae commisario per Mag.cum Dominum Jo(ann)em Mariam Campitellum Baronem t(er)rae Melissae: in causa, quam habet cum universitate dittae t(er)rae super praetensis gravaminibus oblatis, et alias ut in attis super quibus petit suos testes diligenter examinari ut Juris, et moris est, non se abstringens/ de ducens/ et protestatus de expensis/.

Inp.s contra dittam universitatem, opponit exp.nem carentiae, et in competentiae accionis, nullitatis de fettus juris agendi in libite vexattionis, et molestationis Cu. R.ia et omnem, et quamcumque aliam exp.em melius ei de jure competetem, et competituram o(mn)i m.ri modo.

Item si poni, aut probari contigerit contenta in primo gravamine, et che per la grande industria, che fa lo ditto magnifico Barone li particolari Cittadini di detta t(er)ra sono astretti andare fore lo territorio de Melsa à far loro industrie, et che puoi esso esige lo terraggio de fora detto territorio/ et alias ut in attis.

Exp.do t(ame)n, et nihil de intentione dittae un.tis confitendo, sed in finibus negationis semper persistendo: per quemcumque attum fattum, aut in futurum faciendum quantum cunque contrarium, diversum, aut penitus extraneum.

Pone, et vole provare isso mag.co Barone, come è utile S.re et Barone de detta t(er)ra de Melissa, et suo territorio con lo mero, et misto imperio, et jurisditione con la cognitione de le prime cause Civile criminale et miste, quale t(er)ra, et suo territorio e stato concesso et venduto alli suoi antecessori per li predecessuri Re del Regno di Napoli con li vassalli difise fida et disfida l’acque, et cursi d’acque, valli; monti: piani: Colli: Boschi, t(er)re culte, et inculte prati Molina trappiti passaggii, herbagii furni: Centimola, et integro suo stato in virtù deli Privileggii fatti, et concessi ut supra Montagne cersiti vigne feudi, et sufeudi oliveta, et giardini existenti in ditto territorio ad

 

(f. 2v)

quae probanda dittus Mag.cus Dominus Baron producit privilegia praeditta in vim probationis in illis passibus/ testibus tamen, et aliis probationibus non renuntiando.

Item pone, et vole probare esso ma.co Barone come in virtù di detti privilegii, tanto esso moderno Barone: per quel tempo è stato Barone, come l’altri Baroni soi ante cessuri, hanno tenuto, et posseduto, et al p(res)ente esso moderno Barone tiene, et possede ditta t(er)ra de Melsa con li vassalli citadini, et habitanti, et suo territorio con la cognitione di le prime cause civili, criminali, et miste co’ lo mero, et misto imperio, et giurisditione Banco de giustitia, rediti et proventi et intrate come vero S.ri et patroni di detta t(er)ra et suo territorio coglendo et percipendono de quelli l’intrate redditi et proventi, ch’ha diece anni, et piu vinti, et piu trenta, et piu quaranta et piu, et che non è memoria d’homo in contrario che ditti ante cessori Baroni di Melsa hanno tenuto, et posseduto detta t(er)ra et suo territorio ut supra come S.ri et Padroni come costa a quelli che dele cose p.tte hanno vera notitia, et scientia, quod est verum.

Item pone, et vole provare ditto ma.co Barone, come lo territorio de la t(er)ra de Melissa fo, et è amplo, et ampliss.o, et confina con lo territorio de la terra del zirò fin’ allo litto del mare, et per lo litto, litto per alcone miglia se ne va fin lo territorio, dela città di Stronguli, et se ne saglie, per un bono spatio, et confina co’ lo territorio de la t(er)ra de Casobono, et sagliendo verso le montagnie confina co’ lo territorio seu pertinentie de li casali de Santo Nicola, et Scalfizzi, et per un bono spatio calando abascio sene va, et gionge al primo confine de ditta t(er)ra del zirò sin come costa à quelli lo sanno, et è plubico notorio, et manifesto, et è la verità.

Item come ditto territorio de Melissa è bono fertile, et fertiliss.o, atto ad ogni sorte de massaria de grani, horgi lini fave bambace, et ogni altra sorte de ligumi atto commodo, et commodiss.o per industrie de bacche, pecore, crape, giomente, porci, et altre sorte d’animali abondante d’herbe d’acque lignia campi piani valli colli monti montagnie, et boschi come costa a quelli che dele cose praeditte hanno plena notitia.

 

(f. 3r)

Item come lo ditto territorio per essere grande amplo, et fertile, et massime d’acque, et herbe d’estate, et d’inverno non solamente nci pascolano, et fanno pascolare li cittadini, et homini di detta t(er)ra de Melsa, et t(er)re convicine: ma alconi cosentini deli casali de cosensa con loro bestiame, et in ditto territorio fanno massarie, et altre industrie non solamente l’homini de melsa: ma alconi homini dele t(er)re, et lochi convicini com’è stronguli Casobono lo zirò et altri lochi, et t(er)re convicine con loro conmodità, et guadagnio, et questo è la verità.

Item come lo ditto m.co Barone: per la capacità, et fertilità di detto territorio ha fatto, et fa, et è solito, et consueto fare esso et soi ante cessori alcon’industrie di bestiame, et Massarie di grani, horgii, et altri legumi senza impedire li detti cittadini, che faciano loro industrie et massarie, quale massaria esso m.co Barone lo più dele volte, et quasi sempre la fa in una parte del territorio di detta t(er)ra verso levante in la marina, qual loco è distante di detta t(er)ra da circa di cinquo miglia, et ci sono in mezo certi colli alti critusi, et di mala strata difficil’a camminarsi maxime l’inverno al tempo di le pioggie, et quest’è la verità.

Item come lo ditto loco dove lo ditto m.co Barone fa la massaria, et industria, è periculoso de turchi, cursari, et altri infedeli intanto che si esso non ci facessi detta massaria, et industria di campi l’altri cittadini ò non ci fariano la massaria cosi continuan.te ò si la facessiro non la poriano fare senza grandiss.o loro periculo di detti Turchi, et corsari, et in ditto loco, et territorio dela marina li predecessori baroni di detta t(er)ra hanno fatto le dette industrie, et massarie, ch’ha diece anni et più, vinti et più, trenta et più, quaranta et più et che non è memoria di homo in contrario pacificamente, et quietamente senza contraditione alcona, et quest’ è la verità.

Item come li detti suoi predecessori s.ri et Baroni di detta T(er)ra: per possire fare ditte massarie, et industrie con più securtà, et manco periculo in ditto loco, et territorio nella Marina edificorno una Torre vicino il litto del mare alloro proprie dispese, et quella posta in fortezza, fa stare alquanto più securi, et con manco pericolo de Turchi, et corsari li massari, et grarzoni di detto m.co Barone, et ditto loco dove fa et sono stati soliti fare detta massaria, et industria, è lo più periculoso loco di tutti li altri lochi del territorio di Melsa in tanto che,

 

(f. 3v)

quando si mete ditta massaria l’antecessori Baroni per lo periculo che nci era grande de li turchi, et per lo dubio che li metituri, et altri garzoni non fossiro pigliati deli turchi andavano, et soliano andare Alcone volte con cavalli giomente et homini armati a defensione, et guardia di detti metituri industrie, et massarie, et quest’è la verità.

Item come si detto mag.co Barone volesse fare detta massaria, et industria in altro loco di detto territorio, che dove la fa ut supra saria maggior discomodo, et più danno del’uni.ta et homini dela t(er)ra di melsa, et daria grandiss.o impedim.to alle industrie di detti cittadini, et l’industria del bestiame che far sole in ditto territorio et loco ditto m.co Barone consiste in certa quantità no grande di bacche da sessanta in circa più prosto manco che più, et sole fare industrie di pecore da circa quattrocento, di crape da sei cento in circa, in porci da circa dui cento in tricento quale bestiame sol’andare pascendo dentro detto territorio come pasceno pasceno, et soleno pascere lo bestiame di detti Cittadini et habitanti di detta t(er)ra et quest’è la verità.

Item come li citatini, et habitanti in ditta t(er)ra alloro volunta, et arbritrio hanno fatto et soleno fare tante industria di massaria, et bestiame com’om’altra sorte di industria come alloro ha piacioto et quest’è la verità.

Item pone et vole provare detto Mag.co Barone come ditto territorio de melsa è stato et è de detto s.r Barone et suoi antecessori et quello hanno posseduto et al p(rese)nte possede come S.re et patrone ut s.a cogliendo di quello renditi intrate et proventi intanto che s’alconi cittadini ò habitanti in Melsa hanno t(er)re vignie oliveti et altri possessioni, et robbe la maggior parte lo ter.no p.o et quasi tutte dette robbe sono reddititie alla baronal corte, et li patroni d’esse sono soliti et soleno pagare omne anno li renditi et censi alla baronal corte et ancora sono molti cittadini et habitanti che tieneno case et grutte dentro et di fora la t(er)ra di melsa et di quelle ancora anno per anno ne paghano lo censo et rendito alla baronal corte ut s.a et quest’è la verità.

 

(f. 4r)

Item come li detti cittadini de melsa per pura malignità, et per dannificare al detto m.co Barone hanno Cessato di coltivare lo territorio de melsa, et sono andati a fare le loro industrie di massarie seu campi fora ditto Territorio di Melsa in lo territorio di stronguli, del zirò, Calfizzi et Caso bono, et lo ditto territorio de melsa e restato in culto per loro culpa, et defetto.

Item come lo ditto m.co Barone ha hordinato et sol’hordinare più volte ai soi massari, pasturi et altri che guardano il suo bestiame et massaria, che attendano a guardare bene detti animali, et che non facciano danno à persona che viva riprendendole et fandole riprendere di soi fattori quando accadia farsi alcono danno: hordinando che detti danni si paghassiro et quest’è la verità.

Item come li homini ch’ha tenuto, et tiene detto m.co Barone per le dette industrie, et massarie, ha hordinato che siano paghati, et che paghino quello doveano donare alli pagan.ti et altri debiti et quest’è la verità.

Item come per la cura, et guardia di dette industrie, et massaria esso m.co Barone tiene, et sole tenire molti garzoni forasteri dele città t(er)re et lochi convicini, quali non sono fochi in ditta t(er)ra di Melsa, et di quelli detta t(er)ra non ne porta peso alcono di paghan.ti fiscali hordinari et extra hordinarii, et altr’impositioni et sono persone povere, che non possedeno robbe ne mobili ne stabili in detta t(er)ra di Melsa et suo territorio, et quest’è la verità.

Item come ditto m.co Barone in nante, che fosse mota lite da detta uni.ta contra esso ditto s.r Barone era ben voluto, et amato da molti cittadini di detta t(er)ra di Melsa, et per l’amore che detti cittadini li portavano ditti cittadini li donavano, et erano soliti darli alcone giornate alle massarie, et altre industrie tanto con loro boi, come con loro persone gratis tanto in lo tempo delo siminare, quanto in lo tempo de lo metere, et recogliere dette masserie et cosi ancora soliano fare detti cittadini alli soi antecessori baroni di detta t(er)ra, et in recompensa detto s.r Barone et suoi antecessori faciano et soliano fare molti piaceri et gratie alli detti soi vassalli.

 

(f. 4v)

Item com’à tempo delo metere dela massaria sua esso m.co Barone et soi fattori ultra Alcone giornate che l’erano date per amore gratis dali detti suoi vassalli conducia metituri necessarii allo metere di sua massaria giorno per giorno, et quelli paghava quando à quindici grana lo di quando à doi carlini quando à doi e mezo, et più e manco secondo andavano alla giornata, et loro facia le spise di pane carne et altri companaggii mediante ditto salario recoglia et solia recogliere detta massaria; et s’alconi vassalli alcone volte veniano ad aggiotarlo al detto metere ci veniano et soliano venire de loro bona voluntà senza che fossiro altram.te constretti da esso soi officiali ò ministri et quest’è la verità.

Item come le vignie quale tiene esso s.r Barone in lo territorio di Melsa sono vigne feudali spettanti et pertinenti à detto feudo parti, et membri di quello sin com’appare per lista data in la R.ia Cam.ra dela summaria: tanto in tempo di la morte del q.o m.co Gio: Laurenzo campitello bis’avo di detto moderno barone: quanto in tempo dila morte del q.o m.co Gio: bap.to campitello suo avo, quale si produce si, et in quantum testibus non renuntiando, et quest’è la verità.

Item come in ditta t(er)ra de melsa la maggior parte deli citatini in Cole habitanti, et commoranti in quella, et quasi tutti sono villani, soliti exercitare industrie rustiche, et far’exertitii rustici, et manuali, et fanno l’industria di massarie la maggior parte con le mani proprie, et alconi con loro grarzoni con loro boi aratorii, et fanno industrie di bacche porci crapre et altri animali chi di mano propria, et chi con loro garzoni ut sup.a et alconi sonno artigiani custoleri, et scarpari et tanto loro quanto li loro antecessuri et cittadini p.tti hanno fatto industrie, et arti rustice con le proprie personi et mani, et per tali sono tenuti trattati et reputati comun m.te et generalm.te et quest’è la verità.

 

(f. 5r)

Item come le dette vignie d’esso s.r Barone sono site et posite in lo territorio di detta t(er)ra di Melissa, et una parte di quelle è vicina circa un tiro di scoppetta pocopiu, et l’altra parte è vicina da circa un mezo miglio di via à ditta t(er)ra de melsa: de modo che con comodità grande si puo far il detto servitio tanto di putare zappare et arare dette vignie quanto di vindignarle, et quest’è la verità.

Item com’esso m.co Barone in la ditta t(er)ra de melsa et suo castello tene una casa hordinata, et benfornita di tavole de magnare, seggie, riposto rame ferro, et altri istromenti necessarii per uso et conmodo in sua casa, che più presto isso accomoda li cittadini et puo accomodare in tempo di besognio, che donar à loro fastidio, et ditti cittadini, et vassalli generalmente et quasi tutti in le loro case viveno rusticanam.te, et stanno mal’in hordine di tavole seggie lettere letti et altre massaritie di casa, et si alconi l’hanno sono di mala manera quod fuit.

Item come s’alcona volta occorressi à detto s.r Barone fare qualche banchetto o pigliarse qualche piacere d’inverno ò d’estate ditto s.r Barone ha hordinato, et sole hordinare à soi s.ri et ministri, che comperino tutto lo besognio, come sono galline, pollastri porchetti Crapetti et altre cose necessarie da quelli che le voleno vendere, et quest’è la verità.

Item qunado occorre mandare alcono corriero in alcono loco dile provintie di calabria ò forà in Napoli per lo Regno ò extra regno sempre ha phagato et fatto pagare Il giusto, et competente salario secondo la distantia deli lochi dove le manda con darloro dinari avanti mano, et supplir poi al ritorno quel tanto che loro toccasse di raggione, et quest’è la verità.

Item come li citadini di detta t(er)ra et vassalli si teneno alcone giom.te et cavalli la maggior parte di dette giomente et cavalli sono di vettura, et ditto s.or Barone alcone volte chel’ha pigliate, l’ha pigliate per lo benefitio publico et persecustione di foresciti et deitti s.or Barone in tali casi s’ha servuto di cavalli et giomente sue insieme con quelle et quando si fornia et pigliava per suo

 

(f. 5v)

besognio di detti cavalli, et giomente li patroni di detti cavalli et giomente ci le n’prestavano amorevolmente per qualche giorno come amorevoli vassalli, quod est verum.

Item come lo ditto m.co barone per l’incommodità grande che in ditta t(er)ra di Melsa di giomente, et Cavalli esso tiene in la stalla, et campagna da circa dece ò quindici tra giomente, et cavalli, et più et occorrendo Il besognio fa fa pigliare de detti cavalli, et giomente et di quelli seserve tanto d’extate come d’inverno tanto per la provintia quanto per fora la provintia et questo è la verità.

Item come s’alcona volta son stati emanati banni ch’alconi principali di detta t(er)ra si comperassiro cavalli ò giomente quest’è stato a causa, che ditta t(er)ra di Melsa è alla marina de levante et sta vicina al mare da circa quattro in cinquo miglia et per li continui invasioni de turchi, et corsari è necessario far fare le guardie la maggior parte del’anno alla marina per scurrere detta marina, et dar’aviso quando compareno turchi, et corsari: perche non fandose dette guardie al spisso se pigliariano in ditta marina da ditti turchi et corsari homini, et animali de ditta t(er)ra et si correria da detti turchi fin la t(er)ra de modo che facilmente soccederia la roina di detta t(er)ra capitando corsari in ditta marina, et quest’è la verità.

Item come ha diece anni et più: vinti et più, trenta et più, quaranta et più, et che non è memoria d’homo in contrario che li baroni et utili s.ri di detta t(er)ra de melsa che per tempore ci sono stati hanno fatto, et soleno far fare banni che alconi principali di detta t(er)ra si comprino giomente et cavalli et fatto comperare ditti cavalli, et giomente, et quelle puoi fatto stare in hordine per lo besognio in ogni tempo, ch’occorressi suspicione di turchi et corsari, et quest’è la verità.

Item exp.n.do ut s.a pone et vole provare come l’uni.tà de melsa fece publico parlamento per lo quale hordinava, che tutti quelli personi, che havessiro defraudato l’apprezzo et catasto di loro robbe, et non havessiro tutte loro

 

(f. 6r)

robbe poste in ditto apprezzo l’havessiro perso tutto quello che fraudavano, et denegavano, et volendo puoi revocarse per alconi è verisimile che detto s.r Barone havessi hordinato à soi offitiale et ministri, ch’havessiro mirato à dette fraudi et provisto de giustitia conforme alla raggione.

Item come s’alcona volta, esso m.co Barone anda fora de detta t(er)ra di melsa, et suo territorio besogniandoli compagnia sole pregare, et far pregare alconi soi vassalli et servitori che li vogliano fare compagnia, et quelli ci vanno di buona voglia, et libera voluntà loro fandole andare alcone dele volte a cavallo et alcone volte a piedi con quelli meglio vestiti che possiano havere et amorevolmente et di loro bona volunta è quest’è.

Item come ha dece anni et più, vinti et più: trenta et più: quaranta et più, et che non è memoria de homo in contrario, che in la t(er)ra de melsa ci sono stati et al presente ci sono li trappiti dela baronal corte, et li vassalli, et cittadini di detta t(er)ra sono andati, et soliti andare amacinare le loro olive in ditti trappiti, et pagare per raggione di detta macinatura s’have exatto la macinatura secondo lo solito antiquo ut s.a et questo è la verità.

Item com’in ditta t(er)ra de melsa non ci sono altri trappiti che quelli dela baronal corte et quando alconi di detti cittadini havissiro tentato di farne altri novi sono stati proibiti, et con detta prohibitione quelli s’haveno quietato, et sono andati a macinare le olive alli trappiti dela baronal corte et quest’è la verità.

Item come da tempo antiquo, et antiquiss.o che non è memoria d’homo in contrario li citatini, et vassalli di detta t(er)ra de melsa, sono stati prohibiti sempre di fare novi trappiti, et quelli hanno consentuto à detta prohibitione, et sono stati patienti andando a macinare le loro olive in ditti trappiti de ditta baronal corte donando per ciaschiduna macina d’olive quel tanto, ch’è solito exigersi, et quest’è la verità.

Item com’è solito, et consueto li baroni di detta t(er)ra di melsa tanto lo moderno quanto li soi antecessori baroni che protempore sono stati constrigere li cittadini et

 

(f. 6v)

vassalli à portare cinquo salme di paglia l’anno in casa di detto s.r Barone, et così s’ha osservato, et costumato pacificam.te, et quietam.te senza contradition’alcona, et quest’è la verità.

Item come la ditta paglia se porta in casa di detto Barone à tempo de la recolta da dentro il territorio p.tto et dali lochi più vicini et l’inverno puo ditta paglia serve nonsolamente per uso, et commodo de ditto m.co Barone, ma per l’officiali R.ii hordinarii, et delegati, quali alcone volte alloggiano, et soleno alloggiare per transito in ditta t(er)ra de Melsa o vero per alcono besognio ch’accade venire in ditta t(er)ra per alcono R.io s.rio, et lo ponere, et portare di detta paglia à tempo de l’extate è utile à detti vassalli: perche altramente non fandose al tempo del’exta p.tta la monitione di detta paglia venendo ditti R.ii officiali sariano astretti andar’atrovarla di fora con gran travaglio et fatiga, et questo è la verità.

Item come s’alconi vassalli di detta t(er)ra havessiro portato in casa, et castello di detto s.r Barone ligumi, et vittovagli, che fa nello suo territorio l’hanno portato gratis di loro spontanea voluntà senza forza, et violentia alcona, et quelli cittadini che non hanno voluto fare detto servitio gratis non sono stati forzati à farlo senza salario, et quest’è la verità.

Item come la guardia dela torre delamarina è necessaria, et necessariss.a atteso detta torre sta vicina al capo dela lice, et li turchi, et corsari soleno fare al spesso correrie, et fare fare per quella marina et soleno fare gran preda tanto d’homini quanto d’animali, et si non si facessiro le guardie ordinarie in detta torre ne nasceriano roine grande non solam.te per la campagna ma nella propria t(er)ra d’homini et donne, et gran quantita di robbe che saria pericolo d’essere abruggiata detta t(er)ra per causa che detta Torre et li guardiani d’essa soleno di giorno, et di notte far segnio quando hanno nova di corsari, et subito che sono scoperte fuste ò galere di turchi et corsari tanto di notte come di giorno ut supra donano aviso et sparano maschi atal con quello segnio piu presto et conmodam.te lo sappiano li massari sono fora la t(er)ra in loro massarie et la t(er)ra ancora et si possiano salvare et provedere al besognio ut s.a et quest’è la verità.

 

(f. 7r)

Item come lo presento che la detta uni.ta de melsa dona et sole donare le feste de Natale al ditto s.r Barone ditto p(rese)nto siporta, et sole portare spontaneamente et di loro libera et spontanea voluntà deli sindici, et eletti di detta t(er)ra de melsa per hordine di detta uni.ta amorevolm.te et non per forza, et quest’è la verità. Et è solito et consueto, che multe universitati, et t(er)re di baroni portano lo p(rese)nto in le feste di Natale al s.re et Barone del loco amorevolm.te in segnio di benivolenza, et alconi lo portano in denari, et cosi s’ha observato, et s’osserva per molti lochi, et t(er)re de la provintia di Calabria, et quest’è la verità.

Item come s’alcona volta lo detto m.co Barone, et sui officiali , hanno constretto li detti vassalli et cittadini a portar calce alloro spese è stato per ca.so necessaria per fabricare riparare, et munire alconi lochi fiacchi dela detta t(er)ra per dubio deli Turchi corsari, forasciti et altri nemici, et per accomodare le strate dentro ditta t(er)ra: quale per essere posta in loco muntuoso et multo declive, et pendinosa che quasi da continuo ha besognio de reparationi per le lave, che scorreno per dentro detta t(er)ra in tempo dile piogge, et quest’è la verità.

Item come da tempo antiquo, et antiquissimo, et da tanto tempo che non è memoria d’homo in contrario, è stato sempre solito in ditta t(er)ra che quando vieneno alconi forasteri ad habitarvi d’exigere da loro cinque, sei, sette, otto fin dece carlini, et più per raggione di fida: atteso quelli tali godeno de tutte le conmodità del suo feudo, et territorio di sua t(er)ra come sono acque herbe lignia et altre conmodita, et quest’è la verita. Et ditta fida non solam.te s’esige et sole exigere non solamente in ditta t(er)ra di melsa ma in li lochi et t(er)re convicini com’è la cita di santa severina stronguli et lo zirò et lochi convicini ut supra et così s’ha observato, et observa de tanto tempo che non è memoria d’homo in contrario, et quest’è la verità.

Item come da tempo antiquo et antiquiss.o s’è costumato in detta t(er)ra de Melsa, che li m.ci Baroni che pro tempore sono stati in detta t(er)ra non solam.te hanno posto et fatto ponere le guardie in la marina a spese di detta universita ma anche per lo dubio et sospicione di turchi et corsari l’hanno posta et fatto ponere detta guardia in le porte di detta t(er)ra di melsa a tempo di notte et quelle hanno fatto guardare per hor.ne loro per mezo del mastro giurato, per la suspicione et invasione di turchi et de di ancora è solito et consueto farsi guardare dette porte per lo dubio et sospicione di detti turchi in tempo

 

(f. 7r)

che ci è nova et sospicione di turchi et corsari adispise di essa uni.ta et questo è la verità.

Item come in tempo che lo detto m.co Gio: maria è stato Barone, et s.re di detta t(er)ra di Melsa: non solam.te è continuato lo timore deli turchi per mare: ma è tanto augmentato lo numero di forasciti, che non solam.te predavano le campagnie ma entravano nelle città, et t(er)re murate, et conmettevano molti homicidii furti, et rapine in danno deli cittadini et habitanti, et quest’è la verità.

Item come detti forasciti persequitavano multi cittadini et principali di detta t(er)ra, et cercavano d’haverle per le mano componerli et amazzarli et più volte se disse per piu et diversi personi che detti forasciti volevano intrare dentro detta t(er)ra di Melsa, et abuscarse in quella per fare molti homicidii, et amazzare à quelli forno et amazzorno Gio: bianco forascito, et rebelli dila corte et fare altri arobbi et delitti non senza grandanno, et interesse deli cita[di]ni, et habitanti in ditta t(er)ra, et quest’è la verità.

Item come la guardia dele porte di detta t(er)ra di Melissa è necessaria alli citatini habitanti, et conmoranti in ditta t(er)ra, et non ad esso Barone, sua casa et famiglia perch’esso tiene il suo Castello posto in una sommità et loco eminente: et più alto che siano tutti li lochi di detta t(er)ra, et ditto castello è forte con arteglieria de ferro scopette et balestre et altre arme in astate, et in ditta t(er)ra non ci è arteglieria si non alcone scopette de modo che non è tanta forte quanto Il castello che si non si nce facissirò le guardie s’occorressi invasione di turchi repentinam.te si poria patir danno assai et quest’è la verità.

Item più volte sono stati emanati banni dali soperiori per la guardia de le t(er)re et lochi habitati sincome appare per li banni quali si produceno si et inquantum testibus non renuntiando.

Item come detto m.co Barone tiene comperati in ditta t(er)ra de melsa docati Cento ottanta tre di pagamenti fiscali quelli exige ogn’anno et fa exigere in virtù delle sue cautele et quest’è la verità.

 

(f. 8r)

Item com’esso m.co Barone ha sempre paghato, et fatto pagare del suo erario l’adoha, donativi, et altri inpositioni dela R.ia corte: quali li conpeteno come s.re di detta t(er)ra sincome appare per polissa di pagamento quali si produceno si, et inquantum testibus non renuntiando.

Item come s’alcona volta Il R.io tesaurario de calabria citra havesse pigliato alcona quantità di denari mandati alla R.ia Banca per detta uni.tà et compotatoli all’adoha, ò altra impositione, che havesse à adare Il detto m.co Barone quelli puoi sono stati excomputati alla detta università alli R.ii pagamenti fiscali quali si deveno al detto s.r Barone, et quest’è la verità.

Item come s’alcona quantità di denari sono stati exatti dala detta università è stato per causa del maritaggio dela magnifica Polita Campitella, moglie del mag.co Gio: thomaso caracciolo: quale l’anni passati fo maritata al detto m.co Gio: thomaso con promissione de ducati quattro milia com’appare per li capitoli matrimoniali quali si produceno si et inquantum testibus non renuntiando.

La difisa de perdicare

La difisa de saccora et lo vecchio

La difisa delo vecchio

Item come le sup.tte difise in detta Rubrica descritte sono defese antique et antiquiss.e solito guardarsi d’antiquo, et antiquiss.o tempo ch’ha dece anni et più, vinti et più, trenta et più, quaranta et più, et che non è memoria d’homo in contrario continuatis temporibus com’al p(rese)nte ancora sono state guardate et custodite come difise antique, antiquiss.e et li citatini vassalli, et habitanti di detta t(er)ra sono stati vetati, et prohibiti che non ci possiano pascolare con loro bestiame, et s’alcono nci è intrato ò fatto danno all’erbe ò aglianda di quelle sono state pigliati li dannificanti per lo baglio et li sono state exatte le pene solite et consuete, et quest’è la verità.

Item come l’Erbe et agliande di dette difise in sup.tta rubrica contente et descritte de tempo antiquo, et antiquiss.o che non è memoria d’homo incontrario contino

 

(f. 8v)

alis temporibus sono stati venduti per li Baroni di detta t(er)ra che per tempore sono stati à varii, et diversi comperatori quali puo se l’hanno pascolate con Bacche, porci, et altri animali, et l’affittaturi et comperaturi di quelle hanno prohibito infinite volte li ditti vassalli cittadini et habitanti di Melsa di non intrarce ne pascolarce con loro animali et questo è la verità.

Item come s’alcono citadino ò forastiero, havessi dato danno nell’herba ò aglianda di dette difise in detta rubrica descritte con boi vacche porci crape ò altri animali, et quelli sono stati pigliati in fraganti far danno in dette difise detti animali sono stati pigliati dali guardiani et lo piu dele volte deli baglii, et alcone volte portati per detti guardiani in la t(er)ra di melsa et dati in potere del comperatore dela baglia o del cap.io et non sono stati scapolati finche non hanno pagato lo danno et la pena com’è Il solito et litocca et quest’è la verità.

Item come dette difise in ditta rubrica descritte sono state guardate et custodite per camere chiuse da tempo antiquo antiquiss.o per quello tempo si guardano in faccie di essa uni.ta p(rese)nti li sindici, et eletti, et altri hordinati per essa uni.ta et creati; stati consentienti et non contradicenti et quest’è la verita.

Item come lo detto m.co barone non ha fatto ne fa altre difise nove m’attende à far guardare, et custodire le dette difise antique in detta Rubrica descritte, et n’ha sempre prohibito per quel tempo si guardano et prohibisce al p(rese)nte tutti animali de citatini, et forastieri che venessiro a far danno all’erbe et agliande di quelle con intercipere l’animali dannificanti con levar le pene, et li danni ut s.a et questo è la verita.

Item com’è antiquo, et antiquiss.o solito in ditta t(er)ra di melsa di fare guardare et custodire li prati seu mezanili deli boi aratorii à raggione di dece tumulate per paro di boi in circa: lo prato del’agnelli al covicino di la mandra, Il prato delo baccarizzo seu stazo dele bacche da una balestrata intorno Il stazo et baccarizo: secundo la quantita deli agnelli et bacche figliate, detti prati sono soliti guardarse et custodirse dal primo di settembre fin alli tempi soliti et consueti guardarnosi et cosi s’ha osservato et osserva da tempo antiquiss.o ut s.ra et è la verita.

 

(f. 9r)

S.ta Dominica

Item come havendo li predecessori baroni de detta t(er)ra da tempo antiquo et antiquiss.o exatto et solito exigere certa pena deli bovi et altri animali che s’havissiro trovato pascolare in fraganti dentro un certo territorio vicino la t(er)ra dove al p(rese)nte nci sono aliviti ditta uni.ta di melsa vinne in conventione con lo ante cessore barone di detta t(er)ra di donare ditta uni.ta a ditto m.co barone lo territorio di santa Dominica per difisa et camera chiusa che nci potessi exigere le pene et prohibire di pascolarci com’è difisa in scambio detto s.r Barone l’havessi remisso come li remisse la raggione tienia d’exigere dette pene in ditto territorio vicino la t(er)ra et a questo accordio et conventione restaro de loro libera et spontanea volunta et in virtu di detta conventione ditto s.r Barone passato et Il p(rese)nte m.co moderno Barone hanno tenuto et posseduto ditta difisa di S.ta Dominica ch’ha dece anno et più vinti et piu et da trenta in circa ipsi universita sindici et eletti p.tti p(rese)nti consentiendi et non con.adicenti ad quae probanda producit instrumentum in vim probationis in illis passibus/ testibus tamen non renunciando.

Item come detta difisa de S.ta Dominica tanto per ditto s.r Barone: quanto per suo avo, et antecessore è stata guardata, et fatta guardare, et brohibiti li cittadini, et habitanti di ditta t(er)ra di ditta t(er)ra di melsa che non ci pascolino con loro bestiame, è estata venduta per detti baroni et quelli che l’hanno comperata l’hanno pascolato come difisa di detto barone, in vertu di detta conventione in faccie, et presentia di essa uni.ta di melsa sindici et officiali di detta t(er)ra ipsi p(rese)nti consentiendi, et non contradicenti et quest’è la verita quale difisa esso s.or Barone l’ha posseduta et al p(rese)nte tene et possede come s.re et padrone cogliendo di quella li frutti redditi et proventi così come l’ha tenuta et posseduta per molti anni et tempo Il s.r gio: bap.ta campitello suo avo et predecesor barone di detta t(er)ra.

La difisa d’arcomanno

La difisa de petro pauliti

La difisa de fraghala

Item come dette difise in supraditte difise contente non sono difise fatte nove per detto s.or Barone: perche esso s.r Barone moderno l’ha tenuto et possedute come s.re et patrone cosi come le tenia et possedia come s.re et patrone lo q.o s.or Gio: bap.ta Campitello suo avo et predecessore barone di detta t(er)ra che le possedette da dece anni et piu quindici et piu in faccia et p(rese)ntia di detta uni.ta sindici eletti di essa p(rese)nti consentienti et non contradicenti et ditte difise descritte in la sup.ta rubrica le vindia alli comperatori de essa et questo è la verità.

 

(f. 9v)

Item come tutte le difise che ditto s.r Barone tiene et possede int.o lo territorio di melsa se guardano, et soleno guardare tanto per detto s.r Barone q.anto per li predecessuri et le soleva fare guardare d’altri et cosi ancora li comperatori di dette difise le guardano, che non ci intrino bestiame di citatini conmoranti et habitanti in la t(er)ra di melsa da le prime acque de settembre fin li quindici de maggio et dapuo passati li quindici de maggio li citatini di ditta t(er)ra di melsa et conmoranti in essa ci mitteno et pascolano in comune con l’animali di detti affittatori in dette difise de modo che detta uni.ta et homini di quella ne senteno qualche conmodità, et utilita.

Item come ditto s.r barone ha tenuto et posseduto et al p(rese)nte tiene, et possiede, lo territorio di melsa come s.re, et patrone di modo che s’alconi citatini vassalli conmoranti et habitanti in ditta t(er)ra ò altri forastieri siminano et fanno massaria in ditto territorio che non sia inpatronato ò pigliato à censo di detto barone et suoi antecessori: ditta massaria non la fanno ne ponno fare ne pigliare parte di detto territorio per fare massaria si prima non donano notitia all’erario dela baronal corte con lo quale intervento hordine et volunta del quale si singa Il territorio dove havendo di far massaria, et puo lo cultivano, et siminano, et di dette t(er)re ne portano dunano et soleno donare lo terraggio a detta baronal corte a raggion di decima ziò è da ogni diece t.na di grano che fanno in ditte t(er)re siminate nde donano et soleno donare uno alla baronal corte di modo che ne donano la decima per ditto terraggio et così s’ha observato et costumato et al p(rese)nte s’observa et costuma intro l’[….] et maggior parte del’homini dela t(er)ra di melsa ch’ha diece anni et piu [vinti et piu] trenta quaranta et piu che non è memoria d’homo in contrario, et quest’è [la verità.]

Item come esso m.co barone ha fatto guardare altri lochi che le dette difise son[o …] lo prato deli boi aratorii di seu mezanile dili boi di sua massaria, lo prato [de] l’auni dele sue pecore ò di fidaturi lo prato delo stazzo dile sue bacche quali prati ha guardato et puo guardato et puo guardare et se soleno guardare da tanto tempo che non è memoria di homo in contrario et cosi s’ha costumato et observato et al presente si costuma et observa et questo è la verità.

Item come li ditti prati seu mezanili deli boi aratori et prati deli agnelli et stazzi da tento tempo antiq.o et antiquiss.o che non è memoria d’homo in contrario non sulam.te in la t(er)ra di melsa et suo territorio ma per le citta t(er)re et lochi convicini et per la maggiorparte dile t(er)re et lochi dila provintia di calabria s’hanno guardati et custoditi per lo conmodo deli boi aratorii deli agnelli et armento di bacche et cosi s’ha osservato et costomato et al p(rese)nte si costuma et observa.

Item come ultra li detti prati de bovi agnelli et bacche è antiquiss.mo solito, et consueto in detta t(er)ra di guardare, et far guardare lo prato del taglio per uso et conmodo deli Cavalli et giomente, et altri animali di detto m.co Barone: quale prato sempre è stato guardato et custodito in lo territorio di detta t(er)ra da tempo antiquo, et antiquiss.o et inmemorabile et di tanto tempo che non è memoria di homo in contrario et al p(rese)nte si fa guardare da esso m.co barone et cossi se ha osservato da tutti et questo è la verita.

 

(f. 10r)

Item come li detti prati, et mezanili di boi aratorii di agnelli dile bacche atorno il baccarizzo seu stazzo, et prato di taglio sono necessarii per la conservatione deli detti animali: perche li detti bovi aratorii non potriano arare, ne coltivare la t(er)ra sinò havessiro prato guardato atorno Il baccarizzo guardato dal’altri animali, li agnelli non potriano vivere, ne crescere senza herba del prato ben guardato, et le bacche non potriano allevare li loro vitelli sinò havessiro Il prato guardato intorno Il baccarizzo almeno per una balestrata, et le bestie Cavalli, giomente et muli di casa non si potriano mantenere conmodam.te Il mese di aprile, et maggio: senza lo prato delo taglio, et quest’è la verità.

Item come ancor che si fanno li prati preditti di bovi aratorii di agnelli stazzi di bacche et prato di taglio per uso, et conmodo deli animali del detto m.co barone: niente di meno Il territorio di detta t(er)ra è tanto amplo, et fertile di herbe, che li citatini, et habitanti si fanno essi ancora li detti loro prati, et mezanili per uso et conmodo loro tanto deli bovi aratorii quanto deli altri loro animali et questo è la verità et niente di meno resta tanta conmodita di erba per il resto del territorio p.tto che non solam.te l’Animali di citatini p.tti ci pasceno: ma si fidano ancora bestiame forestiera et tutti nci pascolano comodam.te et questo e la verita.

Item come la difisa del’aglianda è antiqua et antiquiss.a et s’ha guardata et sole guardare et custodire da tanto tempo che non è memoria di homo in contrario de modo che nesciuna sorte de bestiame deli citani di detta t(er)ra per certo tempo del’anno nci intrano a pascolare detta aglianda ò farci danno: ma ditta difisa è stata de esso m.co Barone et suoi antecessori secondo lo solito et consueto dila t(er)ra di melsa et l’ha vinduta et affittata ad altri et così s’ha observato et costumato et questo è la verita.

[Ite]m come la difisa de la spica è puro antiqua, et atiquiss.a et se sole guardare, et custodire, et da quella sono stati prohibiti tutti animali tanto de citadini come de foresteri, et così è stato visto observare, et custumare ne s’ha visto costumare, et observare Il contrario et cosi è la ve[rita.]

Item come tanto la difisa del’aglianda quanto la ditta difisa dela spica sono state guar[date] et custodite da tempo antiquo, et antiquiss.o nel proprio territorio di esso m.co barone et suo predecessore et mai sono state fatte a terreni di particolari tranne a forasteri et questa è la verità.

Item come lo giardino sobto la t(er)ra quale si domanda lo campo è giardino alborato di celzi fico pira mila olive viti cotogni pruna rose, et altre sorte d’albori, et in mezo di quello sta cavato un puzzo, et in ditto giardino ci è fabricata una casa molto necessaria per uso, et conmodo d’esso s.r Barone sua casa, et famiglia, et in loco appartato del pu[blico] pasci vaglio d’animali deli citatini, et habitanti in ditta t(er)ra, et questo è la verita.

Item come è stato solito, et consueto in ditto giardino delo campo exigersi la pena di [            ] ultra lo danno fossi dato alli alberi, di detti giardini, et li banni che si danno sono per avertire li detti citatini che si guardino li loro animali a fin che non facciano danno in detto giardino, et questo e la verita.

Item exp.do ut sup.a pone et vole provare esso m.co barone come la fontana de Giacchetta e sita et posita dentro le proprie robbe, et terreno di esso s.r Barone in ditto loco di giachetta dove esso S.re barone have vigna, et giardino et ditta fontana è in ditto giardino dove nci sono laranci, quale giardino et vigne, sono sopra la terra seu castello di melsa et ditta fontana l’ha tenuta et guardata per uso proprio di sua casa et ha prohibito et al p(rese)nte prohibisce li citatini et habitanti di ditta t(er)ra di melsa che in quella non vadano a pigliare acqua et quest’è la verita.

 

(f. 10v)

Item come detta uni.ta de melsa tene piu et diverse fontane et lochi publici de pigliare acqua in varii et diversi lochi di detto territorio di melsa, et di quella s’hanno servuto sempre et si serveno universalm.te pacifice et quiete senza contradizione alcona, et quest’è la verità.

Item vole provare come la baglia di detta t(er)ra di melsa è membro principale dela ditta t(er)ra et feudo et si sole affittare à varii et diversi affittaturi anno per anno dal p.o di 7bre fin l’ultimo d’augusto quest’è la verità.

Item come lo baglio seu affittatore dela ditta baglia è ubligato guardare Il territorio di Melsa l’herbe di quello agliande l’arbori fruttiferi le vignie possessioni, et difise, et sulo da per se non potia guardare ditto territorio senza l’aggiuto deli cinquo baglii: quali si danno per l’universita, et quest’è la verità.

Item com’ha diece anni et piu, vinti et piu, trenta quaranta cinquanta et piu, et che non è memoria d’huomo in contrario, che la detta uni.ta di Melsa ha dato li cinquo baglii in aggiuto del baglio seu affittature principale di detta baglia q.ali cinquo baglii hanno aggiutato a ditto baglio principale in l’exercitio di detta baglia et questo è la verita.

Item come li ditti cinquo baglii, che protempore sono stati da tanto tempo che non è memoria d’homo in contrario hanno avuto pensiero di guardare detto territorio di Melissa le difise l’aglianda li prati et altre clausure di essi cittadini, ed dovonque hanno trovato darsi danno del’animali tanto deli citatini come delli foresteri in li ditti lochi lochi soliti proibirsi ditti animali l’hanno pigliati et portatole in potere del baglio principale et a quello consignatole secondo l’usu et antiquo solito di detta t(er)ra issi baglii in presentia d’alconi testimonii le pigliano et dapuo se ne vanno, et notano al libro del baglio et comperatore principale particolarmente tutte pigliate fanno in li p.tti lochi proibiti et da quelli esigeno nelli tempi soliti et consueti le pigliate et pene p.tte secondo Il solito et consueto, et fanno paghare li danni, et quest’è la verità.

Item come li detti cinquo baglii sono utili, et necessarii alla guardia di detto territorio […] utile di detta uni.ta cittadini habitanti et conmoranti in ditta t(er)ra di melsa si finche […] [terri]torio et lochi soliti guardati siano guardati et non dannificati dali homini […] et quest’è la verita.

Item come li detti baglii per lo piso ch’anno per la guardia di detto territorio et altri pisi, et fatighe [che fanno] in ditta baglia godeno alcone franchezze di loro persone et sono stati franchi d’alconi servitii personali et angarie et detti cinquo baglii participavano de molti lucri conmodi et emolomenti di detta baglia et s’occorrea trovare animali minuti maxime porci dare danno alle difise del’aglianda spiche ò altri lochi soliti proibirsi massime di forasteri quando non sono fidati amazano et ponno amazare uno di detti animali et quello si lo pigliano et soleno pigliare et di ditto porco amazato disponeno alloro libero arbitrio et voluntà et la chiamano la carnata et cosi ancora de li forasteri quali fidano per pascolare le spiche de alconi particolari ò dela difisa dila spica così di pecore anche li tocca la carnata del modo p.tto et quest’è la verità.

Item come detti baglii participavano et soliano participare di molti luchri et conmodi dele mandre che se fanno dentro Il territorio di melsa di crapetti agnelli caso ricotte et alconaltre cose, et participano anco d’alconi conmodi et luchri dele finaite per le finaite mandre che sono dentro lo territorio del zirò stronguli et casobono, et quelli lucri et conmoditati converteno alloro proprii usi conmodi et emolomenti et di detti lucri et emolomenti ne senteno et soleno sentire li baglii che per tempore sono stati gran conmodita et quest’è la verità et e stato osservato et costumato da ditti baglii quod est verum.

Item come si li detti cinquo baglii fossiro pagati in denari et non havessiro parte di detti lucri gagii et emolomenti conmodi di la bagliva risulteria gran danno et diminotione alla detta baglia: perche no partecipando

 

(f. 11r)

dali detti lucri, et conmodi non attenderiano con diligentia alla guardia del ditto territorio, ne circuleriano il detto territorio, ne cercheriano l’animali che ci donassiro danno, et sene dispreteriano di manera che lo detto territorio saria disfatto da ogni tempo saccheggiate l’herbe tagliati l’arbori et dannificate le possessioni et massarie con gran danno et roina tanto dela baronal corte quanto di essi cittadini et quest’è la verita.

Item come circondando li detti cinquo baglii lo territorio per la guardia d’esso facilm.te potiano pigliare da li dannificanti dinari ò alconi biveraggi alloro arbitrio et volunta et non si cureriano delo danno dila baglia di la baronal corte et delo danno deli citadini habitanti et conmoranti in ditta t(er)ra di melsa come fossiro certi ch’alloro non ponno mancare li sei docati l’anno per ciaschiduno vaglio per loro salario in loco di loro emolomenti et questo è la verita.

Item come Il detto antiquo solito deli detti cinq.o baglii è stato observato et costumato da tempo antiquo ut supra et approbato per l’experientia ch’è meglio alla baronal corte et alli citatini et uni.ta di melsa che ditti cinquo baglii habbiano li loro lucri gaggii et emolumenti che protempore si fanno alla giornata et circundando Il detto ter.rio che non è la paga et questo è la verita.

Item come li detti cinquo baglii da tempo antiquo, et antiquiss.o s’hanno exatti et sonno soliti exigere li censi dela baronal corte le finaite le fide et disfide et pigliate spettanti et pertinenti à ditto feudo et baglia et baronal corte et principali affittaturi di detta baglia et sono soliti dispignare tutti quelli che buttassiro mundizze per le strate et sono soliti exigere le pene dila detta baglia da al mese di agusto et quelle consignare al baglio principale per maggior conmodo et utilita dila ditta baglia et exattione di essa et questo è la verità.

Item come quando accasca che nci fossi nova di fuste di turchi assai et fosse besognio di mitterni securo li cittadini et habitanti di la detta t(er)ra esso m.co barone com’amorevole con soi vasalli fa reducere in lo suo castello li citadini et habitanti di detta t(er)ra per quanto ponno capire in ditto castello, con loro moglieri per conservatione del loro honore et in ditto castello li mariti si guardano loro moglieri et li frati le sori et cosi ogn’uno nel suo grado et quest’e la verita.

[Ite]m come detto m.co barone è Cavaliero honorato di bona conditione vita et fam[iglia] timente di Iddio et dela giustitia solito andare alla ecclesia et divini off[icii di] campare honoratamente et nobilm.te con le intrate sue et per tale [adprezza]to et reputato intro li homini, et maggior parte deli homini di la t(er)ra [di Melsa et] per dove è conosciuto et questo è la verita.”

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Vicende Feudali della “terra” di Policastro (sec. XI-XV)

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Panorama di Petilia Policastro (da www.panoramio.com).

Secondo alcuni, Policastro deriverebbe da Paleocastro, per il fatto di essere un antico insediamento.[i] Relativamente a questa interpretazione del toponimo, offrono riscontro le prime notizie ed i primi documenti, anche se, l’esiguità delle fonti e la loro incertezza, hanno condotto, a volte, ad attribuirlo ad altri centri omonimi o d’antica origine.[ii]

Policastro, diocesi suffraganea di Santa Severina di Calabria (Tῷ Ἁγίας Σευηρινῆς, Kαλαβρίας), compare nel rimaneggiamento della “Néa tacticà” o “Dispositio (Diatyposis)” pubblicata da Leone VI il Filosofo (886-911), che sembra potersi localizzare ad epoca anteriore al Mille, ma la cui redazione pervenutaci è del tempo di Alessio Comneno (posteriore al 1084) dove, nella “Notit. 3”, risulta: ὁ τοῦ Пαλαιοϰάστρου (“Palaeocastri”).[iii]

In precedenza, l’esistenza di questa diocesi non si rinviene nella distribuzione più antica della Diatiposi, che si fa rimontare alla seconda metà del secolo IX,[iv] né si ritrova in altre testimonianze successive. Essa non sarà mai ricordata, né nelle relazioni ad Limina degli arcivescovi di Santa Severina, né in altri documenti vaticani. A partire dalla metà del sec. XII e per tutto il XIII, sia le testimonianze greche che quelle latine, documentano solo l’esistenza della χώρας o “terra” di Policastro (Παλαιοκάστρου).[v]

 

La distruzione del castrum

Secondo le affermazioni del Malaterra contenute nel libro I della sua cronaca, durante la spedizione condotta in Calabria dal duca Roberto e da suo fratello Ruggero, che portò quest’ultimo ad espugnare alcuni “castra Calabriae”, nell’anno 1065 il “castrum” di Policastro fu distrutto e tutti i suoi abitanti furono condotti dal duca “apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat”.[vi]

Tale azione condotta contro il castrum di Policastro e contro quelli di “Rogel” (Rogliano ?) e di “Ayel” (Aiello), sembra poter essere valutabile nel quadro di quelle che, successivamente, vedranno ancora protagonisti i due Altavilla, contro altri importanti capisaldi che presidiavano il confine tra la parte meridionale e quella settentrionale della regione. Come ci indicano i fatti relativi agli anni 1073/74, che portarono alla conquista di Santa Severina da parte del duca e di suo fratello Ruggero, in occasione della loro lotta contro Abagelardo,[vii] e quelli del 1090 relativi alla spedizione condotta dal Gran Conte contro Mainerio “de Gerentia”.[viii]

La notizia della distruzione di Policastro è segnalata sotto l’anno 1065 (a.m. 5117), negli annali pubblicati nel 1651 dal siciliano D. Agostino Inveges: “il Duca Roberto destrusse Policastro in Calabria, et i cittadini trasferì in Nicotra, quod ipso anno fundavit”.[ix] L’annalista risulta citato dal Fiore verso la fine dello stesso secolo, quando si ribadisce che “l’anno 1065, per detto d’Agostino Inveges, avendone trasportato i cittadini a popolar Nicotera, ella restò quasi vuota d’abitatori”.[x]

arazzo bayeux

Scena d’assedio raffigurata nell’Arazzo di Bayeux (da www.studyblue.com).

 

Il feudo di Policastro

In relazione ai fatti che avevano portato alla conquista del regno da parte dei Normanni, ancora l’Inveges, ci fornisce una seconda notizia circa Policastro, questa volta riguardante le sue vicende feudali, che però, più che risultare supportata da prove documentali, sembra frutto della sua libera interpretazione.

Sotto l’anno 1075, a proposito di “Ugone Gircea Vicegerente di Sicilia”, egli mette in evidenza come il feudo di Policastro fosse giunto ad Enrico, che fu conte di Paternò, attraverso la dote della moglie Flandina, figlia del conte Ruggero, che lo aveva sposato nelle sue seconde nozze: “ch’egli fù Marito di Flandria Secondogenita figlia del Conte : la qual dopo si maritò col Conte Arrigo figliuolo del Marchese Mamfredo, di natione Lombardo, portandoli in dote Paternò in Sicilia, e Policastro in Calabria : si come si raccoglie da un privilegio di S. Maria di Giosafat dato l’an. 1114.”.[xi]

Da questo documento con la data parzialmente illeggibile,[xii] rileviamo invece, che il conte Enrico, figlio di Manfredi, marchese di Gravina, e fratello di Adelaide, moglie del conte Ruggero, non ebbe la contea di Paternò a seguito del matrimonio con Flandina, ma l’ebbe solo dopo la morte del Gran Conte (22 giugno 1101), come evidenzia il Garufi che attribuisce questa concessione a sua sorella Adelaide.[xiii]

Quest’atto che ricorda il “comes Rogerius d(omi)n(u)s paternionis” e la circostanza che “post mortem ipsius comitis Rogerii d(omi)n(u)s henricus gener eius fuisset d(omi)n(u)s paternionis”,[xiv] non menziona né fa alcun accenno al feudo di Policastro, anche se possiamo ritenere ipoteticamente, assieme all’Inveges che, per la stessa via, questo sia giunto ad Enrico con la contea di Paternò. In relazione a ciò, riscontriamo che Simone, secondo figlio maschio del conte Enrico,[xv] fu detto Simone di Policastro come risulta in alcuni documenti.

 

Il conte Simone

Dopo la morte del conte Enrico, a cui era premorto il suo primogenito Ruggero, Simone fu conte di Paternò e come tale compare per la prima volta in un atto del 1141, “che è la prima carta che di lui si rinvenga”.[xvi]

Sposò Tomasia[xvii] e secondo la cronaca medievale anonima attribuita ad Ugo Falcando, fu un personaggio di primo piano del suo tempo, quando le gesta di “Symon comes Policastrensis” assieme a quelle di “Robertus comes Lorotelli regis consobrinus” e di “Ebrardus comes Squillacensis”, sono poste in evidenza nell’ambito delle tumultuose vicende che caratterizzarono gli anni attorno alla metà del secolo XII, quando i tre baroni parteciparono alla ribellione contro il re Guglielmo I il Malo (1154-1166). Sempre secondo questa cronaca, in tale frangente, dopo essere intervenuto assieme al cancelliere Ascotinus, alla testa delle milizie regie per reprimere le sedizioni dei baroni pugliesi e per respingere le minacce d’invasione del regno, sospettato di tramare il tradimento, Simone fu privato della sua carica di contestabile ed imprigionato in Palermo. Più tardi, liberato per intervento del sovrano, morì nel 1156, quando il “Comes Symon, qui Policastri remanserat”, ed a cui proditoriamente era stato ordinato di fare ritorno alla corte in Palermo, “in ipso procinctu itineris felici morte preventus est.”.[xviii]

A lui seguì suo figlio secondogenito Manfredi, di cui ci rimangono un atto dell’aprile 1154 ed un altro del dicembre 1158.[xix] Le cronache medievali riferiscono che Simone avrebbe avuto anche un figlio naturale detto “Rogerium Sclavum filium comitis Symonis spurium”[xx] che, dopo aver occupato i possedimenti paterni nel 1161,[xxi] ed aver tentato di resistere all’assedio postogli dal re Guglielmo, sarebbe successivamente esulato “ultra mare” con il consenso del sovrano.[xxii]

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Particolare dell’Arazzo di Bayeux (da Wikipedia)

 

I conti di Paternò

Risale già alla cronaca di Ugo Falcando, una certa confusione tra il titolo feudale e l’onomastica dei feudatari che detennero la contea di Paternò, come registriamo anche in alcuni documenti, tra cui alcuni falsi. Tale onomastica, come si riscontra, in genere, per i maschi della classe nobile, durante tutto il periodo normanno-svevo, risulta impostata sulla base di un nome proprio, accompagnato, a volte, da quello paterno, oppure da un riferimento al luogo d’origine e/o al feudo che gli apparteneva.[xxiii] Il fatto poi che tale riferimento sia sovente omesso nei documenti, determina difficoltà nel distinguere tra quanti portavano lo stesso nome, soprattutto perché questo ricorre spesso nell’ambito di una stessa famiglia, secondo l’uso d’imporre il nome del proprio padre al proprio figlio.

Relativamente al conte Enrico, il Garufi evidenzia che oltre al citato atto del 1114 che riporta la sua sottoscrizione autografa: “+ Ego henricus manfredj marchionis qui sup(ra) testor”,[xxiv] da questa data a quella del 1137, si conoscono di lui altri cinque documenti.[xxv] In questi atti egli non risulta mai con l’appellativo “de Policastro”, ma sempre con il suo nome proprio ed il suo titolo feudale, a volte accompagnati da quelli di suo padre. Ciò si evidenzia in genere, anche per quanto riguarda suo figlio Simone.

In un atto dell’aprile 1156 però, di cui manca il documento originale mentre, a giudizio del Garufi, le copie sono tutte lacunose ed errate,[xxvi] compare: “Simon Dei gratia, et Regia Policastri Comes, Henrici Comitis filius”.[xxvii]

In un atto del 1186, invece, attraverso cui Guglielmo II confermò il privilegio del 1126 concesso dal conte Enrico, ricordato quale “comitis henrici lombardi”, e tre privilegi concessi dal conte Simone, tra cui quello del 1156, troviamo: “Symonis policastrensis comitis eidem comitis henrici filij”.[xxviii]

Anche in una copia del 1437 di un transunto del 1334, contenente il privilegio del 1143 rilasciato dal conte Simone, egli è ricordato posteriormente in questo modo. Sul verso della pergamena troviamo infatti: “Trampsumptum Privilegii dotis monasterii sancte marie de lycodia et s(anc)ti nicolay de arena […] factum per […] [co]mitis simonis de policastro [dominus] paternionis”.[xxix]

Rileviamo inoltre, che l’appellativo “policastrensis” o “de policastro”, non è mai stato utilizzato dal conte Simone nel sottoscrivere i documenti conosciuti. Appellativo che, come abbiamo già evidenziato, non risulta essere un patronimico, non trovandosi mai associato al nome di suo padre Enrico, cui invece, a volte, è accostato quello di suo nonno Manfredi marchese di Gravina.

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Particolare di capitello del chiostro di Monreale (PA). 

 

Il giustiziere Alessandro

In merito alle connessioni esistenti tra le vicende feudali di Policastro e la discendenza dei conti di Paternò, le cui origini risalivano a quelle lombarde di Enrico,[xxx] alcune notizie ci provengono attraverso le vicende del giustiziere di Valle Crati Alessandro di Policastro, a cui possono essere riferite quelle di Guglielmo di Policastro, figlio di Simone conte di Paternò.

Guglielmo, figlio eufemio (benedetto) del conte Simone e della contessa Thomasia sua moglie, compare nel menzionato atto dell’agosto 1143 quando, assieme a loro, effettuò alcune donazioni al monastero di Santa Maria di Licodia. Atto che fu sottoscritto anche da “Rogerius filius comitis” e da “Manfredus filius comitis”, in qualità di testi.[xxxi] Guglielmo di Policastro risulta menzionato ancora in un atto del 1166, quando sappiamo dell’esistenza di una sua casa (οἴϰου γουλιάλμου παλεουϰάστρου) nella “Galca” (γάλϰας) di Palermo,[xxxii] vicina a quella di altri importanti dignitari della corte.[xxxiii]

Alessandro di Policastro, figlio di Guglielmo, compare invece per la prima volta, in un atto del giugno 1199, dove troviamo: “domino Alexandro filio Guillelmi regiis justitiariis”.[xxxiv] Il giustiziere Alessandro fu un personaggio importante in Calabria durante il dominio svevo e tra i suoi discendenti, ebbe i figli Enrico, Simone e Roberto che fu vescovo di Catanzaro. Oltre a loro, i documenti dei primi anni del Duecento, evidenziano la presenza anche di altri componenti di questa casata, come testimoniano alcuni atti relativi alle abbazie cistercensi di Santa Maria della Sambucina e di Sant’Angelo de Frigillo.

In un atto relativo agli anni 1201-1202 (a.m. 6710), riguardante la donazione alla Sambucina, di alcune terre poste presso il confine dei territori di Policastro e di Mesoraca, si menzionano quelle limitanti della domina “Phèllia” (χοράφιων τῆς κυρᾶς Φηλλίας) e quelle del dominus “Niélé de Palaiokastron” (κὺρ Νηέλε Παλεοκάστρου)[xxxv] mentre, un atto del febbraio 1218, menziona il loco “qui dicitur Fella” posto in territorio di Mesoraca.[xxxvi]

In questi primi anni del secolo, il miles “Alexander de Policastr(o)” e “Niele de Policastru miles”, assieme ai milites “Bartolomeo de Policastro”, “Ioanes de Policastro” e “Oliverius de Policastro”, sottoscrissero un atto dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo,[xxxvii] mentre il dominus Enrico, figlio del giustiziere Alessandro, compare in atto del 1215: “domini Henrici filii Alexandri regii iusticiarii mundualdi mei”.[xxxviii] Successivamente, troviamo “Alexander de Policastro” assieme a suo figlio “Symon de Policastro”, tra i testi che sottoscrissero un atto del 1221.[xxxix]

castello-di-paterno

Santi armati da cavalieri dipinti sulle pareti della cappella di San Giovanni Battista nel castello di Paternò (da www.iccd.beniculturali.it).

 

Antichi legami

Fino a quando il Crotonese continuò ad appartenere al regno di Sicilia, ovvero fino al consolidamento del dominio angioino, i forti legami con la parte orientale dell’Isola, che sono messi in risalto fin dal tempo dei primi coloni greci,[xl] furono mantenuti, anzi, furono rafforzati, specie a seguito delle spedizioni ultra mare in occasione delle Crociate.

Ne costituisce esempio il caso del monastero di San Filippo di Agira che, fin dal periodo altomedievale, aveva forti legami con la valle del Tacina, come testimonia l’agiografia del monaco Vitale di Castronovo, e come risulta documentato attorno alla metà del secolo XII, quando sappiamo che il monastero deteneva nel Crotonese, la chiesa di “Sanctus Petrus de Tachina” e quella di S.to Elia, con i loro possedimenti, decime e diritti.[xli]

Anche attraverso i rapporti che esistevano tra le famiglie infeudate in quest’area è possibile mettere in evidenza tali legami. Rapporti che consentirono l’espansione dei cistercensi dell’abbazia di Santa Maria Requisita (poi detta della Sambucina) posta presso Luzzi, e di quella di Santa Maria della Matina, posta in territorio di S. Marco, in diverse aree dell’arcidiocesi di Santa Severina e, particolarmente, nei territori di Mesoraca e Policastro.

Qui, la presenza della famiglia dei Capparone, a cui appartenne “Guillelmo Capparone”[xlii] che, nel periodo a cavallo tra gli ultimi anni del sec. XII ed i primi di quello successivo, fu un personaggio di primo piano del regno, risulta documentata da un atto dell’agosto 1190 (a.m. 6698), sottoscritto da “Rogerios Tzapparanos” (‛Pωκέριoς Τζαππαράνoς) in Policastro,[xliii] dove troviamo la chiesa di San Nicola de Tzagparanoi (Αγίον Νικωλάου του Τζαγπαράνων) o “s(anc)to nicolao de zapparuni”, che risulta in un atto del marzo 1196 (a.m. 6704).[xliv]

Agli inizi del Duecento, i “de Palearia” detenevano il feudo di Mesoraca,[xlv] mentre sappiamo che il conte di Catanzaro Goffredo de Loritello, discendente dagli uomini che avevano seguito il conte Ruggero, al tempo delle lotte che avevano condotto alla costituzione della contea di Catanzaro, fu il fondatore del monastero della Sambucina[xlvi] assieme a sua madre Berta.[xlvii] Egli fu anche signore di Luzzi.[xlviii]

Suo figlio Guglielmo, detto “de Lutio”,[xlix] ebbe un figlio detto Goffredo “de Carbonara”, che fu “dominus” di Luzzi e di Roccabernarda e che risulta ricordato per le numerose donazioni in favore del monastero della Sambucina. “Goffridus de Carbonara dominus Lucii”, era ancora in vita nel 1196, in occasione di una donazione alla Sambucina che era stata fondata dai suoi progenitori.[l] In questi primi anni di formazione del dominio svevo del regno, Bartholomeo “de Lucy” fu invece conte di Paternò e mastro giustiziere di tutta la Calabria. Di lui fanno menzione documenti che vanno dal 1193 al 1200.[li]

Nel 1195, “apud Cotronum”, dietro la richiesta di “Bartholomei de Lucy, Comitis Paternionis, magistri iustitiarii tocius Calabrie, Fidelis Nostri”, Enrico IV confermava al monastero di Tremestieri di Messina alcuni beni siti in Sicilia.[lii] Egli compare ancora con il titolo di conte di Paternò in un atto del dicembre 1200. Successivamente non si hanno più notizie, né di lui né di questa contea.[liii]

concessione feudale miniatura

Miniatura raffigurante una concessione feudale (da historiaeblog.blogspot.com)

 

Roberto di Policastro

Secondo Nicola Leoni che, alla metà dell’Ottocento, afferma di aver attinto le notizie che riporta da un “opuscoletto” seicentesco (“De iis, quae evenere in Calabriis Federico II rege Siciliarum, adhuc puero, libellus a Valerio Pappasidero Muranensi descriptus, Neapoli 1665”), al tempo di Costanza d’Altavilla (1154-1198), “Roberto, nipote del duce Boemondo, e Ruggiero, fratello di Willelmo, che era morto pugnando sotto le mura di Cassano”, detenevano Policastro il primo e Santa Severina il secondo.[liv] La regina Costanza, infatti, nell’ambito della lotta che si era accesa in occasione della successione al trono del regno di Sicilia dopo la morte di Guglielmo II (1189), “aveva dato a governare e reggere Santa Severina a Ruggiero, Policastro a Roberto ed eglino fortificando quelle città con armi ed armati, credevano in cotal modo difendersi contro gli assalti degli Svevi.”.[lv]

Riecheggiano le notizie forniteci dal Leoni, quelle provenienti dalla testimonianza settecentesca del Tromby, che ricorda la donazione al monastero di S.to Stefano del Bosco, di alcune terre poste in territorio di Simeri, fatta nel 1198 da “Robertus de Policastro quondam filius Constantii”, contenuta in una “autentica carta il cui Transunto conservasi fin ab antiquo nell’Archivio della mentovata Certosa”.[lvi] Donazione effettuata al tempo in cui il “Padre D. Isidoro” ricopriva la carica di abate del detto monastero: “Questi nel mese di settembre dell’anno corrente 1198, ottenne da Roberto de Policastro, aderendovi Alesia sua moglie, figlia di Guglielmo Calvo, un certo comprensorio di Terra, contiguo la chiesa di S. Teodoro, nel distretto di Simari, Casale sei leghe lontano dalla città di Squillace.”, “Passando all’altra vita il Padre Studino Abate di S. Stefano, dona luogo al Padre D. Isidoro, che ottenne da Roberto de Policastro un certo comprensorio di Terre nel distretto di Simeri.”.[lvii] Nella trascrizione di questo documento, leggiamo: “Ego Robertus de Policastro dono, concedo et confirmo. Ego Adzisa filia Guillelmi Calvi uxor Roberti filii Constantii concedo, et confirmo.”.[lviii]

Delle terre possedute dalla “dominae Adelasiae” in questa località, si fa menzione successivamente, in un atto del 1228 (6736 a.m.) scritto in greco, mediante il quale, “Riccardus falloceo” e “Simeonae uxoris ipsius”, donarono al “templo sancti Theodori Eremitarum”, le terre poste “in dicto loco sancti Theodori”. Documento che risulta sottoscritto in latino da “Robertus de Alexandro”.[lix]

In questo periodo, il notaro “Robinus de Policastro” compare in Sicilia “in vari diplomi senz’altro genuini risalenti a quegli anni”.[lx]

 

I discendenti di Alessandro seniore

Le figure del vescovo Roberto, di suo fratello Simone e del nipote di questi Alessandro iuniore, che fu giustiziere imperiale di Calabria e Terra Giordana, emergono durante la prima metà del secolo XIII, quando li ritroviamo in alcuni atti.

Anche se un vescovo Roberto di Catanzaro compare già in una “carta assai confusa” del 1167, riguardante la “dotazione della chiesa di S. Cristoforo”,[lxi] testimonianze più attendibili circa questo presule, ci sono fornite dall’Ughelli, il quale afferma che “Robertus Catacensis Episcopus florebat anno salutis 1217 …”, al tempo in cui aveva concesso ai Florensi “il diruto monastero basiliano dei Tre Fanciulli nel territorio di Barbaro”, ponendo quale suo successore “Fr. Fortunatus Ordinis Minorum”, vescovo sotto Innocentio IV “circa annum Domini 1252”.[lxii] Quest’ultima circostanza è confermata dal Fiore, nella sua cronotassi “della Cattedrale di Catanzaro”: “… fu eletto Roberto di Catanzaro, l’anno 1230, (sic) qual morto, gli venne dietro Fortunato di Catanzaro, frate minore, eletto il 1253”.[lxiii]

Nel settembre 1222, “Alexander comitatus prefati iusticiarius”, sottoscrisse un atto che fu sottoscritto anche da “Robertus”, “Catacensis episcopus”.[lxiv]

Simone, suo fratello Roberto e suo nipote Alessandro iuniore, tutti appellati con il titolo di “dominus”, compaiono successivamente, in un atto del gennaio 1223, riguardante l’usurpazione del tenimento di Castellace da parte di Simone:  “… praenotato domino Symoni, qui cum domino Catacensi episcopo fratre suo, domino Alexandro de Policastro nepote suo …”.[lxv]

Possesso che evidentemente, discendeva loro per parte di Alessandro seniore. In un privilegio del dicembre 1225, con il quale Federico II confermò a Milo abate di Corazzo le donazioni precedenti fatte in favore del detto monastero, risulta infatti: “… etiam donationis quod eis fecit Alexander de Policastro de tenimento suo Castellacii in territorio Sanctae Severinae …”.[lxvi] Una concessione che sarà rinnovata ancora nei primi anni della dominazione angioina (1271), facendo menzione dell’antico donatore: “Mandatum de possessione monasterio Curacii, territorii Castellaci, olim ei donati per qd. Alexandrum de Policastro mil.”.[lxvii]

Altri atti, invece, documentano alcune vicende riferibili ad Alessandro iuniore.

Nel gennaio del 1226, in Mileto, “Alexander de Policastro, imperialis Calabrie et terre Jordane justitiarius”, in forza del mandato precedentemente conferitogli da Federico II, assegnò al monastero di S.to Stefano de Bosco contro Riccardo de Altavilla ed altri, alcuni beni in territorio di Mileto.[lxviii]

Alessandro iuniore compare ancora in un atto del 29 maggio 1230, quando Guillelmus Grisolemus cedeva a “domine Alex(ander) de Polic(astro) imperialis iustic(iarie) Calabrie et Vallis Gratis”, un oliveto “de patrimonio nostro quod est in tenimento Genic(ocastri) in loco qui dicitur Vallis de Sancto Angelo in fonte Filachi”.[lxix]

In questo periodo, alcuni beni posti nelle pertinenze di Crotone, appartenenti a Simone di Policastro, sono menzionati in un atto del 1233: “… a meridie sepes et vineae domini Symeonis de Polycastro …”,[lxx] mentre risale all’agosto dello stesso anno, una “Carta de questione que vertebatur inter abbatem et conventum Sancti Angeli de Frigilo ex una parte et dominam Margaritam de Policastro ex altera” (relativamente alla quale, però, non possediamo alcuna notizia circa i suoi rapporti di parentela con i precedenti), a proposito di alcune terre e vigne poste “in tenimento Policastri” detenute dal monastero, che la detta domina Margarita sosteneva competessero a lei per “iure dodarii” e al figlio Bartholomeo per “iure patris eius scilicet Luciferi filii quondam domini Rogerii Bonelli”.[lxxi]

Sembrerebbe fare ancora riferimento al giustiziere Alessandro iuniore, un atto d’incerta autenticità del 6 luglio 1235. In quella occasione, nella menzione dei confini di alcune terre donate all’abazia di Sant’Angelo de Frigillo, troviamo: “… a septemtrione terra quam dedit quondam dominus Alexander de Policastro ecclesie Sancti Angeli de Frigilo …”.[lxxii]

Troviamo ancora memoria del “quondam Alexandri de Policoro (sic) qui fuerat justitiarius”, in due mandati imperiali riguardanti i suoi possedimenti feudali posti “in Genitocastro”. Il primo del 28 aprile 1240: “Mandatum ad justitiarium Vallis Gratis ut feudum quod nepos quondam Alexandri de Policoro (sic) sine licentia principis temere cepit et detinet, ad manus curiae revocare studeat”,[lxxiii] ed il secondo del 7 maggio 1241. In quest’ultima occasione, l’imperatore reiterava nei confronti del nuovo giustiziere, l’ordine che non era stato eseguito dal suo predecessore: “Fridericus, Romanorum imperator, Goffrido de Montefuscolo mandat ut cum Tholomeus de Castillione justitiarius Vallis Gratis non fuerit assecutus mandatum de revocando feudo quod fuit Alexandri de Policoro (sic) in Genitocastro, ipse idem feudum ad manus curiae revocare studeat.”.[lxxiv]

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Federico II in trono (da www.ilcasalediemma.it)

 

In potere dei Ruffo

Le vicende del feudo di Policastro subirono una svolta importante dopo la morte dell’imperatore Federico II (13 dicembre 1250), quando sappiamo che passò in potere del conte di Catanzaro Petro Ruffo di Calabria mentre, durante gli anni precedenti, sembra che sia rimasto devoluto transitoriamente alla regia corte. Così ricaviamo da una notizia riportata dall’Ebner e relativa ai primi momenti della dominazione angioina, che riferisce di un ordine relativo al “recupero dall’erede del giudice Ruggiero di Policastro” in favore della regia corte, di una somma pertinente alla bagliva della “terra di Policastro”, che l’autore identifica però con la Policastro cilentana.[lxxv]

In precedenza, “Roggerius de Policastrello” (sic) compare in un atto del marzo 1239, dove lo troviamo nell’elenco dei baroni del giustizierato di Valle Crati e Terra Giordana, cui spettava la custodia di alcuni prigionieri lombardi. In questo documento, “Petrus de Calabria” risulta, invece, solo nell’elenco dei baroni del giustizierato di “Calabrie”, cui era affidato lo stesso compito,[lxxvi] anche se sappiamo che la sua stella era in rapida ascesa nel Crotonese, come del resto in tutto il regno.[lxxvii]

Per quanto ci riguarda più da vicino, il suo dominio su Policastro emerge all’indomani della sua investitura a conte di Catanzaro, che ebbe nel Febbraio del 1252 da parte di Corrado, nel parlamento generale di Melfi, quando compaiono le prime notizie ed i primi documenti che ce lo attestano.

In alcuni atti relativi ad una lunga lite sorta tra l’abbazia di San Giovanni in Fiore ed i conti di Catanzaro, riguardante il tenimento di “Ampulinus”, posto presso i confini del territorio abbaziale, s’evidenziava come i monaci rivendicassero il tenimento conteso nelle pertinenze della “Sylae de Cusentia”, opponendosi ai conti di Catanzaro che, invece, lo dichiaravano ricadente nel territorio del loro feudo di Policastro.

I procuratori dell’abbazia evidenziavano, infatti, come le ingiuste pretese della loro parte avversa, fossero fondate sul fatto che il “tenimentum in libello designatum, quod dicit esse in pertinentiis Policastri et ignorat ipsum tenimentum esse in pertinentiis Cusentiae”.

Tale situazione aveva già portato a redigere un “instrumentum” nel luglio del 1253 quando, in occasione di un arbitrato, era stata pronunciata una sentenza in favore del comitato di Catanzaro, rappresentato da “domino Riccardum Gactum procuratorem comitatus Catanzarii per dominum Petrum Ruffum”, contro l’abbate ed il convento di San Giovanni in Fiore che rivendicavano il possesso del tenimento di Ampollino. Secondo le affermazioni del conte e quelle del suo procuratore, invece, “ipsum de tenimento Policastri fore dicebat” mentre, si sottolineava che, il tenimento in discussione “ratione dicti comitato pertinere”, specificando, però, che “praedictum tenimentum esse de comitatu Catanzarii, quia de districtu et territorio Policastri tamquam de re feudali”.

Tale incongruenza fu rilevata dai giudici della “magnae regiae curiae”, che invalidarono la sentenza pronunciata in occasione del precedente arbitrato. In primo luogo perchè, si distingueva tra il possesso feudale di Policastro e quello della contea di Catanzaro, a cui questa evidentemente non apparteneva, ed in seconda istanza perché il procuratore, che ne era sprovvisto nell’occasione, non avrebbe potuto rimettersi in giudizio senza uno specifico mandato da parte del conte, non essendo procuratore di tutti i suoi beni, ma solo di quelli ricadenti nell’ambito della contea di Catanzaro.[lxxviii]

Arme Ruffo

Arme della famiglia Ruffo di Calabria (“troncato, cuneato d’argento e di nero”).

 

L’arcivescovo Giovanni

Con l’avvento dei Ruffo nel dominio feudale di molte terre del Crotonese, le famiglie che le avevano anticamente detenute, decaddero. Così avvenne anche per i “de Policastro” che ritroviamo ancora, in un atto del 17 dicembre 1252 stipulato in Messina, quando “maria uxor quondam Luce de policast.o et Henricus filius suus”, assegnarono in dote a “Bonaventuram filiam et sororem eorum” che andava in sposa a “Leoni de paolo Amalfitano cive messane”, una casa in Messina.[lxxix]

Una maggiore persistenza ebbero invece i membri della casata che avevano seguito la carriera ecclesiastica, come fu per “Iohannes de policastro” che, in questo periodo, risulta tra le dignità della cattedrale di Catanzaro. Tra i testi che sottoscrissero un atto del 21 agosto 1251 stipulato in Catanzaro, troviamo: “Ego Iohannes de policastro catacensis Archidiaconus testor”[lxxx] che ritroviamo anche in seguito. Relativamente alla reintegrazione delle due decime dovute alla Santa Sede per gli anni 1310-1311, “In provincia S. Severine et eiusdem Diocesis”, risulta annotato il pagamento del “Presbiter Iohannes de Pollicastro eo iure tar. VII gr. XV”.[lxxxi]

Più tardi, egli fu arcivescovo di Santa Severina, come riporta l’Eubel, il quale annota che fu provvisto il 31 maggio 1320 e che, in precedenza, era stato canonico della stessa chiesa.[lxxxii] Di lui fanno menzione l’Ughelli[lxxxiii] ed il Fiore, che a “Paolo, di cui si ha memoria nel Registro di Napoli l’anno 1309”, fa seguire, “ma senza certezza di tempo”, “Giovanni, la cui memoria apparisce l’anno 1320”.[lxxxiv]

Il 22 giugno 1321, Giovanni de Policastro ricevette il pallio vescovile: “Iohanni (de Policastro), archiepiscopo S. Severinae, assignatur pallium, per archiepiscopatum Rossanen. Tradendum”[lxxxv] ma, come riferisce il Sisca, successivamente, il presule “fu sospeso donec Pontifex melius informetur perché aveva assunto in sede vacante, due anni prima, le funzioni di Arcivescovo di S. Severina”.[lxxxvi]

Giovanni compare ancora con il titolo arcivescovile, in un atto dell’abazia di Sant’Angelo de Frigillo del 4 marzo 1330: “Iohannes (de Policastro) archiepiscopus Sancte Severine”,[lxxxvii] mentre un atto precedente del 9 ottobre 1323, fa ancora accenno all’antico contenzioso relativo ai possessi di famiglia posti in territorio di Santa Severina, che avevano trovato protagonisti i discendenti di Alessandro seniore nel corso del secolo precedente: “Abbiamo anche una sentenza dell’Arcidiacono di Cosenza, 9 ottobre ind. IV, sul pacifico possesso della grangia di Castellazzo (sic), contro le pretese dell’Arcivescovo di S. Severina.”.[lxxxviii]

 

Da Petro seniore a Petro iuniore

Ritornando alle vicende feudali della terra di Policastro, che seguirono al periodo in cui questa pervenne in potere di Petro Ruffo di Calabria, possiamo rilevare come tali vicende risentirono particolarmente dell’instabilità che caratterizzò gli anni del conflitto che oppose il Papato all’Impero, durante il passaggio del regno dal dominio svevo a quello angioino, per il fatto che, a seguito dell’acuirsi dei contrasti tra Corrado e Manfredi, il conte di Catanzaro prese le parti del primo e dovette subire la ritorsione di Manfredi che, nella curia generale di Bari (2 febbraio 1256), lo privò dei suoi feudi e nel 1257 lo fece uccidere.[lxxxix]

A seguito di ciò, la contea di Catanzaro pervenne in potere degli uomini fedeli a Manfredi[xc], destino che, pur nell’assenza di notizie esplicite, dovettero seguire anche gli altri possedimenti feudali che erano appartenuti al defunto conte Petro Ruffo.

Dopo la disfatta e la morte di Manfredi, (26 febbraio 1266) cui seguì quella di Corradino, (29 ottobre 1268) i Ruffo rientrarono nel regno conquistato dagli angioini. Petro Ruffo però era morto senza lasciare figli. I suoi feudi andarono così al nipote Petro II, figlio di suo fratello Giordano, anch’egli morto a seguito della persecuzione patita ad opera di Manfredi.[xci]

Permaneva comunque una situazione di profonda incertezza e d’instabilità in tutto il regno, particolarmente tesa nel Crotonese dove, il fragile dominio angioino, doveva fare i conti con il forte partito filo-svevo che, al tempo della discesa in Italia di Corradino, fatte poche eccezioni,[xcii] aveva visto schierarsi dalla parte di quest’ultimo la gran parte delle terre.

Sembra quindi possibile che sia riferito alla “Policastro” di Valle Crati e Terra Giordana, il provvedimento del 1269, menzionato nei registri angioini ricostruiti, con il quale si ordinava di non molestare Nicolao de Iannucio “de Policastro”, per la ribellione della “dictam terram” avvenuta in sua assenza.[xciii]

A seguito dei burrascosi trascorsi che caratterizzarono questo periodo, nel settembre del 1272, attraverso un’ordinanza indirizzata ai secreti di Calabria, Carlo I d’Angiò decideva d’intervenire in favore del conte di Catanzaro, disponendo “che venisse svolta un’inchiesta per conoscere la reale consistenza della contea di Catanzaro in età sveva e quindi di restituire a Pietro le terre che ancora fossero risultate mancanti”.[xciv] Nel dicembre 1274, “Petrus Ruffus de Calabria Comes Catanzarii”, risultava signore di “Policastri” e di altre terre già precedentemente appartenute ai suoi avi.[xcv]

In questi primi anni del dominio angioino (1275-77), “Policastrum”, compare tra le terre appartenenti al giustizierato di “Vallis Grati et Terre Iordane”,[xcvi] risultando tassata per unc. 42 e tar. 18[xcvii] mentre, in seguito, assieme ad altre, fu distaccata ed aggregata al giustizierato di Calabria.[xcviii] La sua importanza nel quadro degli eventi bellici che caratterizzarono il conflitto tra gli angioni e gli aragonesi durante la guerra del Vespro, c’è testimoniata da due provvedimenti del novembre 1282.[xcix]

Il possesso feudale di Policastro, assieme a quello delle altre terre precedentemente concessegli, fu riconfermato al conte di Catanzaro nel 1290, al tempo di Carlo II d’Angiò.[c] Un possesso sicuramente instabile a causa del conflitto ancora in essere, come emerge, ad esempio, attraverso un atto del 21 maggio 1292, indirizzato al “nobili viro Petro Rufo de Calabria, comiti Catanzarii”, i cui beni, a causa della guerra, “diminuciones non modicas proptera pertulisse”.[ci]

A seguito di queste pesanti ripercussioni, il 19 agosto 1302, giunto ormai ad un accordo con Federico III d’Aragona, Carlo II d’Angiò concedeva a Petro Ruffo di ripopolare con gente proveniente da altre province, Policastro ed altre sue terre,[cii] mentre abbiamo notizia che, il 29 maggio 1309, rispondendo al conte di Catanzaro che lamentava “di essere stato abbandonato da numerosi vassalli”, la regia corte ribadiva il diritto dei fuggiaschi di abbandonare il loro signore, nel caso avessero abitato per dieci anni una terra demaniale.[ciii]

Alla breve demanialità di Policastro nel periodo di passaggio tra il dominio feudale di Petro Ruffo iuniore e quello di suo figlio Giovanni, accenna confusamente il Mannarino agli inizi del Settecento: “Questo Contado di Policastro nondimeno restò sempre unito, e confuso con quel di Catanzaro, onde il Conte di Catanzaro Pietro dell’istessi Re chiamato per eccellenza il Conte di Calabria Ruffo, verso il mille, e duecento appare in terzo luogo Signor di Policastro. È vero però che fu poi ributtato per la sua Superbia, e Tirannia, e la Città venne in Reggio Domanio la prima volta. Ritornò pur di nuovo sotto il dominio del Conte Pronepote Giovani Ruffo successo al Bissavolo Conte Pietro morto essì ben vecchio. Costui fù il quarto Signor di Policastro, e delli suoi Casali Cotronei San Demetrio, e Copati appunto nell’anno mille trecento e nove.”.[civ]

Petro Ruffo

Petro Ruffo di Calabria conte di Catanzaro.

 

Il conte Giovanni ed i suoi successori

Petro Ruffo iuniore sposò Giovanna d’Aquino, figlia di Tommaso,[cv] costituendogli il dotario sopra il “castello di Mesoraca”,[cvi] ed alla sua morte, nel 1309 il suo primogenito Giovanni subentrò nel possesso dei beni paterni.

In relazione a ciò, troviamo menzione di un atto stipulato in quell’anno, attraverso cui Petro Ruffo otteneva la possibilità di disporre e fare legato in favore dei figli cadetti Nicola e Corrado, di alcune terre che non facevano parte integrante della contea di Catanzaro. In quest’atto, dove ricorre ancora la sottile distinzione tra i beni feudali appartenenti alla contea di Catanzaro e quelli appartenenti al dominio feudale del conte, assieme a “Policastro”, risultavano menzionate anche “Mesoraca”, “Rocca Bernarda, Rosarno, il luogo detto Li Castelli e Tacina”. Tuttavia il tutto passò al primogenito Giovanni.[cvii]

Il suo dominio feudale fu comunque avversato dai suoi vassalli di Policastro e da quelli delle altre terre vicine. Il Sisca, riportando le notizie riferite al suo paese, contenute nei regesti conservati all’Archivio di Stato di Napoli, compilati sulla base dei registri della cancelleria angioina andati perduti, c’informa che “Giovanni Ruffo nel 1327 ebbe a querelarsi contro i vassalli di Policastro i quali gli avevano bruciato il palazzo e cacciati via a viva forza i suoi ufficiali”,[cviii] e dell’episodio che avvenne “nel luglio del 1330 quando tre milites con un esercito di 500 uomini occuparono Policastro, ne scacciarono i funzionari del Ruffo e di la mossero alla conquista di Roccabernarda e Misuraca.”.[cix]

Concessioni feudali da parte del conte Giovanni Ruffo, nell’ambito del territorio di Policastro, sono ricordate nel corso dell’anno successivo.[cx]

Secondo quando scrive Ferrante della Marra alla metà del Seicento, riportando notizie contenute nei registri angioini relative agli anni 1333-1334, “Policastro con i Casali” passò a Goffredo Marzano, conte di Squillace, attraverso il matrimonio con Giovanna Ruffo, figlia di Giovanni conte di Catanzaro.[cxi]

Anche in seguito la terra di Policastro continuò a seguire le vicende dei conti di Catanzaro, che a Giovanni, videro subentrare Pietro III Ruffo nel 1335. Venne poi Antonello nel 1340, e quindi Nicolò, prima signore e poi, dal 1390, marchese di Crotone.[cxii]

Il loro dominio su Policastro durante quest’ultima parte del secolo, si ricava dal testamento di Simeone de Bondelmonti, figlio della “magnifice et Excellentis d(omi)ne d(omi)ne Joh(an)ne de Bondelmontibus Comitisse Catanzarii Baronie Altamville et Civitatis Cotroni d(omi)ne”, moglie del conte di Catanzaro Antonello Ruffo, stipulato il 14 agosto 1386 “apud Terram Policastri”,[cxiii] mentre il Mannarino agli inizi del Settecento, registrando l’avvento del marchese di Crotone, afferma: “Successe poi Nicolò Conte di Catanzaro, Marchese di Cotrone, Pronipote del Conte Giovanni, e figlio del Conte Antonello, che sembra essere stato più tosto Governatore, che Conte …”.[cxiv]

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Arme del re di Napoli Ladislao di Durazzo (da https://napolicapitaleuropea.wordpress.com).

 

Le vicende del marchese di Crotone

Al tempo del primo marchese di Crotone, Policastro seguì le sue burrascose vicende che, in occasione del conflitto tra Ladislao di Durazzo e Luigi II d’Angiò, durante i primi anni del Quattrocento, trovarono Nicolò Ruffo schierato dalla parte dell’angioino. In questa occasione, la rivolta interessò Policastro e molte altre terre e città calabresi.[cxv] Cercando di usare la diplomazia, il 4 aprile 1404, re Ladislao confermò a Nicolò Ruffo tutti i suoi privilegi e le sue immunità[cxvi] ma, successivamente, passò all’azione e nel giugno di quell’anno, mosse in armi da Napoli verso la Calabria.[cxvii]

Attraverso una rapida campagna, egli privò così il marchese di Crotone di quasi tutti i suoi possedimenti comprendenti più di 15 terre e di 40 castelli, costringendolo a prendere la via dell’esilio in Francia, mentre i suoi feudi furono parte posti in demanio e parte assegnati ai condottieri che lo avevano aiutato durante questa guerra.

Morto re Ladislao (6 agosto 1414) e successagli sua sorella Giovanna II, le lotte dinastiche per il trono di Napoli si riaccesero, trovando quali nuovi contendenti, Giacomo conte di La Marche, marito della regina, e Sergianni Caracciolo.

A seguito di ciò, nell’estate del 1417, le terre del Crotonese che erano andate al condottiero Pietro Paolo da Viterbo, subirono la devastazione da parte delle truppe di Antonuccio de Camponeschi di Aquila.

Moriva intanto anche Luigi II d’Angiò e gli succedeva il figlio Luigi III che, nel dicembre 1420, fu dichiarato erede del regno di Napoli dal nuovo papa Martino V (1417-1431). Forte del sostegno pontificio, Luigi III tentò di far valere i propri diritti ereditari, ma trovò l’opposizione della regina Giovanna II che adottato Alfonso V, re di Sicilia (di Aragona e Sardegna), lo nominò erede e duca di Calabria (1421).

Nella guerra tra i filoangioini ed i filoaragonesi, Nicolò Ruffo si schierò dalla parte dei primi, partecipando al conflitto che investì anche le sue terre poste alla frontiera, tra la Calabria meridionale, in mani aragonesi, e quella settentrionale, sotto il controllo angioino. Policastro risulta tra le terre appartenenti al “nobilis vir Nicolaus Ruffus Marchio Cotronis”, in un atto del 11 luglio 1426, attraverso cui il papa Martino V confermò i suoi possessi.[cxviii] Stabilisce ciò anche la bolla datata 19 luglio 1431, attraverso cui il suo successore Eugenio IV (1431-1447), accogliendo la richiesta del ministro provinciale dei frati osservanti di Calabria, avanzata dietro richiesta dell’università di Policastro e di Nicolò Ruffo, marchese di Crotone, confermava all’ordine il convento o chiesa di “S. Mariae de Eremitorio nuncupatam extra muros castri Policastri, S. Severinae dioc.”.[cxix]

Nel 1435 moriva Nicolò Ruffo. Lo stesso anno gli succedeva la figlia Giovannella, moglie di Antonio Colonna, principe di Salerno e nipote di papa Martino V.[cxx] Morta anche lei l’anno dopo senza lasciare figli, le subentrò la sorella Enrichetta, figlia di Nicolò e della sua seconda moglie Margherita de Poitiers che, successivamente, attraverso il proprio matrimonio, portò in dote Policastro ad Antonio Centelles, assieme agli altri beni feudali precedentemente appartenuti a suo padre.[cxxi]

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Sepolcro di Nicolò Ruffo di Calabria nella chiesa di S. Francesco a Gerace (da www.ecodellalocride.it).

 

In regio demanio

Dopo aver acquisito questo vasto patrimonio, il marchese di Crotone Antonio Centelles fu ribelle ai sovrani aragonesi e con alterne vicende, dovette subire le ritorsioni da parte di re Alfonso e di suo figlio Ferdinando, finendo per essere spogliato dei beni che aveva detenuto.

Domata con le armi la sua ribellione, similmente ad altre terre appartenute ad Antonio Centelles ed Enrichetta Ruffo, Policastro fu confiscata ed incamerata nel regio demanio. La ritroviamo così dopo questi fatti, nelle annotazioni che registrano i pagamenti dovuti al regio fisco:

“TERRE DON ANTONII ET DOMINE MARCHIONISSE EIUS UXORIS (…) Pulicastrum uncias decem, tarenos duodecim”. “LE TERRE FRANCHE DE FOCHI CHE FORO DE LO MARCHESE DE CROTONE che cominçaro de mense decembris usque et per totum mensem ianuarii VIII indictionis per annos X (…) Pollicastro f. CCCCVI”. “LE ENTRATE CHE SO A LE TERRI CHE FORO DE LO MARCHESE CHE SO ANCORA IN POTERE DE LA CORTE (…) Policastro, la ballya et la serra D. XXX”.[cxxii] “Terre que fuerunt Marchioni Cutroni: Pollicastrum foc. CCCCVIIII, unc. 10, tar. 12.”[cxxiii]

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Arme della famiglia Centelles (“fusato d’oro e di rosso”).

I doveri verso il fisco da parte della terra di Policastro, sono evidenziati in seguito anche da altri documenti.

Attraverso un atto del 30 gennaio 1451, dato nel castello di Crotone ed indirizzato ai “Magnificis spectabilibus nobilibus et egregiis viris regiis gubernatoribus locumtenentique capitaneis magistris iuratis baiulis et aliis officialibus eorumque locatentibus provincie Vallis Gratis et Terre Iordane”, nonché a diverse terre, castelli e casali, tra cui la terra di “Pulicastri”, “et aliorum quorumcumque locorum utriusque Calabrie nostre iurisdicionis constitutis et constituendis”, si evidenziava che il nobile “Simeon de Tipaldo de Pirosio”, “habitatore” nella città di Crotone, era stato istituito quale percettore delle entrate spettanti alla regia corte in detti luoghi.[cxxiv]

Lo stesso giorno, sempre dal castello di Crotone, si scriveva ad “Universis et singulis Regiis Gubernatoribus, Capitaneis et aliis officialibus maioribus et minoribus quocumque titulo et dignitate fungentibus eorumque locatenentibus”, affinchè provvedessero a dare tutto l’ausilio necessario al nobile “Alfonsus de Clemencia”, al presente “exibitor (sic) per spectabilem et egregium virum Iaymum Czunbum regium commissarium in provincia Calabrie Ultra”, impegnato nella riscossione dei diritti del sale e di altri proventi spettanti alla regia corte nell’ambito delle città, delle terre e dei castelli “que fuerunt olim Marchionis et Marchionisse Cutroni”.[cxxv]

Considerato però, che diverse università erano risultate più volte inadempienti ed i loro sindaci non avevano effettuato, come avrebbero dovuto, i pagamenti, “in manibus Iaymi Czunbi regii commissarii pecuniam salis”, nel marzo di quello stesso anno, si comandava a detti sindaci di comparire davanti ai “regios gubernatores capitaneos et officiales ipsarum universitatum”, tra cui il “Capitaneus sive gubernator Pulicastri”, e di versare loro il denaro che così sarebbe potuto essere portato al commissiario.

In difetto del pagamento dovuto, i sindaci sarebbero stati obbligati a trasmettere i nominativi di “quindecim homines principales et opulenciores”, affinchè fosse stato possibile fare esecuzione contro di loro, al fine di recuperare tanto il denaro relativo al pagamento del sale, quanto quello delle pene inferte.[cxxvi]

Ancora nel settembre del 1451, si ordinava a “Iesmundus locumtenens Pulicastri”, tra gli altri “infrascriptis hominibus officialibus et sindicis infrascriptorum locorum que fuerunt condam domine Henrichecte”, di pagare a “Pero Antonio de Taberna”, procuratore di “Galiaczi Orilia de Napoli”, il salario dovuto al detto Galiaczo, solito a pagarsi ai “iudicibus et assessoribus locorum terrarum civitatum infrascriptarum”.[cxxvii]

“Pulicastro” compare nel “E Legistro de le Polise de lo Foculeri de Natale de lanno Quinte Indictionis” (1456-1457), relativo al pagamento della “nova imposecione de lo novo carlino de Natali de lo presente anno”[cxxviii] mentre, successivamente, essendo stata accolta la richiesta di perdono di Antonio Centelles e della consorte Enrichetta Ruffo (24 giugno 1462), la terra ritornò transitoriamente in potere del marchese di Crotone, avendolo il re reintegrato nei feudi confiscati.[cxxix] Si tratterà di una breve parentesi. Agli inizi del 1466, dopo la sua cattura e la sua uccisione, i feudi che gli erano stati reintegrati ritornarono in demanio regio.

Così ritroviamo Policastro in alcuni documenti successivi conservati all’Archivio di Stato di Napoli, che si riferiscono a provedimenti di riscossione da parte della regia corte, al conferimento degl’incarichi relativi, all’arrendamento delle sue entrate, ecc.[cxxx]

Abbiamo anche notizia che, attraverso un privilegio del 1468, re Ferdinando I effettuò alcune concessioni ai policastresi,[cxxxi] confermando loro successivamente, il 29 gennaio 1474, alcuni capitoli che si rifacevano agli antichi privilegi concessi da suo padre,[cxxxii] mentre, tra il 1471 ed il 1477, risulta che la terra di Policastro continuò ad essere amministrata dalla regia corte tramite capitani/governatori.[cxxxiii]

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Arme bipartita riconducile ad Antonio Centelles ed Enrichetta Ruffo, riprodotta su una maiolica esistente nella chiesa degli Osservanti di Cariati (da Tallarico G., Il Marchesato viaggio storico nel Crotonese, 2014).

 

Il conte di Santa Severina

Dopo questo periodo in cui aveva goduto della condizione demaniale, verso la fine del secolo Policastro ritornò ad essere infeudata. Il 14 ottobre 1496, infatti, assieme ad altre terre, re Federico la vendette ad Andrea Carrafa[cxxxiv] anche se, in forza dei loro privilegi, i cittadini si ribellarono[cxxxv] e resistettero a lungo al nuovo feudatario.

A testimonianza di ciò, nel cedolario della provincia di Calabria Ultra dell’anno 1500, Andrea Carrafa risultava tassato solo per la terra di Rocca Bernarda e per il feudo disabitato di Crepacore, mentre, in quello del 1508, la tassazione compare per S. Severina con i casali di S. Giovanni Monaco e Cutro, per Le Castella e Roccabernarda.[cxxxvi]

In seguito, il Carrafa riuscì ad entrare in possesso del feudo, ma nell’aprile del 1512, diffusasi la falsa notizia che fosse morto nella battaglia di Ravenna, i cittadini di Policastro, assieme ad altri, ripresero la via della ribellione[cxxxvii] ma, a seguito della violenta repressione armata, furono costretti alla fuga ed a rifugiarsi in altre terre.

A quel tempo, infatti, il conte “rendeva consapevole il vicerè che «multi homini de Sancta Severina, Cutro et Policastro vanno forosciuti et despersi per quesse provincie de Calabria, et signanter sono receptati in le infrascripte terre; in la Rocca de Neto, Berzino, Caccuri, Strongoli, Casobono, Corigliano, Cotronei, Mosoraca et Belcastro et in altri lochi»; e reclamava che questi pericolosi fuorusciti fossero acciuffati e consegnati alla giustizia.”.[cxxxviii]

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Andrea Carrafa conte di Santa Severina.

In occasione di questi fatti, il castello di Policastro, quale simbolo del potere feudale, fu distrutto dai ribelli per non essere mai più ricostruito. Nell’inventario fatto dal giudice Francesco de Jasio nel 1520, in occasione della reintegra dei beni e dei diritti appartenenti al conte Andrea Carrafa nell’ambito del territorio di Policastro, troviamo infatti: “In primis castrum dirutum cum pertinentiis suis, cum apparentia, et evidentia fossi dicti castri, et vestigiorum, et edificiorum ipsius in capite terrae praedictae versus occidentem”.[cxxxix]

Attraverso tale atto[cxl] il conte fu così reintegrato nel possesso dei beni e dei diritti usurpatigli dai rivoltosi durante i turbolenti trascorsi. Questo fu però anche lo strumento che gli permise di spogliare “li cittadini dei loro privilegi e beni”, al punto che, anche dopo la concessione di alcuni capitoli da parte del conte, la popolazione aveva preso ad abbandonare la terra in massa. Solo dopo la sua morte, il nipote Galeotto riuscirà a pervenire ad un reiquilibrio, attraverso la concessione di nuovi privilegi e di nuove capitolazioni che annullarono “in tutto” la precedente reintegra.[cxli]

 

Note

[i] Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi, C.A.M., Napoli 1957, pp. 52-54.

[ii] Nei miei precedenti lavori: Strongoli, in La Provincia KR, 13-14/2003 e Petilia Policastro, in La Provincia KR, 25/2003, risultano errate l’interpretazione del toponimo e la sua attribuzione alla diocesi di Strongoli.

[iii] Parthey G., Hieroclis Synecdemus et Notitiae Graecae Episcopatuum, 1866, p. 126. Russo F., La Metropolia di S. Severina, in Scritti Storici Calabresi, C.A.M., Napoli 1957, pp. 43 e sgg.

[iv] Russo F., cit., p. 46.

[v] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 51-53; 60-62; 63-65; 66-70. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 348-350; 354-356. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 146-147; 152-154.

[vi] “Caput  Trigesimo Sextum. Guiscardo apud Regium remanente, Rogerius castra Calabriae expugnat. (…) XXXVI. (…) Dux itaque digressus, in Calabriam veniens, expeditionem solvit: Bugamenses, quos captivos adduxerat, Scriblam, quam desertaverat, restaurans, ibi hospitari fecit. XXXVII. – Anno vero Dominicae incarnationis MLXV Policastri castrum destruens, incolas omnes apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat, adducens, ibi hospitari fecit. Antequem iret versus Panormum, (…) dux et comes Rogerius prius in provincia Cusentii castrum quidem Rogel expugnaverunt et pro libitu ordinaverunt. Eodem anno castrum quoddam, quod Ayel dicitur, in provincia Cusentii, dux oppugnare vadens, per quattuor menses obsedit.”. Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V parte I, p. 47. Nicotera, già esistente in epoca romana, agli inizi del secolo VII compare nell’epistolario di S. Gregorio Magno, tra i vescovati della regione immediatamente soggetti alla S. Sede, mentre, dopo la riconquista e la riorganizzazione della Calabria da parte di Niceforo Foca, fu sottoposta alla metropolia di Reggio. Successivamente, subì la distruzione da parte dei Saraceni. Russo F., cit., pp. 43 e sgg.

[vii] Goffredo Malaterra, cit., pp. 59-60.

[viii] Goffredo Malaterra, cit., p. 94. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, p. 199. Lupus Protospatarius Barensis Rerum in Regno Neapolitano Gestarum Breve Chronicon ab Anno Sal. 860 usque ad 1102. Pontieri E., Tra i Normanni nell’Italia meridionale, Napoli 1964, p. 147.

[ix] “Il Duca fabrica Nicotra in Calabria”. Inveges A., Palermo Nobile parte terza degli Annali di D. Agostino Inveges, 1651, p. 63.

[x] Fiore G., Della Calabria Illustrata, tomo I 1691, ed. Rubbettino 1999, p. 452.

[xi] Inveges A., cit., p. 90.

[xii] Il Garufi lo attribuisce all’anno 1114 (Garufi C. A., Gli Aleramici e i Normanni in Sicilia e nelle Puglie, in Centenario della nascita di Michele Amari, vol. 1, 1910, pp. 49-50), mentre il regesto delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero di Catania, pur menzionando che anche il Pirro lo attribuisce allo stesso anno, lo data al 30 settembre dell’anno precedente (www.archividelmediterraneo.org).

[xiii] Garufi C.A., cit. p. 50.

[xiv] www.archividelmediterraneo.org.

[xv] Garufi C.A., cit. p. 58.

[xvi] Garufi C.A., cit. pp. 50-51.

[xvii] Garufi C.A., cit. p. 58.

[xviii] La Historia o Liber de regno Siciliae e la Epistola ad Petrum Panormitanae ecclesiae thesaurarium di Ugo Falcando, FSI 22 ed. G.B. Siragusa, 1897.

[xix] Garufi C.A., cit., pp. 81-83, App. IX-X.

[xx] La Historia o Liber de regno Siciliae, cit., p. 63.

[xxi] La Historia o Liber de regno Siciliae, cit., p. 70.

[xxii] “Rex autem W[ilhelmus] pene per totam estatem in obsidione Buterie est moratus. Sed cum eam situ loci et fortium virorum numerositate munitam expugnare non posset, facta con’cordia, Rogerium Sclavonem cum Lombardis ultra mare illesos ire permisit.”. Romualdi Salernitani Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, t. VII parte I, p. 249.

[xxiii] Ménager L. R., Inventaire des Familles Normandes et Franques Emigrées en Italie Méridionale et en Sicilie XI – XII siecles, in “Roberto il Guiscardo e il suo Tempo, Relazioni e Comunicazioni nelle Prime Giornate normanno-sveve”, Bari maggio 1973, pubblicato a cura del Centro di Studi Normanno-Svevi Università degli Studi di Bari in Fonti e Studi del Corpus mambranarum italicarum XI,  Roma 1975, pp. 261 e sgg.

[xxiv] www.archividelmediterraneo.org.

[xxv] Garufi C.A., cit., p. 50.

[xxvi] Garufi C.A., cit., p. 51, nota n. 3.

[xxvii] Pirro R., Sicilia Sacra II, p. 1157.

[xxviii] www.archividelmediterraneo.org.

[xxix] www.archividelmediterraneo.org

[xxx] L’Inveges qualifica Enrico “di natione Lombardo” (Inveges A., cit., p. 90). In relazione a questa origine, vedi Garufi G.A., cit., pp. 59-63.

[xxxi] “+ Sigillum signum Comitis Symeonis. + Signum manus Thomasie comitisse. + Signum manus Guillelmi filij Eufimij” (Garufi C.A., cit, pp. 76-79). “Signum manus Guglielmi filii Efimii” (Pirro R., cit., p. 1158).

[xxxii] Cusa S., I Diplomi Greci ed Arabi di Sicilia, Volume I Parte I, Palermo 1868, p. 74.

[xxxiii] Bresc H., Spazio e Potere nella Palermo Medievale, in Palermo Medievale, Testi dell’VIII Colloquio Medievale, Palermo 1989, a cura di Cataldo Roccaro.

[xxxiv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 221-225; Ughelli IX, coll. 198-20.

[xxxv] Guillou A., cit., pp. 98-100.

[xxxvi] La località (“Fulco”) parrebbe comparire anche in un atto dell’aprile dello stesso anno. Pratesi A., cit., pp. 269-272. Un Riccardo fratello di Νηέλου, risulta tra i testi che sottoscrissero un atto del 27 dicembre 1163 (a.m. 6672). Guillou A., cit., pp. 51-53.

[xxxvii] Pratesi A., cit., pp. 209-212; Russo F., Regesto I, p. 105.

[xxxviii] Pratesi A., cit., pp. 256-257.

[xxxix] “Ego Alexander de Polic(astro) testis sum. Ego Symon de Polic(astro) testis sum filius Alexandri”. Pratesi A., cit., pp. 295-297.

[xl] Rende P., Mito e storia di Crotone nella Magna Grecia, www.archiviostoricocrotone.it.

[xli] Pesavento A., Pellegrini ed eremi nella vallata del Tacina: il monastero di San Pietro di Nimfi, www.archiviostoricocrotone.it.

[xlii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, Abbazia di San Giovanni in Fiore, 2001, pp. 047-049.

[xliii] Guillou A., Les Actes Grecs, cit., pp. 63-65.

[xliv] Nel marzo del 1196, Gimarka, vedova di Johannes Mélèta, assieme ai figli Andrea e Bonos Phèllèos, vendevano a mastro Guillelmo, figlio del quondam mastro Martino, una casa di legno ereditata dal detto Johannes, posta nella terra (άστεως χώρας) di Policastro, in convicino (ένωρίαν) di S. Nicola de Tzagparanoi (Αγίον Νικωλάου του Τζαγπαράνων), ovvero “in s(anc)to nicolao de zapparuni”, confinante ad est con la casa del quondam Leone Koupellos, a ovest con la casa dell’acquirente, a nord con l’akroterio pubblico (άκρωτήριον τώ διμωσιακών) ed a sud con l’abitazione di Marotta Phousara. Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 66-70.

[xlv] Russo F., Regesto I, p. 105. Pratesi A., cit., pp. 209-212, 251-253, 265-267, 269-271.

[xlvi] Pratesi A., cit., p. 134.

[xlvii] Fiore G., Della Calabria Illustrata II, 1743, Ed. Rubettino, p. 596.

[xlviii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958, p. 134.

[xlix] Pratesi A., cit., pp. 122-125 e 132-135.

[l] Pratesi A., cit., pp. 112-116.

[li] Garufi C.A., cit., p. 52.

[lii] Böhmer J. F., Regesta Imperii IV, 3.1 ed. Baaken 1972, p. 164 n. 402. www.regesta-imperii.de.

[liii] “A cominciare dal Gennaio 1201 scompare però Bartolomeo de Lucy e con esso anche il titolo di conte di Paternò.”. Garufi C.A., cit., pp. 52-53.

[liv] Un atto del 1122, riguardante la conferma al monastero di S.ta Maria della Matina di tutti i possessi, le immunità e i diritti, da parte del principe Boemondo, figlio di Boemondo principe di Antiochia, e di sua madre Costanza, menziona, tra questi, quella relativa all’offerta di alcuni villani, effettuata precedentemente, “apud Taranto”, da Ruggero di Santa Severina. Pratesi A., cit., pp. 30-33.

[lv] Leoni N., Studi Istorici su la Magna Grecia e su la Brezia, dalle Origini Italiche in Fino ai tempi Nostri, seconda edizione, Napoli 1862, vol. II p. 149. Sisca D., Petilia Policastro, 1964, pp. 77-80.

[lvi] Tromby B., Storia Critico Cronologica Diplomatica del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, Tomo V, Napoli 1775, Indice p. 289 e Appendice I, XI.

[lvii] Tromby B., cit., Tomo V, libro I, p. 21 e nota XXXVIII posta al margine e nell’indice a p. IV.

[lviii] Tromby B., cit., Tomo V, Appendice I, XI.

[lix] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum 1865, p. 386 n. CCLXXX.

[lx] Scalfati Silio P. P., I falsi nei privilegi del periodo siciliano di Federico II, in Testimonianze manoscritte della Sicilia: Codice, Documenti, Pitture, Provincia Regionale di Palermo, 2006, p. 286. 00.03.1207, in Palermo (R, V, 1,1 n 591); 00.08.1209, in Messina (RI V, 4,6 n. 112). Consultati il 23.09.2016 sul sito Regesta Imperii Online. 00.07.1210, “Robinus de Policastro” (Kehr K. A., Die Urkunden Der Normannisch-Sicilischen Konige, Innsbruck 1902, p. 102).

[lxi] Jamison E., cit., pp. 458-460. Garufi C.A., I Documenti Inediti dell’Epoca Normanna in Sicilia, parte prima, Palermo 1899, pp. 97-99.

[lxii] Ughelli, cit. t. IX, pp. 368-371. De Leo P. (a Cura di), Documenti Florensi Abbazia di Fonte Laurato e altri monasteri dell’Ordine, 2004, pp. 75-77.

[lxiii] Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 487.

[lxiv] Pratesi A., cit., pp. 309-312.

[lxv] De Leo P., (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p.110. Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, s.n. 1998, pp. 22-26.

[lxvi] Pometti F., Carte delle Abbazie di S. Maria di Corazzo e di S. Giuliano di Rocca Fallucca in Calabria, in Studi e Documenti di Storia e Diritto anno XXII, 1901, pp. 300-306 n. XVI.

[lxvii] Reg. Ang. VII, 1269-1272, p. 206. Sisca D., Petilia Policastro, 1964, rist. 1996, p. 89 che cita: Registro 1271 A fol. III – Registri della Cancelleria Angioina – Vol. VII – anni 1269-1272 – Fonti De Lellis, pag. 391.

[lxviii] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo II pars I, pp. 519-522. Capialbi V., Opuscoli Vari, p. 189. Capialbi V., Memorie per servire alla Storia della Santa Chiesa Militense compilate da …, p. 20.

[lxix] Pratesi A., cit., pp. 364-366.

[lxx] Trinchera F., cit., pp. 400-402.

[lxxi] Pratesi A., cit., pp. 376-379.

[lxxii] Pratesi A., cit., pp. 380-382.

[lxxiii] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II p. 929.

[lxxiv] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II p. 1118.

[lxxv] “Vi è pure un ordine di recupero dall’erede del giudice Ruggiero di Policastro di VIII once d’oro e XV tarì per la bagliva della terra di Policastro” (Ebner P., Economia e Società nel Cilento Medievale, vol. II, p. 337).

[lxxvi] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1857, Tomo V pars I, pp. 610-623.

[lxxvii] Rende P., Vicende feudali della contea di Catanzaro, dalle origini al dominio di Giovanni Ruffo (sec. XI-XIV). www.archiviostoricocrotone.it

[lxxviii] De Leo P. (a cura di), cit., pp. XX, XXIV, XXXIII, 146-147, 152-154, 155-157, 158-160.

[lxxix] Archivio di Stato di Palermo, Diplomatico, Tabulario del monastero di Santa Maria di Malfinò poi Santa Barbara, TSMM 0025r, consultato attraverso il sito www.archivi-sias.it.

[lxxx] Trinchera F., cit., pp. 418-421.

[lxxxi] Vendola D., Rationes Decimarum Italiae nei sec. XIII e XIV, 1939, p. 203. Russo F., Regesto I, 2356. Scalise G.B. (a cura di), Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, 1999, p. 280.

[lxxxii] Eubel C., Hierarchia Catholica Medii Aevi, 1913, vol. I, p. 448.

[lxxxiii] “Joannes electus promisit sacro Collegio solitum charitativum subsidium die 2 Julii anno 1320 cujus meminit et Reg. Vatic. Joanni XXII. epist. 927. anni 4. caetera ignorantur.”. Ughelli, cit. t. VIII, p. 484.

[lxxxiv] Fiore G., cit. II, p. 535.

[lxxxv] Russo F., Regesto I, 2552.

[lxxxvi] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 217-218, che cita: Archivio Vaticano 8F. 73 EP. 431.

[lxxxvii] Pratesi A., cit., p. 452, n. 240, che cita: “cf. Gams, Series episcoporum, p. 922; Eubel, Hierarchia catholica, I, p. 448 donde risulta che fu sospeso da Giovanni XXII il 5 febbraio 1322; Taccone-Gallucci, Regesti dei romani pontefici, p. 425”.

[lxxxviii] Russo F., Gioacchino da Fiore e le Fondazioni Florensi in Calabria, 1959, p. 109.

[lxxxix] Pellicano Castagna M., Storia dei Feudi e dei Titoli Nobiliari della Calabria, II, p. 72; Caridi G., La spada, la seta, la croce, 1995, p. 5.

[xc] Rende P., Vicende feudali della contea di Catanzaro, dalle origini al dominio di Giovanni Ruffo (sec. XI-XIV). www.archiviostoricocrotone.it

[xci] Caridi G., cit., pp. 5-6.

[xcii] Reg. Ang. I, 1265-1269, p. 305.

[xciii] “Nicolao de Iannucio, de Policastro, provisio ut non molestetur pro rebellione commissa per dictam terram, quia ipse absens ab illa fuit. (Reg. 1269. S, f. 45)” Reg. Ang. IV, p. 34. I toponimi “la macchia de Iannaci” (ASN, Real Militare Ordine Costantiniano, Libri maggiori e platee, busta 78/I, f. 133v 2883) e “flumen Iannatii” (De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 214-217), ricorrono già nella prima metà del Cinquecento, mentre nella seconda metà dell’Ottocento troviamo: “guardiola di Iannacello” (Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 308) e “Jannace” (Carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis, Roma 1889). Attualmente esiste il luogo “Pietra di Iannace” (Sisca D., Petilia Policastro, 1964, p. 274).

[xciv] Caridi G., cit., p. 8.

[xcv] Reg. Ang. XII, p. 143. Maone P., Notizie Storiche su Cotronei, in Historica n. 4/1971, p. 219 nota 14.

[xcvi] Reg. Ang. XIII, p. 267. Reg. Ang. XVII, pp. 57-58.

[xcvii] Minieri Riccio C., Notizie Storiche tratte da 62 Registri Angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, 1877.

[xcviii] Reg. Ang. XXXVI, p. 81. Reg. Ang. XXII, p. 89.

[xcix] Reg. Ang. XXVI, pp. 53-54.

[c] “Crebbe Pietro di stato, perché, oltre Catanzaro, ebbe Cotrone, che fu nelli 1284, Mont’alto e Mesiano e poi, ne’ 1290, Mesuraca, Rocca Bernarda, Castelmonardo, Policastro e tant’altre città e terre per tutta la Calabria che potè darsi titolo di comes Calabriae.” (Fiore G., Della Calabria Illustrata III, ed. Rubettino 2001, p. 95). “E già che siamo nel filo de’ suoi dominanti, l’anno 1290 vi ritrovo signore Pietro Ruffo Conte di Catanzaro;” (Fiore G., Della Calabria Illustrata I, ed. Rubettino 1999, p. 452). “… nel 1290 Pietro Ruffo conte di Catanzaro, oltre la città di Catanzaro e la castellania di Crotone, «si trovava possedere Misuraca, Roccabernarda, Policastro, Castell’a mare, Castelmenardo, Badulato, S. Giorgio, S. Senatore, Gamaiore, Pantona, Buda, Cotronei e la Catona»”. (Maone P., Notizie Storiche su Cotronei, in Historica n. 4/1971, p. 219 che cita Ferrante della Marra duca della Guardia).

[ci] Reg. Ang. XXXVIII, p. 182.

[cii] Vaccaro A., Kroton, I, ed. Mit 1965, p. 309.

[ciii] “Naturalmente, nessun vassallo, può abbandonare il suo borgo ed il suo signore, ed è diritto del signore invocare dallo Stato tutti gli aiuti possibili per ricuperare i vassalli fuggiaschi. La Curia accorda, normalmente, gli aiuti richiesti, ma se il fuggitivo ha abitato per dieci anni una terra demaniale, non può più essere rivendicato dal feudatario. Sempre così : il Re e il Duca di Calabria seguono in sì fatta materia, un criterio assolutamente rigido. Si risponde così al Conte Pietro Ruffo di Calabria che si lamenta di essere stato abbandonato da numerosi vassalli;”. Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 293; che cita Reg. Ang. n. 191 c. 174, 29 maggio 1309.

[civ] Mannarino F.A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723, pp. 58-59.

[cv] Pellicano Castagna M., cit, II, p. 73.

[cvi] “Pietro Ruffo, marito di Giovanna d’Acquino, nel 1309 le costituisce la dote sul castello di Mesoraca”. Sisca D., Petilia Policastro, rist. 1996, p. 95 che cita: Sicola Sigismondi Repertorium 3° Regis Caroli II – pag. 866 fol. 53 t.

[cvii] Ventura P., Maone P., Isola Capo Rizzuto nella scia della grande Crotone, 1981, pp. 257-258; che cita ASN, C. De Lellis (MS), Notamenta, ecc. cit., Pars I, Vol. II, f. 1308.

[cviii] Sisca D., Petilia Policastro, rist. 1996, p. 95 che cita: Reg. Ang. 1327 A fol. 44 t.

[cix] Sisca D., Petilia Policastro, rist. 1996, p. 96 che cita: Reg. Ang. 283 e 53 – 11 luglio 1330.

[cx] “Un anno dopo il conte Giovanni Ruffo dona al cavaliere Ruggiero di Stella i feudi di Policastro.”. Sisca D., Petilia Policastro, rist. 1996, p. 96 che cita: Reg. Ang. 1331-1332 A fol. 31.

[cxi] “La moglie del conte Goffredo fu Giovanna Ruffo figliuola del Conte di Catanzaro, e gli portò in dote Policastro con i Casali: (al margine: “1333-1334 B. 194.”) con la quale hebbe due figliuoli, Roberto e Tomaso; (al margine “1345 A. 59.”) oltre due femine”. Ferrante della Marra Duca della Guardia, Discorsi delle Famiglie Estinte, Forastiere, o Non comprese ne’ Seggi di Napoli, imparentate colla Casa della Marra, Napoli 1641, p. 249. “E la quinta Signora divenne Giovana Ruffa sua figliola, e per lei Goffredo di Marzano Conte di Squillaci, e grand’ammirante del Regno nel mille trecento trenta.” Mannarino F. A., cit.

[cxii] Ventura P., Maone P., cit., p. 258.

[cxiii] www.archiviodistato.firenze.it

[cxiv] Mannarino F.A., cit., p. 59.

[cxv] Pacella F., Un barone condottiero della Calabria del sec. XIV–XV: Nicolò Ruffo marchese di Cotrone, conte di Catanzaro, in ASPN, III, 1964, p. 64.

[cxvi] Barone N, Notizie storiche tratte dai Registri di Cancelleria del re Ladislao di Durazzo, ASPN, fasc. III, 1887, p. 22.

[cxvii] Pacella F., cit., p. 66.

[cxviii] ASV, Reg. Vat. 355, f. 287.

[cxix] Russo F., Regesto II, 10011.

[cxx] In un documento del 1435 Giovanna Ruffo si sottoscrive: “Ego Joanna Ruffo de Calabria Principissa Salerni, Marchionissa Cotronis, Dei Gratia Comitissa Catacii, Baroniarum Altavillae et Tabernae Domina”, Fiore G., cit., I, 206.

[cxxi] Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, 1963, pp. 182-183. “Dopo però il mille quatrocento trent’uno appare utile Signore di detta Città D. Antonio Centelles Ventimiglia, che fu poi anche Principe di Santa Severina per le raggioni della Contessa, e Marchesa Erichetta Ruffa sua moglie figlia, ed erede del Marchese Nicolò sopradetto” (Mannarino F.A., cit., p. 59).

[cxxii] Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, 1963, pp. 277-279.

[cxxiii] Cozzetto F., Mezzogiorno e demografia nel XV secolo, Soveria Mannelli, 1986.

[cxxiv] Fonti Aragonesi II,  p. XL e pp. 49-50.

[cxxv] Fonti Aragonesi II,  p. LIX e pp. 52-53.

[cxxvi] Fonti Aragonesi II,  p. LXXXIV e pp. 60-61.

[cxxvii] Fonti Aragonesi II,  p. CX e pp. 109-110.

[cxxviii] “Die XXVIIII ianuarii V indictionis in Cusenza. Jo Francisco de Alexandro locumtenente de lo magnifico Renczo de Afflitto regio thesaurario ducatus Calabrie agio reciputo da Pulicastro per mano de Johanni Serasarii ducato uno, grana sidichi et foro in moneta et sono per la nova imposecione de lo novo carlino de Natali de lo presente anno. duc. I, gr. XVI.”. Fonti Aragonesi V, p. 205.

[cxxix] AVC, Processo grosso cit. ff. 74-96.

[cxxx] Sisca D., Petilia Policastro, rist. 1996, p. 116, che cita “Licterarum Curiae, 22° 1465 e 1466, n. 164”. Ibidem, p. 115, che cita “Magni Sigilli, 15 n. 23 Introitus, anni 1469”. Ibidem, p. 116, che cita “Licterarum Curiae, 4° 1470-1471”. Ibidem, p. 116, che cita “Magni Sigilli fol. 42”. Il 27 agosto 1490, in relazione alla “exapcione de li dinari del tarì et carlino per foco” per la costruzione delle fortificazioni, “Policastrum” risulta tassata per “ducatos tricentos quinquaginta d. CCCL”. Fonti Aragonesi, Vol. XIII, Napoli 1990.

[cxxxi] “… in uno Privilegio concesso alla Città nell’anno mille quattrocento sessanta sette (sic) nel quale alludendo il Real Principe alla generosa fidelità de’ Policastresi in quella prima, ma terribil congiura delli suoi Baroni …”, Mannarino F.A., cit., p. 21. “Considerando, che anche i cittadini di Policastro vantano diritti sul detto corpo Rivioti; ed in sostegno di questo assunto presentano il privilegio accordato a quella città nel 1468 da Ferdinando d’Aragona, dove espressamente è stabilito l’uso civico di pascere in detto fondo per tutti i tempi dell’anno”, Oliveti L., Istruttoria Demaniale per l’accertamento, la verifica e la sistemazione del demanio civico comunale di Cotronei, 1997, p. 11. “Per la concessione del 27 ottobre 1468, ad opera di Ferdinando d’Aragona, della montagna di Cariglione, nella regia Sila, a pro’ del comune di Policastro”, ASN, Archivio storico dell’Archivio di Stato di Napoli, Prima sezione, Protocollo degli affari. www.archiviodistatonapoli.it.

[cxxxii] “Ferdinando I, richiamando alcuni privilegi del padre, il 29 gennaio 1474 affermò alcuni capitoli di Policastro in provincia di Calabria.”. Sisca D., cit., p. 116, che cita “Quedam privilegia regi Alphonsi, Magni Sigilli, 6^ Ind. 1474”.

[cxxxiii] Tra il 1471 e il 1477 Ferdinando de Almeda ebbe in concessione, S. Severina, Policastro e Le Castelle di Mare. Falanga M., Il manoscritto da Como fonte sconosciuta per la storia della Calabria dal 1437 al 1710,  in Rivista Storica Calabrese n. 1-2/1993, p. 252.

[cxxxiv] Il 14 ottobre 1496 re Federico vendeva ad Andrea Carrafa la città di Santa Severina con il titolo di conte, i casali di Cutro e S. Giovanni Minagò, le terre di Castellorum Maris, Rocca Bernarda, Policastro e Cirò ed i feudi di Crepacore e Fota, con 300 ducati annui di funzioni fiscali sopra dette terre per il prezzo di ducati 9000 (AVC, Processo grosso s.c., f. 490). “Privilegio di concessione della Città di Santa Severina, del Castello di Policastro et castro Roche Bernaude, castro Isprigro et il Feudo di Crepacore della Provincia di Calabria ultra e di più annui ducati 300 sopra li fiscali di detta Città.” (Falanga M., Il Manoscritto da Como Fonte Sconosciuta per la Storia della Calabria dal 1437 al 1710, in Rivista Storica Calabrese n. ½ 1993, pp. 256-257).

[cxxxv] AVC, Processo grosso s.c., ff. 451v-452r.

[cxxxvi] ASN, Ref. Quint. 207, ff. 78-122.

[cxxxvii] “… i ribelli di Santa Severina trovarono appoggio a Cutro e a Policastro e in tutto il paese tra la piana di Crotone e quella di Sibari, e solo nel 1516 se ne completò la repressione.”. Galasso G., Economia e Società nella Calabria del Cinquecento, p. 285.

[cxxxviii] De Frede C., Rivolte Antifeudali nel Mezzogiorno d’Italia, 1962, pp. 10-11.

[cxxxix] Mannarino F. A., Cronica della celebre ed antica Petilia detta oggi Policastro, manoscritto, f. 14v.

[cxl] “Reintegratio seu platea bonorum demanialium, et feudi terrae Policastri fatta per Franciscum de Jasio sub anno 1520.”. AASSS, 2 A, f. 87v, foto 116. Il 18 maggio 1524, in relazione alle richieste del procuratore dell’arcivescovo di Santa Severina nei confronti del conte Andrea Carrafa, quest’ultimo disponeva al capitano di Santa Severina che tali richieste fossero soddisfatte. Al primo punto si evidenziava che l’università di Policastro avesse indebitamente esatto nei confronti dell’arcivescovo “per certe Terre che possiede detta Chiesa nel Territ.o di Policastro” ducati 5, mentre ne pretendeva altri 40 “per la contributione della compositione” che l’università doveva pagare “per la gratia appuntata della Reintegratione fatta per M.s Francesco Jasio Reg.o Commiss.o in la Terra e tenimento p.to”. Reintegrazione che secondo il detto procuratore la chiesa di Santa Severina non era tenuta a pagare. Anche in relazione alla “Essattione della decima dell’agni Et frutti lattocinij di tutte le mandre de pecore” che ogni anno “stacciano” nei “Tenimenti della Diocese di S.ta Severina”, essendo stati reintegrati alla corte comitale “li Cursi del tenimento della Terra nostra di Policastro”, si ordinava che la chiesa potesse riscuotervi le decime cosi come avveniva per tutte le madre che pascolavano in altri luoghi della diocesi. AASS, 1A, Mensa Arcivescovile, foto 68 e 71-72; 7A, foto 113-114.

[cxli] “… la relazione, relativa a Policastro, di un agente mediceo che, nella sonda metà del secolo XVII, ricordava che il conte di Santa Severina, Andrea Carafa, “l’anno 1520 impetrò da Sua Maestà Cattolica la deputazione di un giudice, detto Francesco Jasio, che convocati li vicini, dichiarò li confini di Policastro e l’entrate di esso, reintegrando il detto conte Andrea di tutti li suffeudi, giurisdizioni et altro (…) Ma perché il conte Andrea con tal reintegrazione spogliò li cittadini dei loro privilegi e beni, vedendoli ridotti a gran miseria, venne con esso loro ad alcune capitolazione (…) Tutto questo però non fu bastante ad acquietare i popoli, che tutti si volevano partire, onde, morto il Conte Andrea, e succeduto nel feudo il Conte Galeotto suo nipote l’anno 1527, ei fu necessitato a sottoscrivere nuove capitolazioni per le quali ei recedette in tutto dalla sopr’accennata reintegrazione e diede ai cittadini molti privilegi”. Galasso G., Economia e Società nella Calabria del Cinquecento, p. 293, che cita “ASF, Auditori alle Riformagioni, f. 274, c.n.n. Cfr. anche f. 271”.

 

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Gli 85 cutresi che spostarono la ferrovia

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La stazione di Crotone (allora Cotrone) agli inizi del Novecento.

“Prego la Camera a dichiarare d’urgenza la petizione numero 10701, colla quale parecchi cittadini di Cutro in Calabria, venuti in cognizione che il Ministero avesse intenzione di approvare il progetto presentato dalla compagnia delle ferrovie Calabro-Sicule pel tracciato della linea Jonia da Cotrone alle foci del fiume Tacina, e venuti in cognizione che questo tracciato invece di tenere la linea più breve, più economica per lo Stato e meglio proficua per la parte più popolata di quelle contrade, seguirebbe per tutta la sua estensione le lunghe risvolte del littorale Jonio per Isola e Castelle, percorrendo così luoghi deserti e spopolati nel solo interesse della compagnia, alla quale naturalmente conviene dare alle linee il massimo sviluppo possibile, invocano dalla Camera un voto in favore della linea la quale tocchi o meglio si avvicini agli importanti comuni di Cutro, Petronà, Mesuracca, Policastro, Cotronei, Rocca Lombarda (è da intendersi Roccabernarda), San Mauro, Santa Severina, Scandale, quale più conveniente alle popolazioni ed allo Stato ………”.

A parlare è il deputato Giovanni Cadolini, è il 4 aprile del 1865 e siamo a Torino a palazzo Carignano, sede della Camera dei Deputati del neonato Regno d’Italia. Tra qualche mese la Camera verrà trasferita a Palazzo Vecchio a Firenze, capitale provvisoria in attesa della sede definitiva di Roma, che al momento è ancora saldamente in mano al papa Pio IX.

Giovanni Cadolini, 34 anni, è un ingegnere idraulico cremonese, ha partecipato alla guerra del 1848, alla difesa di Roma nel 1849, alla spedizione dei Mille nel 1860 ed era con Garibaldi quando questi fu ferito sull’Aspromonte. Con le prime elezioni politiche del 27 gennaio 1861 è divenuto deputato.

Parteciperà anche alla 3^ guerra d’indipendenza come comandante di un reggimento dei Cacciatori delle Alpi, sarà deputato per nove legislature, segretario generale del ministero dei lavori pubblici e poi nel 1902 senatore.

Ma torniamo al suo intervento che è incentrato sul tema delle ferrovie.

Al momento della proclamazione dell’unità d’Italia la rete ferroviaria era di circa 2000 km, di questi solo 130 erano dislocati nel meridione, nell’ex Regno delle due Sicilie. Subito si capì che lo sviluppo della rete ferroviaria era indispensabile per connettere un paese geograficamente allungato ed orograficamente penalizzato.

Le reti ferroviarie esistenti, quasi tutte ubicate al nord, erano per la maggior parte proprietà di società private, che agivano in regime di concessione, realizzando l’opera e poi gestendone l’esercizio. Queste società erano prevalentemente a capitale straniero.

La costruzione della linea Reggio Calabria-Taranto fu affidata dallo Stato alla società Vittorio Emanuele, a capitale francese. Questa subappaltò i lavori ad altre società, poi ebbe delle difficoltà e le opere furono poi portate a compimento dalla Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali.

Quest’ultima era una società a capitale italiano facente capo al conte Bastogi (la Bastogi, tutt’ora esistente,è la più antica società italiana quotata in borsa). I vicepresidenti della società erano il barone Bettino Ricasoli, presidente del consiglio succeduto a Cavour, ed il barone Giovanni Barracco, latifondista crotonese. É significativo che sui 470 km della linea Reggio Calabria-Taranto circa 100 attraversavano o erano in prossimità di terreni della famiglia Barracco, proprietaria allora di circa un terzo della Calabria. Ovviamente anche i grandi latifondisti del sud traevano giovamento dalla rete ferroviaria, che consentiva loro di raggiungere velocemente i ricchi mercati del nord senza fare ricorso alle più lente navi.

Ma anche quegli 85 cittadini di Cutro (il numero è espressamente citato negli atti parlamentari), estensori della petizione, cui fa cenno Cadolini, avevano capito la peculiare importanza della ferrovia ed i vantaggi che avrebbero potuto trarre dalla sua vicinanza. E riuscirono nello scopo, infatti il tracciato nella zona dal Tacina a Crotone, che costeggiando il litorale avrebbe dovuto interessare Le Castella ed Isola, fu variato e spostato all’interno, per come è attualmente.

Senza volerlo questi nostri conterranei ci hanno fatto un favore, infatti la zona di Le Castella-Isola Capo Rizzuto-Crotone è l’unica del litorale ionico dove non sia presente il trittico “mare-binario-strada” che connota tutta la nostra costa e che spesso penalizza l’accesso al mare.

Il deputato Cadolini fu abile nell’incentrare il suo intervento sull’aspetto socio-economico della questione. Dice che la richiesta variazione di tracciato consentirà una riduzione del percorso e, quindi, dei costi e che si deve agire nell’interesse della popolazione e dello Stato e non della compagnia ferroviaria. Musica per le orecchie del ministro delle finanze di allora, quel Quintino Sella, ingegnere idraulico e scienziato, che dell’economia fino all’osso era il propugnatore.

Nel 1875, dopo ben 10 anni di lavori, tutta la linea ionica fu completata. L’ultima tratta fu proprio la “Cotrone – Marina di Catanzaro”, dove influì molto la presenza dell’opera ingegneristica più importante di tutto il tracciato, la galleria di Cutro di circa 2800 m di lunghezza.

Per venti anni tutte le merci ed i passeggeri da e per la Sicilia transitarono sul lato ionico della Calabria. Nel 1895 fu infatti completata la linea tirrenica Eboli-Reggio Calabria e lentamente quella ionica cominciò a perdere importanza, sino a giungere all’attuale stato comatoso.

Carta delle ferrovie del regno d'italia 1876

Particolare della carta delle ferrovie del regno d’Italia (1876). Collezioni Claudio Vianini www.miol.it/stagniweb

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Immagini dal convento dei Cappuccini di Crotone

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